Pisa, ottobre 1975
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Il conferimento, in questa solenne seduta, del premio Galileo Galilei ’75 dei Rotary Italiani mi dà un’occasione quanto mai felice e commovente di esplorare la parte più contraddittoria della mia natura.
Come mai non sentirsi, prima di tutto, pieno di profonda gratitudine per i promotori rotariani e per l’illustre giuria, presieduta dal prof. Bolelli%20Tristano”>Bolelli, che mi ha ritenuto degno di ricevere un premio di così alto prestigio internazionale, premio tanto più gradito in quanto non era aspettato da chi lo ha vinto.
Ma se la gratitudine è completa, la gioia e la fierezza di vedersi attribuito tale premio non vanno senza umiltà né senza la punta di dubbio che fa nascere in me l’elenco dei miei predecessori, tutti uomini di primissimo piano internazionale nei loro rispettivi campi di ricerche. Chi potrebbe sentirsi a proprio agio, misurato con tali campioni?
Ma non vorrei soffermarmi sulla naturale complessità degli stati d’animo del vincitore. Dopo tutto, non conviene interrogarsi troppo a lungo sui propri meriti quando questi meriti vengono riconosciuti da una giuria così insigne per l’acutezza e la sovrana disponibilità dei suoi giudizi.
Tralasciamo dunque, per un breve momento almeno, ogni modestia, seppure sincera e sentita. Mi sia invece concesso di trar vantaggio da questa felicissima ricorrenza per fare quello che senza il Premio Galilei non avrei forse mai avuto né l’idea né l’occasione di fare: cioè chiarire dinanzi a voi e, se posso dire, dinanzi a me stesso, il senso della mia attività di storico del Medioevo italiano. Forse, quest’autoritratto potrà dare qualche complemento di colorata soggettività alle belle, troppo lusinghiere motivazioni della giuria. Vi prego soltanto di perdonarmi l’esagerato richiamo a dati autobiografici: mi valgano come scusa la mia naturale alacrità, l’allegrezza del momento e la quattordicenne tradizione del premio Galilei.
Dunque, capita quest’anno che il premiato sia un francese come – mi è caro ricordarlo – è già capitato al Prof. André Pézard, rispettato maestro degli studi danteschi in Francia. Ma la mia prima confessione sarebbe per dirvi che questo francese scelto per oggi si sente poco rappresentativo del tipo nazionale più comune. Di stirpe, sono puro catalano, attaccatissimo alla mia terra del Rossiglione, quest’estremo lembo dei Pirenei dove l’aspra montagna si butta giù nel Mediterraneo, tra Francia e Spagna. Sono nato in Africa, sull’altra sponda del Mare Nostrum. Della mia gioventù in Algeri la bianca città e in Orano, in un ambiente ancora quasi seicentesco di presidio spagnuolo, non mi rimangono che memorie sbiadite di un mondo perduto.
Poi, per seguire le peregrinazioni di un padre magistrato, sono tornato in Francia, senza però lasciare il Mediterraneo, e ho compiuto studi liceali a Marsiglia. Se aggiungo che sono sposato ad una còrsa, è ben chiaro che il vostro francese risulta più che altro un latino.
Dire che mi sento più a casa mia qui in Italia che nella Francia del Nord dove sono oggi confinato per ragioni accademiche sarebbe senz’altro vero, se uno non contasse sulla ben nota adattabilità della gente latina.
Sin dall’inizio, dunque, le mie affinità ed esperienze mi allacciavano in maniera essenziale all’Italia e, direi, più particolarmente a Pisa. Dicendo questo, penso al legato di civiltà pisana alla Corsica divenuta ormai mia terra di adozione; alla Corsica dove questo legato risplende tuttora nelle belle, troppo poco conosciute chiese romaniche, dette appunto da noi pisane.
Ma anche come catalano, mi piace pure rammentare che la parola stessa di Catalaunia ha visto la luce per la prima volta in una fonte pisana del primo 1100, nel ben noto Liber Maiolichinus de gestis Pisanorum illustribus. Quest’ultimo richiamo mi fa ritornare alla mia vocazione di medievalista italianista, tanto per riferirmi a criteri accademici riconosciuti in Francia, dove ho l’onore di ricoprire alla Sorbona una cattedra esplicitamente riservata alla storia del Medioevo italiano.
