Pisa, ottobre 1981
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
La mia generazione ha conosciuto, nella sua giovinezza, quelle cerimonie di fine d’anno durante le quali le autorità distribuivano ai migliori della classe, oltre ai premi che ricompensavano il lavoro di un anno, delle strette di mano affettuose e protettrici che erano il segno della loro stima e della loro fiducia per la gioventù studiosa. Quei tempi sono passati ma una cerimonia come quella d’oggi ravviva i ricordi e i ricordi hanno sempre qualcosa di malinconico. Tuttavia, per chi riceve un premio così prestigioso come il Premio Galileo Galilei, l’illusione passeggera di essere diventato, a parte l’età, uno dei migliori della classe, provoca dapprima, almeno per quel che mi concerne, una giusta perplessità: che cosa ho fatto dunque per meritare una tale ricompensa? Certamente il mio proposito di oggi non sarà di tentare, con un elogio più o meno mascherato, di dare a questa domanda una giustificazione a posteriori.
Ma -e vi prego di scusarmi- dovrò parlare di me, cosa che è sempre gradevole in apparenza ma, in fondo, difficile.
Poco tempo fa, in un’altra cornice e per altre ragioni, mi sono già abbandonato ad un esercizio simile: nel 1979, l’Accademia dei Lincei aveva organizzato a Roma un colloquio intitolato “Un trentennio di collaborazione archeologica fra l’Italia e la Francia”. Ora, questi 30 anni, dal 1950 al 1980, io li ho passati in gran parte a lavorare in Italia sui problemi di una Archeologia e di una storia dell’urbanesimo antico che, dopo la guerra, sono stati oggetto di una collaborazione molto stretta fra i due paesi. Parlare degli altri, per quel periodo e su tale tema, era anche, sia pure indirettamente, parlare di me. Si dà il caso che oggi, che certe regole del gioco mi condurrebbero a parlare di me, io potrò e dovrò parlare degli altri: infatti, quello che ho fatto e che si è voluto ricompensare ben al di là dei miei meriti personali, non l’ho fatto da solo ma l’abbiamo fatto insieme, con altri: mi è gradevole pensare che i premiati di oggi sono tutti quelli, archeologi e storici, italiani e francesi, che, dalla fine della guerra, hanno lavorato insieme a ciò che io poco fa chiamavo la storia dell’urbanesimo antico.
Qualche parola personale, prima di tutto: dopo la guerra, dopo i concorsi (Éçole Normale, agrégation) avevo deciso di presentarmi all’Éçole française de Rome dove fui ammesso nel 1949. Mi hanno domandato spesso se il mio desiderio di passare -come si dice- attraverso l’Éçole française di Roma si fondava su una scelta scientifica o se il desiderio di lavorare, dunque di vivere, in Italia non ne fosse l’elemento decisivo. Oggi, con il “senno di poi”, continuo a rispondere quello che rispondevo allora: la domanda è mal posta perché, dapprima in modo vago, poi, col passar del tempo e sistemandosi le cose con una precisione sempre più grande, ho sempre desiderato di lavorare in Italia e più particolarmente nell’Italia meridionale sui problemi dell’ellenismo in occidente o, se si vuole, dalla Grecia fino all’Italia e a Roma, sulla nascita della nostra cultura occidentale.
In questa vocazione italiana e più precisamente indirizzata verso la Magna Grecia, non vi è niente di originale per un francese appena uscito dalle scuole; infatti è un luogo comune l’interesse dei miei compatrioti per questa Italia lontana. Da quando, a partire dagli anni intorno al 1750, viaggiatori, studiosi, scrittori venuti di là dalle Alpi si sono appassionati per la scoperta dell’Italia, le regioni situate a sud di Roma, da Napoli alla Sicilia, hanno suscitato, accanto a critiche appassionate, entusiasmi durevoli e vocazioni profonde. Questo è vero sia per le città campane, della Magna Grecia o della Sicilia greca, sia per le epoche più recenti, dal Medioevo fino ad oggi.
Qualche parola ora sulla Scuola francese di Roma, non oso dire su quella che era dopo la guerra ma piuttosto come l’ho vista allora. I giovani vi arrivavano, mi sembra, meno preparati di quelli d’oggi o, più esattamente, noi sbarcavamo a Roma -penso soprattutto a quelli che si occupavano di antichità- con una buona formazione filologica e storica, ma con una grande ignoranza di ciò che era l’archeologia. Soprattutto, per molti fra di noi, era nello stesso tempo la scoperta dell’Italia. Oggi invece un candidato serio alla Scuola francese di Roma conosce già bene le biblioteche, i musei d’Italia e, secondo la sua specializzazione, gli archivi o le zone di scavo ed arriva con un programma preciso di lavoro e conoscendo già un certo numero di colleghi e persino di studiosi italiani, mentre noi scoprivamo nello stesso momento i sette colli, meno alti di quello che non appaiano nei libri, la cupola di San Pietro, il Soratte e i Monti Albani, le trattorie e Palazzo Farnese.
