Pisa, ottobre 1978
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Nel trovarmi qui a Pisa a ricevere lo straordinario onore del Premio Internazionale Galileo Galilei dei Rotary Italiani assegnatomi “sotto gli auspici dell’Università degli Studi di Pisa con l’alto patronato del Presidente della Repubblica”, io mi trovo senza parole per esprimere la mia sorpresa e la mia gratitudine di fronte all’onore che mi viene conferito. Cercherò, più avanti in questo discorso, di trovare qualche parola sia pure inadeguata per rivolgere un ringraziamento a tali distintissime persone e istituzioni che mi stanno onorando in questo modo, ma prima di tutto desidero soddisfare una richiesta fattami per lettera dal Prof. Tristano Bolelli, che mi ha pregata di “preparare un breve discorso in italiano per illustrare le ragioni del mio interesse per gli studi italiani e i miei lavori”. Io spero che sarete indulgenti per l’accento straniero con cui pronuncerò il seguente discorso nei quale cercherò di dare un’idea della genesi e dello sviluppo dei miei studi italiani. Io non ebbi attraverso viaggi giovanili una introduzione facile all’Italia e alle cose italiane. I miei primi studi non furono sulla storia e cultura italiana, ma sulla storia e cultura francese. I miei primi viaggi mi portarono in Francia. Non vidi l’Italia prima del mio 24° anno e feci il mio primo ingresso nel vostro paese calando dalle Alpi. Fu attraverso i miei studi francesi che mi introdussi nel mondo della cultura italiana. Lavorando su un tema francese, trovai nel Pubblic Record Office di Londra il manoscritto di una testimonianza redatta dall’ambasciatore francese a Londra Michel de Nauvissière per un certo Giovanni Florio un italiano che allora (siamo nel 1585) era al suo servizio. Il documento che avevo scoperto e che era in precedenza sconosciuto suscitò il mio interesse. Non si può mai dar conto completo del processo per cui qualche area particolare del vasto territorio della storia viene ad illuminarsi nella mente e suscita un appassionato desiderio di esplorarlo a fondo. Desideravo appassionatamente saperne di più a proposito di Giovanni Florio, dell’ambasciata francese a Londra e della gente che egli poteva avervi incontrato. Cominciai a lavorare su questo argomento addentrandomici da sola senza il consiglio di nessun esperto, esclusivamente col leggere e rileggere tutto quel che seppi trovare e coll’esaminare e riesaminare ogni fonte che si imponesse alla mia attenzione. Fortunatamente vivevo a breve distanza da Londra e potetti dedicare lunghi giorni, mesi ed anni a lavorare in quella che io considero essere ancora una delle migliori biblioteche mondiali, nella Biblioteca del British Museum o – come si dice adesso – nella British Library. Mi ero imbattuta in un tema che conduceva direttamente al cuore del Rinascimento Italiano così come esso aveva interessato l’Inghilterra alla fine del Cinquecento. Perché quel John Florio che stava lavorando all’ambasciata francese era il brillante maestro da cui gli elisabettiani avevano imparato l’italiano, attraverso le sue lezioni private o i suoi affascinanti manuali che insegnavano la lingua con dialoghi stampati su colonne parallele in italiano e in inglese e che trattavano in modo facile e attraente della vita nell’Inghilterra elisabettiana e di argomenti interessanti per chi studiava italiano a quei tempi. Addentrarsi nella vita e nell’opera di John Florio, studiare intensamente i suoi dialoghi e il suo gran dizionario italo-inglese vuol dire studiare alle radici l’influenza della lingua italiana e della letteratura nell’Inghilterra elisabettiana. Per di più Florio è esponente di una delle principali correnti per cui l’influenza italiana raggiunse l’Inghilterra del Cinquecento, la corrente, cioè, degli eretici italiani, ossia dei profughi protestanti italiani. Il padre di John Florio, Michelangelo Florio, era uno dei protestanti italiani stabilitisi in Svizzera. E l’insegnamento linguistico di John Florio in Inghilterra era permeato dall’influenza dei protestanti italiani. Fra gli ospiti dell’ambasciata francese quando c’era Florio vi era niente di meno che il famoso Giordano Bruno, i cui dialoghi, scritti in italiano a Londra, danno una rappresentazione splendidamente vivace della sua vita londinese: come una sera lui e Florio mossero dall’ambasciata francese per camminare nelle vie di Londra, incontrando molte