Nelle condizioni dell’immediato dopoguerra, non c’era da noi possibilità di proseguire efficacemente studi storici senza “salire” a Parigi. Così, un quarto di secolo fa, salii anch’io da Marsiglia, dopo aver vinto il concorso di ammissione alla Scuola Normale Superiore, sorella, non direi più grande ma soltanto un po’ più anziana di quella di Pisa. E anche questa qualità di normalista mi ha creato un legame prezioso coi miei cari maestri pisani, i Proff. Ottorino Bertolini e Cinzio Violante. Il primo ha seguito con paterna sollecitudine il lento maturare delle mie ricerche in un campo suo prediletto, quello della formazione dello Stato della Chiesa. Il secondo, colla sua generosità intellettuale e la sua alta capacità a rinnovare problemi e metodi è sempre stato per me un prezioso stimolo. A tutti e due, mi riesce molto gradito di esprimere, proprio in questa sede, i sensi della mia profonda riconoscenza.
Ma ritorniamo dal presente al passato e dalla Normale di Pisa a quella di Parigi. Al giovane meridionale che iniziava il suo addestramento nel mestiere di storico 25 anni fa, Parigi, malgrado il grigio del suo cielo, malgrado la pomposa classicità dei suoi monumenti, offriva in compenso notevoli opportunità di formazione culturale e tecnica.
Certo, la guerra aveva tagliato senza pietà nella compagine dei nostri maestri. Il più grande medievalista francese, Marc Bloch, era stato assassinato dai Tedeschi nel ’44. Era anche tragicamente scomparso il suo migliore allievo diretto, André Déléage. Ma la loro voce non taceva. Avevano prospettato per la generazione che si faceva avanti i filoni potenzialmente più ricchi delle nuove scienze sociali. Ci avevano lasciato il testamento esemplare delle loro opere. Mi piace riassumere l’insegnamento del Bloch in una “boutade” del nostro grande pittore ottocentesco Dominique Ingres. Ingres amava ripetere ai suoi allievi che “le dessin est la probité de la peinture”. Così, nella mia immaginazione di giovane, ho spesso creduto di sentire la voce del Bloch ricordare che l’erudizione è la probità della storia. Dalla lettura del suo programmatico volume postumo significativamente intitolato Apologia per la Storia o il mestiere di storico, scaturiva un’esaltante visione dell’avvenire delle nostre ricerche.
Due imperativi ci erano ben chiari e mi sembrano tuttora validi:
– il primo, ho detto, è la dura esigenza dell’erudizione. Una erudizione sempre indirizzata per primo alla lettura critica delle fonti scritte. Esigenza quanto mai urgente, oggi come ieri, perché se la storia del Medioevo vuole rinnovare i suoi problemi ed i suoi metodi, lo farà sempre fondamentalmente attraverso una rinnovata lettura delle fonti scritte.
– Il secondo insegnamento del Bloch veniva a completare questa lezione di austerità con un ardente richiamo alla necessità di allargare con audacia il campo tradizionale della storia. Il combattimento suo era anche fatto di robuste richieste per la storia concepita come scienza sociale senza confini disciplinari. Lo storico, scriveva nella suddetta Apologia, è come l’orco delle favole: deve trovare materia per le sue ricerche ovunque fiuti l’odore della carne umana. Allargandosi il campo problematico della storia, così s’allargano anche le nostre esigenze metodologiche. Se la storia è ormai diventata, o comunque non può sopravvivere se non come, diciamo per brevità, antropologia retrospettiva, deve mantenere rapporti sempre più stretti coll’etnologia e la folcloristica, colla sociologia, coll’geografia” target=”blank_”>antropogeografia, e via dicendo. A tal punto, viene a mutare la sensibilità stessa dello storico. Abituato a padroneggiare le tecniche abbastanza ascetiche della critica tradizionale (Paleografia, Diplomatica, storia del Diritto, Archeologia monumentale, ecc.), è adesso messo di fronte a nuovi mezzi e, direi, nuove mediazioni tecniche. Se vogliamo, tanto per prendere un esempio familiare alla mia esperienza personale, se vogliamo, dico, ricostruire il paesaggio naturale ed agrario di una regione italiana intorno al Mille, dobbiamo ricorrere senz’altro ai dati offertici dall’erudizione tradizionale. Le pergamene, i regesti dei monasteri, ci