Pisa, ottobre 1976
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Accettate il mio ringraziamento come una dichiarazione d’amore.
Tornando nel mio passato, mi viene in mente una serata a Siena – intorno al 1930 – nella quale persi irrevocabilmente il mio cuore per l’Italia – con tutte le conseguenze che vanno su e giù fino alla giornata di oggi collo splendore del premio Galilei.
Mi rivedo, adolescente entusiasta, dopo ricerche terminate nella Biblioteca Comunale di Siena, scomodamente seduto su una sedia di ferro dell’allora unico e piuttosto rurale caffè nell’angolo della piazza. Sul tavolino, vino rosso, olive e un florilegio con sonetti e liriche di Dante e Petrarca, Foscolo Leopardi Carducci e D’Annunzio.
E come sfondo a tutto questo ben di Dio una delle più belle piazze del mondo nella penombra serale. Completavano tali impressioni e sentimenti i molteplici strilli delle rondini che a centinaia nell’aria circoscrivevano l’armonia dell’architettura.
Voi che siete nati sotto il cielo d’Italia ed avete sempre respirato la sua aria, non indovinate lontanamente con quale decisiva intensità un giovane di origine diversa possa essere commosso, toccato fino nell’intimo dell’anima dalle arti, dalla natura, dagli uomini del vostro paese.
Fu allora, in un momento come questo, che il genio d’Italia mi divenne destino, che a lui mi diedi per tutta la vita con quella dedizione estrema che soltanto dall’amore assoluto può nascere.
Quell’amore mi prestava il coraggio e la forza, la hybris finanche, come ci fu detto, di attaccare un progetto tanto vasto come il Corpus dei disegni. Umile servo ma anche cavaliere errante nel senso arturiano non pensai alla fine, al successo. Tanto più sincera è la mia – la nostra – soddisfazione (perché parlo anche a nome della collaboratrice Annegrit Schmitt), che al nostro comune amore verso l’Italia venga contraccambiato oggi da parte vostra con un solenne segno di approvazione, perché come tale lo prendiamo, il Premio Galilei; e che la nostra opera comune trovi riconoscimento proprio presso coloro ai quali fu dedicata, e ciò nel senso, speriamo, che ha espresso uno dei vostri recensenti del Corpus – Enzo Carli – quando scrisse: Il Corpus “ci rende per la prima volta interamente consapevoli di uno dei più affascinanti aspetti del genio creativo italiano”. Che si poteva dire per noi di più bello e soddisfacente?
Quali erano le nostre intenzioni scientifiche per il Corpus e quali sono per la sua continuazione?
Non sono mai stato critico, teorico o filosofo delle arti. Fin dapprincipio invece mi sono sistematicamente dedicato alla ricerca e all’ordine metodico degli oggetti – nel nostro caso di disegni. Come base di ogni futuro lavoro, ho perlustrato, possibilmente fino in fondo, le collezioni di disegni d’Europa e d’America – in 25 anni.
Successivamente, per 25 anni circa, fino ad oggi, la Schmitt ed io abbiamo spostato le nostre preferenze dai gabinetti di disegni alle biblioteche per lo studio dei disegni di illustrazione libraria.
Nello scopo scientifico di queste ricerche era coinvolta anche una necessità tecnica: la completa documentazione fotografica. Non avremmo potuto arrivarci senza una propria attività fotografica su larga scala. Essa forma parte intrinseca del nostro lavoro scientifico. Senza esagerare valori numerici, mi limito a citare che siamo arrivati a più di 30.000 negativi eseguiti di propria mano. Siano aggiunte numerose fotografie ordinate appositamente per farci disporre adesso di un archivio specializzato di oltre 50.000 fotografie.
Non parlo delle pubblicazioni di ricerche singole o di carattere monografico per le quali è servito quell’archivio. Insisto invece che l’archivio fotografico era ed è una base necessaria per ambedue i temi principali delle mie, delle nostre intenzioni scientifiche: la cosiddetta “Grafologia del Disegno” e il “Corpus dei disegni italiani del Medioevo e del Primo Rinascimento”. Ne sono usciti finora 4 volumi. L’archivio fotografico contiene il materiale fondamentale per una decina di volumi ancora progettati.
Parlo prima della cosiddetta “Grafologia del Disegno”.
Uscì nel 1937 e divenne la premessa per le nostre ricerche susseguenti, specialmente per il Corpus. Si basa su osservazioni strutturali dei disegni, non nasceva da preconcette teorie.