Insomma, noi scoprivamo contemporaneamente l’Italia dei libri e gli Italiani. Lascio da parte le meraviglie che erano pur sempre l’essenziale e cioè i ricordi che hanno lasciato in tutti queste vacanze romane di studio, in cui era impossibile separare il lavoro dalla felicità, l’ombra delle biblioteche e la luce della Città.
Se si vuole precisare, era l’Italia degli anni ’50. Uscivamo gli uni e gli altri dalla guerra e da un’epoca in cui, malgrado amicizie tenaci fra gli studiosi e le élites intellettuali dei due paesi, la collaborazione italo francese aveva conosciuto delle epoche d’ombra e dei momenti difficili.
Dirò di più: si poteva allora, anche al di fuori delle costrizioni della politica, parlare veramente di collaborazione fra i due paesi? Prima della guerra, i giovani arrivavano alla Scuola di Roma, facevano gli esercizi imposti loro, sceglievano un argomento di tesi che portavano in Francia nei loro bagagli col ricordo dei loro due anni di felicità: poi il tempo passava e, finita la tesi, i nostri ex “Farnesiani” -si chiamano ancora così-, facevano in Francia una carriera universitaria consacrata alla filologia latina, alla storia della Roma antica o alla Roma medioevale.
Inoltre, non dimentichiamolo, prima della guerra gli archeologi stranieri, se si escludono rare eccezioni, non lavoravano sul suolo italiano. Era una regola generale che non datava dal fascismo: per gli studiosi di Antichità francesi, di Letteratura, di Storia e di Filologia, la scuola dell’Archeologia era meno l’Italia che l’Africa: l’Africa del Nord, considerata allora come terra francese, era anche una straordinaria provincia romana in cui, ogni primavera, arrivava per formarsi e lavorare un contingente di giovani “farnesiani”. Così non c’era un vero dialogo fra gli archeologi italiani e gli archeologi francesi che, in verità, erano, per parlare come una volta, piuttosto dei “letterati” che degli “antichisti”.
L’apertura agli stranieri dei cantieri di scavi dopo la guerra fu una delle novità che, nel campo della scienza e del patrimonio, illustrò meglio di ogni altra cosa la disponibilità della nuova democrazia italiana. Al colloquio dei Lincei al quale poco fa alludevo, due dei primi artefici di questa nuova collaborazione, un italiano, allora Sovrintendente alle Antichità della Sicilia Orientale, L. Bernabò Brea, e un francese, allora membro della Scuola ed oggi Conservatore-capo delle antichità greco-romane al Museo del Louvre, F. Villard, hanno raccontato quali furono i primi anni di uno dei due cantieri aperti alla Scuola, quello di Megara Hyblaea, che fu, come si sa, una delle più antiche colonie greche di Sicilia e di Occidente. Avevamo scelto questo luogo, che si trova oggi nel cuore di una grande zona industriale, perché era uno dei più risparmiati dalla civiltà moderna; infatti, dopo la distruzione dell’habitat antico, un’ostinata malaria aveva per molto tempo tenuto l’uomo lontano da queste pianure diventate paludose. Una precisa tradizione letteraria insegnava che questa colonia, fondata nella seconda metà dell’VIII secolo da Megara di Grecia al fondo dell’attuale golfo d’Augusta, il sinus megarensis di Virgilio, dopo aver fondato Selinunte, era stata distrutta dalla sua vicina Siracusa agli inizi del V secolo. Alla base della scelta di questo nuovo cantiere c’era l’idea di cercare, partendo da un esempio preciso, di comprendere, nelle rovine dell’antica Megara rioccupata da insediamenti successivi fino all’epoca bizantina e finita di distruggere sotto Federico II dai costruttori della vicina Augusta che ne fecero una cava di pietra e che vi installarono dei forni per la calce, la genesi e lo sviluppo di queste città coloniali che, come tutte le città dei mondi nuovi, sono nate da una decisione dell’uomo e non dalla lenta evoluzione di un habitat che si trasforma da sé. Tale fu il punto di partenza degli scavi di Megara, che si continuano ancora oggi.