mettono in grado di capire e quasi di vedere ad occhio nudo la formazione, per esempio, della macchia, contemporanea all’invenzione lessicale e alla diffusione della parola stessa di “macchia”, ignota alle fonti prima del Mille. Direttamente o indirettamente (attraverso, per esempio, la toponimia), le stesse pergamene sono ricche di informazioni su fenomeni concomitanti: con lo sviluppo demografico, ben percepibile dal Mille e anche prima, si avvertono il progresso del castagneto da frutto, i disboscamenti a danno della quercia, le conquiste di nuovi spazi guadagnati per l’oliveto o la coltura promiscua. La raccolta attentissima di questi dati tra le fonti scritte è sempre necessaria, anzi fondamentale. Ma ormai, non basta più. Bisogna confrontarla con altri dati fornitici dalle scienze naturali come la fitosociologia o la pollinologia che ci consente, attraverso lo studio dei pollini fossilizzati, di stabilire con cronologia assoluta l’evoluzione del paesaggio fitogeografico. Ed è chiaro che questi nuovi dati possono servire a confermare ed affinare le nostre conclusioni, ma possono anche contraddire ipotesi basate sui testi. Teniamo anche presenti i nuovi orientamenti dell’archeologia medioevale che non è più soltanto archeologia monumentale e quasi sorella più piccola della storia dell’arte. E’ diventata disciplina autonoma, attenta a scavare abitati rurali scomparsi durante il Medioevo. Ci dà preziose informazioni sui livelli più umili della vita materiale, delle tecniche, dell’alimentazione, ecc.
Cambiano, dunque, la nostra visuale ed i nostri metodi. Ne esce fuori, notevolmente arricchito, un nuovo patrimonio di studio. Saranno detti questi “documenti” o “monumenti”? Mi sembra che la parola più adeguata sia quella di “beni culturali”, secondo concetti oggi così felicemente messi in rilievo. “Beni culturali”: cioè non più soltanto monumenti, affreschi, cimeli esposti nelle chiare vetrine dei musei o giacenti nel silenzio delle biblioteche e degli archivi. Tutto questo, va dato per scontato, ma anche in un senso più vasto, si tratta di oggetti e mezzi potenzialmente offerti alla nostra capacità di intuire il passato e anche alla capacità non del tutto imprevedibile dei nostri figli. Chi ha la fortuna di vivere o di lavorare in Italia, certo, non indugerà a chiamare beni culturali il sereno e raffinato equilibrio dei paesaggi rurali o cittadini, la complessa organicità di un villaggio laziale arrampicato da un millennio sul suo poggio, o la chiara e logica compostezza della casa settecentesca di un mezzadro toscano. E’ diventato parte essenziale, secondo me, del nostro compito di storici non soltanto formare studenti, promuovere ricerche sofisticate, scrivere libri più o meno leggibili e comunque ad uso interno di pochi e coraggiosi colleghi. Dobbiamo attuare nel pubblico una sensibilità sempre più acuta, un rapporto sempre più intimo di comunanza con tali ricchezze culturali delle quali, certo, l’Italia è più ricca di ogni altro paese.
Parlando in modo generico dei nostri compiti, avrete capito che non faccio altro, una volta di più, che parlare di me stesso. Questa storia senza confini, “totale” se si vuol usare una parola molto ambiziosa, è quella che ho sempre sognato ed alla quale ho voluto dedicarmi. Ma come attuarla in concreto? E’ a questo punto, credo, che mi è stato di valido aiuto l’orientamento specifico della storiografia francese. Di fatto, se va innegabilmente riconosciuto alla storiografia italiana il merito singolare di aver realizzato un perfetto collegamento tra storia e storia del diritto, la nostra scuola storica ha in pari modo saputo legare storia e geografia. Sin dall’ottocento, è sempre stata attenta ad esaminare i fatti istituzionali, giuridici ed economico-sociali nella prospettiva del continuo intrecciarsi delle vicende di uomini con gli elementi dell’ambiente naturale nel quale l’uomo vive ed opera. Non si tratta, certo, di postulare non so quale determinismo per cui l’uomo risulterebbe oggetto passivo della natura. Tutt’al contrario, spetta allo storico di animare una ricca dialettica tra i fattori naturali e quelli culturali (tecnici, sociali, religiosi, ideologici).