difficoltà e avventure sul loro cammino, per prender parte nella casa di un nobile inglese ad una cena nel corso della quale ebbe luogo una famosissima disputa sulla questione copernicana e forse anche sulla Cena intesa in senso religioso (ossia come sacramento). La presenza di Giordano Bruno nell’ambasciata francese mi portò a studi protratti e non ancora compiuti sulla filosofia e religione nella Inghilterra influenzata da quello stranissimo filosofo del Rinascimento Italiano. Infine c’era lo stesso ambasciatore francese, Michel de Castelnau de Mauvissière, uno squisito e colto prodotto del Rinascimento Francese, che era in contatto con l’Académie de Poésie et Musique, discendente dalle accademie erudite italiane che a quell’epoca ispiravano i poeti francesi e la loro poesia e musica. Proprio da questo nucleo affatto particolare dell’Ambasciata francese a Londra e delle persone là presenti alla fine del Cinquecento è venuta la maggior parte dei lavori della mia vita quasi interamente dedicata alla ricerca storica, allo scrivere e all’insegnare. Ho scritto libri sulle accademie francesi del seicento, su Giordano Bruno e la tradizione ermetica, sull’Arte della memoria e sullo strano sviluppo datone da Bruno, sulle “case” e “vie” come sistemi mnemonici per immagazzinare idee sui concetti che stavano dietro alle metafore e iconografie utilizzate per la regina Elisabetta I (tra gli altri da Giordano Bruno), sull’influenza dei temi rinascimentali sul teatro di Shakespeare. Il primo sviluppo di tutto questo sorse nella mia mente quando stavo preparando il mio primo libro: John Florio: la vita di un italiano nell’Inghilterra di Shakespeare (1934). D’altronde, questo primo libro ebbe un’influenza fondamentale per l’intero corso della mia vita. Fu per mezzo di John Florio che venni a conoscere i membri dell’istituto Warburg, allora arrivati di recente a Londra con la loro meravigliosa biblioteca. Aby Warburg, che aveva fondato il suo istituto e la sua biblioteca ad Amburgo, ordinò i suoi libri alla maniera di una biblioteca del Rinascimento, riflettendo attraverso i temi dei libri il posto dell’uomo e dei suoi studi nell’universo, come una continuazione nel pensiero e nella biblioteca di Warburg del tema microcosmo-macrocosmo. A lavorare dentro questa biblioteca su qualche problema affatto particolare e minuto finivano per convergere su di esso tutte le risorse della biblioteca – storia della religione, della scienza, dell’arte e così via. Questa era una rivelazione assolutamente nuova per me, abituata come ero a lavorare entro la tradizione inglese di studi rinascimentali, una tradizione prevalentemente letteraria o storico-fattuale. In quella biblioteca io potevo partire dal tema che mi interessava ed essere condotta di lì a una più vasta e profonda comprensione della storia, della storia delle idee e delle immagini, che cominciò a sorgere in me; per quanto io non l’abbia afferrata ed ancora oggi non possa dire di afferrarla (ma forse mi resta un po’ di tempo per imparare ancora). Vedevo i membri dell’Istituto Warburg lavorare nella biblioteca. Vedevo Fritz Saxl, che allora ne era il direttore, scattare velocissimo da una sala all’altra e da uno scaffale all’altro alla ricerca del suo materiale. Warburg aveva avuto un particolare interesse per Giordano Bruno. Mi fu mostrata la sezione bruniana ed io cominciai a imparare come estendere la mia ricerca da quella ad altre sezioni. E’ uno dei principi di questa biblioteca che l’indagine di un tema specifico conduca, grazie all’ordinamento dei libri, ad altri campi. In gran parte questa è ora una tecnica familiare, ma a quei tempi era nuova, totalmente nuova per me e intensamente stimolante. Saxl mi offrì un posto nell’Istituto e io lo accettai con gioia. All’inizio il mio compito consisteva principalmente nel cooperare alla redazione del Journal of the Warburg and Courtauld Institute e nel portare avanti e redigere le mie proprie ricerche. Non c’era, come non c’è ora, nessun programma ideologico connesso con l’Istituto – salvo che ciascuno debba, suppongo, essere interessato alla storia, alla storia culturale nel suo insieme e principalmente alla storia culturale dell’Europa nella sua discendenza dalla antichità. E in questo grande contesto il ruolo della cultura italiana e della sua storia è naturalmente della più grande importanza. In questi primi tempi la redazione del Journal non era