Sviluppa strumenti critici per definire i caratteri grafici inerenti alle singole scuole per 5 o 6 secoli. La metodica osservazione e continua analisi delle maniere propriamente grafiche dei disegnatori italiani di diverse epoche mi avevano indotto alla conclusione che esiste nei disegni, al di sotto delle espressioni personali (ossia liriche), una struttura prettamente grafica, una composizione del tratto lineare che si dimostra identica e rimane relativamente costante entro i singoli luoghi d’origine o scuole di disegno.
Fino ad un certo punto le mie osservazioni confermarono già preesistenti modi di distinguere. La differenza di un disegno veneziano da uno fiorentino o umbro o senese fu sempre osservata, da Vasari in poi. Ma le distinzioni si basavano piuttosto su generali qualità formali dei disegni come opere d’arte, non si partiva, in primo luogo, da una metodica osservazione della linea e della specifica struttura grafica, dal dialetto figurativo o – come diciamo noi – dalla grafologia del disegno.
La novità del sistema si dimostrava allora nell’opposizione che trovò, specialmente in Italia, nei malintesi, oggi svaniti, che suscitò la prima pubblicazione. Lo spiega Roberto Salvini in una sua presentazione del Corpus, scritta nel 1972.
“Quando – scrive – trentacinque anni or sono fu per la prima volta formulata, questa teoria delle “costanti grafologiche” caratterizzanti singole scuole dal Trecento, o almeno dalla fine del Quattrocento, fino a tutto il secolo XVIII, incontrò fiera opposizione in Italia. Sotto l’influsso dell’allora dominante estetica crociana, interpretata poi in modo più del bisogno dogmatico, già vacillava il concetto stesso di ‘scuola’; parlar di costanti sembrava poi un crimine di leso storicismo, il termine stesso di “grafologia” maleodorava di quel positivismo contro il quale la cultura idealistica non aveva ancora portato a termine la sua polemica, il tentativo di caratterizzare uno stile al di fuori e al di sopra delle singole personalità sembrava un attentato all’autonomia dell’arte. Si aggiunga che quelle “costanti” riferite a regioni e nazioni potevano in quei tristi tempi richiamare – contro ogni intenzione del loro autore – a quelle infauste teorie della razza, alle quali – a parte qualche raro e poco significante caso di trahison de clerc – l’intera cultura italiana si manteneva fieramente avversa”.
“Oggi possiamo ragionare diversamente” continua Salvini e confronta la grafologia dei disegni con metodi linguistici già allora affermati: “gli studi glottologici hanno continuato a fiorire e la linguistica generale è anzi uno dei campi nei quali più fecondamente ha potuto affermarsi il metodo strutturale, l’indagine cioè della lingua come sistema a prescindere dal suo svolgimento storico e dai suoi dialettici rapporti coi mondo della poesia”. “Le costanti grafologiche dei disegni – che ci servono a individuare i diversi caratteri delle varie “scuole” – …non sono altro che caratteristiche delle diverse lingue e dialetti della figurazione”. La proposta di Salvini di un parallelo grafologia-fonetica, spieghi anche davanti a questo fòro le nostre intenzioni. E credo che consentiate se Salvini prosegue: “In questo modo interpretata, la classificazione per “scuole” intrapresa ed in modo assai persuasivo condotta dagli autori non può più suscitare obiezioni metodologiche e si dimostra anzi un valido mezzo di definizione linguistica”.
Per noi non c’è più prezioso segno di definitivo riconoscimento della “grafologia” che lo stesso Premio Galilei; la giuria comprende due amici, Ragghianti e Luigi Grassi, i quali in un primo tempo ne erano espliciti oppositori e che poi ebbero la sincerità di pubblicare il loro cambiamento di posizione.
La “grafologia” è uno dei risultati che provenivano organicamente dallo studio sistematico delle collezioni dei disegni.
Un secondo risultato è lo stesso Corpus.
Perché lo studio sistematico delle collezioni dei disegni mi dimostrò che nessun altro settore del disegno italiano era meno conosciuto e studiato in misura della sua importanza storica ed artistica che non quello più antico; e che i problemi degli inizi, dell’origine del disegno moderno dovevano essere ripresi.
Lo studio grammaticale delle strutture grafologiche, del ductus delle linee, del tessuto lineare nel tratteggio ci aiutava per entrare nell’ordinamento dei disegnatori anonimi trecenteschi e quattrocenteschi compresi nel Corpus.
Si trattava di combinare, nel Corpus dei Disegni, tre modi dell’indagine:
– il nostro sistema grafologico;
– l’interpretazione storica;
– la contemplazione del disegno come opera d’arte.