E’ ben chiaro che tale esigenza di “globalità” nell’approccio delle società richiede, per poter attuarsi, che la ricerca si configuri dentro un quadro regionale. Per ragioni, certo, pratiche. Perché sorpasserebbe ovviamente le nostre singole capacità di meditare tale ricostruzione in un quadro geografico o documentario troppo vasto. Ma anche, credo, per ragioni teoriche più profonde: il Medioevo è stato in Occidente il momento privilegiato nel quale la ricostruzione dei poteri si è imperniata su cerchi concentrici di strutture territoriali e giurisdizionali. Verso il Mille, il castello trova il suo respiro nel districtus della signoria di banno. Dopo di che, la città a sua volta si estende nel contado ormai incastellato e lo ricompone dentro una cerchia più diffusa di poteri che sboccano finalmente nel principato rinascimentale.
L’analisi delle prime tappe di questo lento processo di ricostruzione partita dal basso, ha dato alle mie ricerche la sua linea direttrice. Durante un periodo di tirocinio, negli anni ’50, ho tirato fuori da un tipo di fonti spiccatamente italiano – gli statuti dei comuni rurali trecenteschi – un’immagine globale della convivenza sociale nelle campagne lombarde su modelli elaborati nell’ambiente delle città dominanti. Ma ho presto sentito la necessità di abbandonare una via d’approccio troppo propensa a privilegiare la città come fattore storico fondamentale della civiltà medioevale in Italia. Con spirito di giovanile decisione, ho volto le spalle alla tradizione storiografica coll’intento di liberarmi della sempiterna problematica dei rapporti tra città e contado. Volevo iniziare un tipo di ricerca che, per l’Italia, non aveva evidenti precedenti: cioè studiare per se stessa, direi l’Italia essenziale del Mille, quella del 99% di contadini e non quella dell’1 % di mercanti.
Mi affascinavano i suoi paesaggi, l’assetto degli abitati, i molteplici modi di produzione agraria, di profitto signorile, di ordinamento privato nell’ambito della famiglia e della religione, di ordinamento pubblico nell’ambito della feudalità, delle giustizie signorili, del travagliato nascere dello Stato feudale.
Per il resto, tutto è andato così piano e liscio da non richiedere oggi molti commenti. La regione scelta è stata il Lazio. Una scelta, questa, che s’imponeva a me per varie ragioni. La regione laziale, molto diversificata in se stessa, era ricchissima di problemi di contatto e d’insediamento umano; ricchissima pure di fonti degnamente pubblicate a cura della Società Romana di Storia patria o inedite in folti archivi monastici, capitolari, statali, comunali. Per di più, il Lazio era fortunatamente privo di queste grandi città fuori della scala comune del Medioevo che avevano in altre regioni polarizzato l’interesse degli studiosi. E poi, forse dovrei dire prima di tutto, c’era il centro della ricerca: Roma, dove, quale membro della Scuola francese, ho vissuto i miei anni più belli. Per una fausta e direi per me molto commovente coincidenza, l’”École française de Rome”, al momento preciso nel quale mi viene conferito questo magnifico premio, compie e festeggia, proprio questa settimana, un intero secolo di feconda attività scientifica, ricca di ampi contributi alle indagini su Roma e sull’Italia. Accanto all’École française, stava pure, durante questi anni fecondi, l’Istituto storico italiano per il Medioevo, presieduto dall’illustre maestro Prof. Morghen. Mi è caro ricordare l’apertura scientifica di quest’istituzione, unica nelle strutture accademiche europee, come sono pure uniche altre istituzioni italiane messe al servizio della medievistica internazionale come il Centro di studi di Spoleto sull’alto Medioevo. La saggia operosità dell’École française, la calda accoglienza dell’Istituto per il Medioevo, l’intensità degli scambi intellettuali coi vari istituti stranieri di Roma formano l’indimenticabile sfondo delle ricerche che avete oggi così magnificamente premiate.
E’ ora di concludere. Ho parlato delle mie fatiche. Ho sentito le motivazioni dell’illustre Giuria. Se ho potuto dare qualche contributo originale alla storia del Medioevo italiano, come oggi mi si cerca di convincere, assegnandomi questo splendido Premio, avrò la semplicità di confessare che ne sono oltremodo contento.
Di cuore, grazie a Voi, Rotariani italiani dell’ospitalità accordatami in questi giorni; grazie a tutti Voi che siete venuti a presenziare questa cerimonia in mio onore, grazie per questa targa d’oro e questa bellissima statuetta; grazie, direi per finire, a Emilio Greco, uno tra i più grandi scultori moderni che, dando forma e pensiero alla materia, trasmuta i nostri sogni in sapienza.