una sinecura. Comportava non soltanto leggere i manoscritti presentati, ma l’intero processo di preparazione per la stampa, correzione delle bozze, impaginazione dei clichés, indici, eccetera. All’inizio si era affatto privi dell’aiuto di una segretaria. Io lavoravo a questo compito insieme con Rudolf Wittkower. Saxl credeva giusto e formativo farci lavorare duramente a un compito specifico, come anche concederci ogni larghezza ed opportunità per le nostre ricerche personali. Io dovevo tirare la carretta, ma non tanto duramente quanto la tirava lui, e c’erano molte ricompense: per esempio vedere Saxl stesso arrivare di corsa, a velocità supersonica a porgerci proprio quel libro o quei libri di cui si aveva bisogno. C’era una vasta cerchia di amici italiani, collaboratori del Journal e altri visitatori in quei primi anni del dopo guerra in cui negli studi storici il Rinascimento stava acquistando rilievo. Di frequente il Journal pubblicava articoli di studiosi italiani ed io avevo il privilegio di tenere i contatti con gli autori. Il primo lavoro che io feci per l’Istituto – e questo avvenne prima della guerra, molto prima che io entrassi fra il personale dell’Istituto – fu di tradurre l’articolo di Delio Cantimori sugli Orti Oricellari per pubblicarlo in inglese sul Journal (Retorica e politica nell’Umanesimo italiano, 1937). Il volume del 1946 era composto per intero di articoli di studiosi italiani fra cui quelli di Augusto Campana su “L’origine della parola umanista”, di Fausto Ghisalberti su “Le biografie medievali di Ovidio”, di Alessandro Perosa su “Febris: Un mito poetico”. Il volume del 1951 era composto per la maggior parte dal fondamentale studio di Giuseppe Billanovich su “Petrarca e la tradizione testuale di Livio” e da un articolo di Licisco Magagnato sulla “Genesi del Teatro Olimpico”. Oltre a molte visite di studiosi italiani illustri, come Eugenio Garin, di collaboratori del Journal e di ricercatori italiani che usavano la Biblioteca, c’era anche quel che si potrebbe chiamare un circolo non ufficialmente collegato con l’istituto, ma permanente, di italiani residenti a Londra, come il compianto Roberto Weiss, Carlo Dionisotti, Giovanni Aquilecchia e molti altri. Di fatto c’erano sempre stati molti contatti tra quelli che Gertrud Bing usava chiamare “gli amici” (con queste parole ella intendeva sempre gli amici italiani) e c’è sempre stata amicizia fra tutti noi, un caldo sentimento di comprensione personale e il senso di essere in qualche modo – in modo però molto libero – uniti nella vita da uno scopo comune e da certi valori – valori difficili a definirsi, ma di cui si avvertiva la presenza. Forse una definizione potrebbe esserne “disinteressata ricerca culturale senza rancori o prevenzioni”, e questo fine fu perseguito da tutti i successivi direttori da me conosciuti: Fritz Saxl, Henri Frankfort, Ernest Gombrich e ora J. B. Trapp. Così, vedete, sebbene io abbia vissuto tutti questi anni in Inghilterra, sempre nella stessa casa, grazie all’Istituto Warburg io sono cittadina del mondo e in Italia mi sento perfettamente a casa mia. Cercando di fare del mio meglio nei limiti delle mie capacità ho cercato di operare per una intesa europea e questo vuol sempre dire operare per l’Italia. Ho qualche seria lacuna nella mia preparazione per questo compito: parlo poco italiano, come scoprirete presto. Questo perché la mia cultura italianizzante è stata soprattutto il risultato di letture e di amicizie con italiani anglicizzanti. Io ho passato in Italia tutto il tempo che ho potuto, ma vorrei averne passato di più. Per me oggi la vostra accoglienza straordinariamente gentile e l’assegnazione del Premio Galileo Galilei, con questa bella e preziosa statuetta, viene come un meraviglioso coronamento di tutta la mia vita – un coronamento e premio meraviglioso al quale mi sento profondamente inadeguata, pur apprezzandolo molto sentitamente e pur essendo piena di inesprimibile gratitudine per questo Premio tanto apprezzato e per la grande cortesia con cui mi ponete accanto a coloro che hanno già ricevuto questo distinto riconoscimento. Soprattutto io do grande valore al fatto che proprio in Italia e nella grande e famosa Università di Pisa io venga onorata con un premio che porta il nome nobile e profondamente reverendo di Galileo Galilei. Voglio concludere, molto semplicemente, dicendovi dal profondo del cuore: vi ringrazio.