Lasciamo da parte i risultati scientifici ottenuti nel corso di questo trentennio di collaborazione, di una collaborazione che avrebbe condotto i Francesi a lavorare, senza che ci fosse mai alcuna nube, all’interno dell’amministrazione italiana, a divenire in certo modo i collaboratori diretti, in questo sito e in altri, del Sovrintendente alle Antichità della Sicilia Orientale. Con l’aiuto di un amico svizzero, architetto e storico dell’architettura, Paul Auberson, abbiamo continuato a scavare, continuiamo a pubblicare ed ora, nell’ambito dell’amministrazione della Regione Siciliana, procediamo alla difficile presentazione di un luogo più ricco di problemi e di insegnamenti storici che di monumenti spettacolari.
In tutto questo, qual è la cosa essenziale? Questo luogo aveva come primo scavatore, con F. Cavallari, il celebre Paolo Orsi che era stato, all’inizio del secolo, uno dei più grandi rappresentanti dell’Archeologia italiana: Orsi, è vero, aveva proceduto agli scavi, nello spirito del tempo, più delle necropoli che della città ma, dopo qualche sondaggio, aveva scritto questa frase che abbiamo posto come motto nell’ultimo volume della pubblicazione di Megara: “Queste nostre supposizioni o criteri (si tratta dell’organizzazione della città, delle sue strade, delle sue piazze) li raccomandiamo a coloro che avranno la fortuna di continuare dopo noi gli scavi di Megara, con mezzi non tanto limitati e con quelle agevolazioni corrispondenti all’importanza scientifica di tutto ciò che si è scoperto e si scoprirà di una città che esistette nella sua autonomia dall’VIII al V secolo”.
Di quest’eredità -e quale eredità- noi abbiamo cercato di essere degni. Ad ogni modo, lo dico con la massima semplicità, i risultati di questa lunga fatica li dobbiamo prima di tutto all’incoraggiamento ed all’aiuto che ci hanno sempre accordato, a tutti i livelli, i responsabili dell’Archeologia italiana, in Sicilia come a Roma.
Ogni archeologo ha necessariamente due volti: quello del ricercatore sul campo e quello dello studioso da tavolino. Al primo piacciono la terra, l’odore delle erbe calde sulle colline, i muri a secco, la risalita delle fiumare sugli altipiani calcarei, il fogliame misto di mandorli e di olivi sui pendii, insomma quei paesaggi, quella natura e quegli uomini che, plasmandosi reciprocamente, sono la vita profonda del Mediterraneo; l’uomo di studi, anche se deve saper usare le tecniche dell’Archeologia, è prima di ogni altra cosa uno storico. Ciò che l’appassiona è la storia dell’uomo, l’occupazione del suolo, la nascita della città, il rapporto della città col suo territorio o, nelle società, il rapporto dell’economia e della felicità, della vita materiale e delle culture. In questa prospettiva, lo studio dei contatti di civiltà, i problemi multipli di ciò che oggi si chiama acculturazione fra gruppi più sviluppati ed altri che lo sono meno, trova un terreno particolarmente favorevole nelle grandi imprese coloniali, o meglio nei contatti quotidiani che vengono a crearsi fra popoli o gruppi di uomini che la Storia e la Geografia non preparavano ad essere vicini: le migrazioni, queste diaspore dalle forme multiple costituiscono, da Omero, anzi dalle leggende omeriche, la storia del Mediterraneo con quelle rotte marittime incerte e sinuose che ha descritto così bene Fernand Braudel. Per l’ellenismo queste strade che aveva amato non molto prima un Victor Bérard, io ho cercato di ritracciarle o di farle rivivere -lo dico cum grano salis perché purtroppo le nostre ricostruzioni sono sempre astratte e non sapremo mai cos’era la vita di un porto nel Mediterraneo arcaico- studiando, attraverso la storia delle due città che i Greci fondarono sulle rive opposte dello Stretto di Messina, i grandi movimenti di commercio e di civiltà che fra il Mediterraneo centrale e le terre lontane dell’Esperia erano creati dal traffico stagionale delle barche piatte che, in lento cabotaggio, portavano oggetti ma anche credenze e tecniche: è attraverso Cuma, situata all’estremità di questa strada, che l’Italia ha imparato a scrivere. Lo dico con poca modestia, il mio studio sulle città dello Stretto di Messina pubblicato nel 1958 voleva essere una sintesi provvisoria delle nostre conoscenze e delle nostre lacune sul cammino lento ma sicuro verso l’Ovest di quell’ellenismo che doveva a poco a poco dare un volto greco a tutte le coste del Mediterraneo occidentale.