Ne risultarono tre punti di vista programmatici, che si sovrappongono:
– la classificazione dei disegni per scuole;
– il loro sviluppo cronologico entro le scuole;
– la valutazione dei singoli disegni come espressione artistica individuale.
Così la stilistica divisione del Corpus per scuole, che risultò organicamente dai nostro ordinamento del materiale, circoscrive anche i luoghi entro i quali emersero i disegnatori creativi. Proprio nello spazio di tempo preso per primo in esame dai Corpus (Trecento e prima metà dei Quattrocento), la svolta verso una storia dell’arte non più senza nomi ha un significato essenziale anche per il disegno. Dalle linee di svolgimento entro gli stili locali non risultano soltanto raggruppamenti di geografia artistica: esse mettono in risalto anche l’intervento di personalità importanti per l’arte del disegno del loro tempo e della sfera d’influenza da essi creata. Perché spesso sono i grandi fra gli artisti che danno inizio alle diramazioni degli stili d’epoca nelle diverse redazioni locali. La disposizione del nostro Corpus dei disegni segue e combina questi punti di vista.
Comincia il Corpus in quel periodo storico-artistico, verso il 1300, quando si formarono certi tipi nuovi del disegno che rimarranno validi fino ai tempi nostri, al “disegno moderno” per così dire.
Contemporaneamente valevano ancora tradizionali modi del disegno medioevale. Fu allora che nacquero in Italia le scuole locali del disegno come della pittura e che nacque con e intorno a Giotto il disegno dal vero e l’individualizzazione del disegno autonomo creativo. Il momento, dunque, nel quale inizia nel Corpus la storia del disegno, è istruttivo perché in esso si sovrappongono contemporaneamente effettivi, diversi fenomeni disegnativi, cioè generi medioevali e categorie valide fino ai tempi moderni.
Come categorie medioevali ricordo: il disegno copiativo, gli exempla da campionario, il libro repertorio, i disegni-modello di destinazione contrattuale.
Nuove forme di disegno vengono sviluppate proprio nel periodo circoscritto dal Corpus, dalla fine del Dugento fino alla conclusione del Primo Rinascimento, poco dopo il 1450. Sono i disegni che chiariscono, con crescente spontaneità, i processi creativi. Più e più si basano su studi dal vero. Come tali vengono interpretate anche le copie da sculture dell’antichità classica, che servivano come modelli viventi ad una intensificata comprensione delle forme greco-romane nel primo Rinascimento. Il disegno – copia di qualunque tipo (per esempio le copie dall’antico o da opere altrui, come campionario, nei libri repertorio) – forma un settore numericamente grande dei fenomeni grafici nel prescelto periodo 1300-1450. Presentando questo tipo di disegno secondo la sua importanza per la produzione grafica di allora, il nostro Corpus ha spostato l’immagine della storia dell’attività disegnativa. Finalmente, partendo dal criterio determinante che il Corpus debba raccogliere tutte le opere eseguite con tecniche disegnative e che ogni epoca abbia la propria concezione del disegno corrispondente al suo stile, abbiamo compreso nel Corpus un tipo di disegno che prima non era trattato assieme con i disegni propriamente detti: il disegno librario, cioè le illustrazioni tecnicamente disegnative in manoscritti.
Era una decisione che aumentò fortemente il numero dei disegni catalogati e che cambiò definitivamente la concezione del fenomeno “disegno” per quel periodo d’origine e di transizione. Il concetto del disegno dal Cinquecento fino alla storia dell’arte nella generazione che ci precede, apprezzava e riteneva degni di studio soltanto i disegni spontanei e creativi, i liberi schizzi e i disegni progettuali. Con i diversi tipi del disegno-copia e col disegno librario che abbiamo preso in considerazione nel Corpus, perché sono tipiche e importanti forme dei disegno nel Medioevo e nell’epoca di transizione fino al Rinascimento, abbiamo valutato, secondo il nostro programma, tutto ciò che nel periodo compreso nel Corpus fu tecnicamente disegnato e non soltanto quanto si accomodava all’idea ancora rinascimentale del disegno spontaneo. Il disegno librario, come opera grafica autonoma, al tempo della sua maggior fioritura – proprio quello del Corpus – tenne nella produzione un posto importantissimo ed una sezione larga; quel posto che più tardi sarà occupato dalla xilografia e dall’incisione, come le nuove tecniche grafiche per l’illustrazione del libro, favorevoli alla riproduzione.
Il disegno illustrativo scade da allora nel momento che abbiamo scelto come limite per il Corpus.
Racchiudendo nella storia del disegno i disegni librari, si allarga col materiale presentato anche la vastità dei temi iconografici.
Nell’illustrazione delle opere letterarie si sviluppano soluzioni formali diverse dagli altri tipi di disegni per l’architettura, per cicli e rappresentazioni ecclesiastici, per la ritrattistica, ecc.
Basta richiamarsi ai nomi di Dante, Boccaccio, Francesco Petrarca, Virgilio, Esopo; ossia a gruppi di manoscritti con una più o meno fissa iconografia come i Balnea Puteolana, le cure degli uccelli o dei cavalli, il Taccuinum Sanitatis o il Regimen Sanitatis, i romanzi cavallereschi, le profezie dei papi.
Riassumo:
La nostra intenzione era di raccogliere in una opera e di valutare contemporaneamente le forme del disegno – le ancora medioevali e le già rinascimentali – che soltanto nell’epoca di transizione, che il Corpus comprende, si sovrapposero.
Volevamo dare non soltanto una storia delle attività disegnative – tecniche ed artistiche -, una teoria del disegno, ma – tramite il disegno – una nuova visione della storia dell’arte di un certo periodo.
Il mio rendiconto sarebbe incompleto se non ricordassi i legami scientifici e sentimentali che mi uniscono all’arte italiana dei nostri tempi. Mettere nel centro delle mie ricerche sull’arte moderna il disegno, lo sentivo come un obbligo, per completare la mia visione del disegno antico.
Mi sentivo attratto anche da una decisiva differenza fra lo studio dell’arte del disegno antica e quella moderna, differenza che forma quasi un controllo della propria posizione: la possibilità di seguire l’artista vivente al lavoro, di avere sott’occhio le opere nell’atto di nascere.
Ho seguito per anni molti – e credo tutti gli importanti – pittori e scultori italiani nella loro attività. Mi accontento di citare qui quelli che nel frattempo sono morti: Carrà, Severini, Balla, Morandi, Prampolini, Sironi, Casorati, Campigli, De Pisis, Viviani, Licini, Mafai, Magnelli.
Mi sento onorato, non è troppo se dico “benedetto”, che i più venerati di loro – Carrà, Licini, Morandi – mi degnarono della loro amicizia.
Sia permessa una parentesi: Non meno dell’amicizia di quei geni mi vale la fortuna – grazie alla mia età – di aver ancora avuto contatto personale con certi grandi storici d’arte delle generazioni ormai passate: Adolfo Venturi, Fernanda Wittgens e – più di ogni altro – Pietro Toesca.
Risento il loro vivo interessamento per i nostri lavori, grato rimango memore della loro cordiale simpatia. L’amicizia di un Morandi, di un Licini o di un Pietro Toesca mi è cara e santa come un abbraccio degli oltremodo venerati Giuseppe Verdi o Silvestro Lega.
Per terminare ritorno ai miei legami con l’arte moderna italiana. Si sono realizzati in molte mostre, specialmente di artisti con un ricca opera grafica, presentati per la prima volta nella Germania del dopoguerra: Emilio Greco – nomino come primo l’amico, ricevendo oggi in premio una sua scultura – Marini, Manzù, Mascherini, Viviani, Sironi, Cassinari, Santomaso, Music, Spacal ed altri.
In due eventi si cristallizzarono le mie intenzioni di propagare l’arte italiana del dopoguerra, allora sconosciuta in Germania:
Primo: nella grandiosa mostra del ’52 alla quale collaborai con Haftmann, Grote ed altri – promotore il nostro Ragghianti qui presente. Era la prima del genere e non fu mai superata, mi pare.
Secondo: nel primo comprensivo libro sul disegno moderno italiano – da Modigliani in poi – che introdusse dalle nostre parti l’arte grafica italiana del nostro secolo. Come nel Corpus per l’arte antica, ho cercato di fare la storia dell’arte italiana moderna attraverso il disegno, con un materiale quasi del tutto sconosciuto, rintracciato in gran parte presso gli stessi artisti.
In questo modo il cerchio si chiude. Il cerchio di quanto abbiamo fatto, non di quanto ancora vogliamo fare. Stiamo preparando la parte seconda del Corpus dei disegni. Non potete immaginare di quanto grande aiuto – morale ed effettivo – ci sarà l’alta distinzione del Premio Galilei presso tutti coloro che prestano appoggio alla nostra opera. Per noi è una conferma del più bel successo che potevamo immaginare, cioè che il nostro affetto venga corrisposto, la nostra opera accolta da voi, i più insigni portatori di quella umana, umanissima tradizione che ci sta più di ogni altra cosa a cuore.
Per questo vi ringraziamo commossi.