Dopo dieci anni d’insegnamento in una università francese, nel corso dei quali le biblioteche d’Italia e gli scavi di Sicilia rappresentavano anche per me solo un’attività stagionale, ebbi la fortuna di poter venire a risiedere in Italia, in un primo tempo a Napoli, dove fui chiamato nel 1962 a dirigere l’Istituto francese e fondare il Centro Jean Bérard. Ho raccontato altrove quello che abbiamo fatto insieme, Italiani e Francesi, nell’epoca in cui nascevano i Convegni sulla Magna Grecia che da venti anni tengono le loro assise a Taranto. Citerò qui un paragrafo della prefazione che il mio vecchio amico P. Romanelli aveva scritto per il primo volume degli Atti, quello del Congresso del 1961: “Nessuno vorrà dire naturalmente che la civiltà e la storia della Magna Grecia siano ancora terra inesplorata ma, al lavoro del singolo, sia pure eccezionalmente meritorio come quello del Lenormant, dell’Orsi, del Bérard, si vuol oggi… far succedere un lavoro più organizzato, metodico nel suo procedere, coordinato nei suoi sviluppi…”. Era il tempo in cui a Napoli F. Chabod, scomparso, purtroppo, nel 1960, aveva fatto dell’Istituto italiano per gli studi storici una “scuola di fervore e d’intelligenza” ma anche una “scuola di progresso e di apertura”: era l’epoca in cui s’era imposta la parola del passato, che aveva le sue figure di rilievo, i suoi artigiani ma soprattutto il suo programma che è definito molto bene dalla frase illustre: “La parola del passato è sempre simile a una sentenza d’oracolo, e voi non la intenderete se non in quanto sarete gli intenditori del presente e i costruttori dell’avvenire”. E’ in questa epoca e in questo clima che è nato a Napoli il Centro Jean Bérard.
Il resto è il nostro presente e non ne farò la cronaca. Dirò tuttavia che, nel 1970, ho avuto la fortuna di essere chiamato a dirigere la Scuola francese di Roma ed i miei soli meriti per accedere a questo posto, riservato un tempo ad altri talenti e ad uomini di età diversa, erano precisamente le mie amicizie italiane perché ci si augurava che la Scuola conoscesse anche una certa trasformazione in cui accanto al “lavoro del singolo, sia pur meritorio” per riprendere la formula di P. Romanelli, trovasse posto un lavoro “più coordinato nei suoi sviluppi” e soprattutto che la Scuola fosse pronta a ricevere di più da una vera collaborazione con l’Italia. Su questo punto, credo di essere riuscito; se uso una tale formula è perché, voi lo pensate certamente, di questo successo non mi attribuisco i meriti, che si devono prima di tutto a un gruppo eccezionale di collaboratori e soprattutto al fatto che la Scuola francese di Roma, per quanto resti ben francese, è diventata, grazie all’appoggio costante delle autorità italiane ed alla collaborazione quotidiana degli studiosi e dei giovani di questo Paese, un luogo d’incontro, di lavoro e di amicizia; dunque, per riprendere ancora la formula di un altro a proposito di un’altra istituzione, una scuola di progresso e di apertura.
Terminerò questo troppo lungo monologo, genere che, in verità, non si adatta al mio discorso, con una confessione: non mi è indifferente che questa cerimonia abbia luogo a Pisa. La vostra Università, la nostra Scuola Normale sono per me case di famiglia. I nostri lavori intrapresi e condotti in comune lo mostrano con evidenza: la Scuola Normale, la Scuola di Roma, il Centro Jean Bérard hanno unito le loro forze per procedere all’aggiornamento ed all’ampliamento del libro di Jean Bérard uscito negli anni ’40 e intitolato Bibliographie topographique des principales cités grecques de l’Italie méridionale et de Sicile; di questa nuova collaborazione alla quale, grazie alle capacità organizzative di G. Nenci si sono uniti i migliori specialisti, è nata la Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche che, io credo, sarà per le generazioni avvenire un incomparabile strumento di lavoro.
Ma soprattutto, al di là di queste pubblicazioni comuni, di questo lavoro di erudizione, c’è, con le istituzioni universitarie italiane di cui la Scuola Normale è un po’ per noi il simbolo, un dialogo, esplicito o latente, sul senso, la funzione, la diversità delle culture e la ricerca permanente per afferrare, attraverso i nostri studi, il valore insostituibile della Storia.
Non è necessario aggiungere che questo dialogo ha luogo soltanto fra istituzioni dotte. Già due secoli fa, i viaggiatori che venivano alla scoperta delle “curiosità” della penisola sapevano che dovevano prima di tutto comprendere la storia di questo paese; era perciò necessario per loro superare le reazioni superficiali del viaggiatore presuntuoso ma anche delle ricerche coscienziose e astratte dell’erudito e del dotto, in modo da poter sentire o comprendere che questa terra “docile, certamente, ai voti dello studioso di antichità”, come diceva il Conte de Caylus, è, nello stesso tempo, una terra che non ha cessato di essere fatta dall’uomo e per l’uomo anche se la natura, plasmandola, ha tratto, secondo le belle parole di Goethe, un piacere particolare dalla sua opera.