Pisa, ottobre 1982
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Esprimendo i miei più vivi ringraziamenti per l’alta onorificenza, mi permetto – in risposta all’invito fattomi – di parlare dello svolgimento dei miei studi italiani a causa dei quali la Giuria s’è degnata di conferirmi il “Premio Internazionale Galileo Galilei”. Il mio interesse per l’Italia si manifestò già in periodo scolastico. Per mezzo di una grammatica che per caso m’era capitata nelle mani imparai la lingua del paese che era l’oggetto dei miei desideri ardenti. S’intende che all’università, nel quadro dei miei studi di filologia romanza, fu la letteratura italiana a predominare, sebbene in Germania fino ad oggi non esistano purtroppo cattedre speciali per l’italiano, a prescindere da due eccezioni. Per colmare questa lacuna nell’insegnamento, l’università di Lipsia aveva istituito una “Gastprofessur” permanente per l’italiano, i cui titolari Franco Valsecchi e il suo successore Vittorio Santoli sono stati i miei maestri e hanno curato poi la mia tesi di laurea. Dopo essermi laureato il mio più grande desiderio fu appagato, il desiderio cioè di conoscere l’Italia non soltanto dalla prospettiva dello studente, ma dall’interno delle sue strutture universitarie con la possibilità di svolgervi attività responsabili e di allacciare contatti personali con i rappresentanti della scienza italiana. Questa possibilità mi venne offerta dalla carica di lettore tedesco alle università di Napoli e di Venezia. Ricordo con gratitudine i docenti universitari che hanno seguito con benevolenza le mie ricerche. Mi tornano alla memoria soprattutto i nomi di Vittorio Bertoldi, Ezio Levi, Ladislao Mittner e Giuseppe Toffanin. A Napoli, la più forte influenza sui miei studi, che riguardavano l’estetica italiana del Quattrocento e del Cinquecento, venne esercitata da Benedetto Croce. Ebbi la fortuna di conoscerlo personalmente. Il suo esemplare ethos come filosofo e come cittadino mi colpì profondamente diventando per me un principio di vita. Dopo la fine della guerra, quando cominciai ad insegnare nelle università tedesche, concedetti volentieri alla letteratura italiana nei miei corsi e seminari, il posto che le spetta nel gruppo delle letterature neolatine, e feci il possibile per coltivare relazioni amichevoli con i colleghi italiani, sia che questi in qualità di ospiti tenessero conferenze nel mio istituto, sia che fossi io a tenere conferenze nelle università italiane. Questa collaborazione colla scienza italiana culminò in studi sui rapporti italo-tedeschi durante il Rinascimento, intrapresi insieme con un collega italiano e promossi dal “Consiglio delle Ricerche”. Ho cercato di fare il bilancio dei miei studi sulla cultura italiana durante gli Otto anni del mio soggiorno in Italia in due libri, nei “Grundzüge der italienischen Geistesgeschichte” (“Linee fondamentali della storia dello spirito italiano”) e nella “Kultur Italiens” (“La cultura italiana”) che fa parte dello “Handbuch der Kulturgeschichte”. Questi due libri, nel rappresentare l’eredità della cultura italiana, manifestano già i due temi connessi con le più importanti ricerche filologiche e storiche sull’Italia nell’Ottocento tedesco. Pubblicando verso la metà di quel Secolo la prima edizione critica della “Divina Commedia”, Carlo Witte fondò la filologia dantesca in Germania, e negli stessi anni Giorgio Voigt iniziò le moderne ricerche sull’umanesimo italiano col suo noto volume “Die Wiederbelebung des classischen Altertums oder das erste Jahrhundert des Humanismus” (“Il risveglio dell’antichità classica o il primo secolo dell’umanesimo”). Mi permettano di parlare allora di questi due temi prediletti della mia attività scientifica: da una parte il poema universale in cui Dante incluse il mondo medievale, dall’altra parte l’umanesimo italiano che, alle soglie dell’epoca moderna, proclamò un nuovo concetto dell’uomo. Dapprima Dante: se in un passato lontano lo studente di liceo riuscì a leggere per la prima volta nel testo originale la “Commedia”, oggi il “professor emeritus” spera di poter terminare nell’anno prossimo un grosso volume sul “poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra”. Per più di un mezzo secolo mi sono sempre sentito attratto irresistibilmente dal più grande poeta italiano. Seguendo l’esempio dei miei maestri universitari ho più volte interpretato in un ciclo tripartito di lezioni la “Divina Commedia” non soltanto davanti ai miei studenti, ma anche fuori dell’ambiente universitario, davanti a un pubblico composto di amici entusiasti di Dante, i quali formano in Germania una grande comunità. A questa comunità, e non soltanto ai dantisti, s’è rivolto già a suo tempo Carlo Witte fondando nel 1865 la “Deutsche Dante-Gesellschaft”, la più antica fra le società dantesche del mondo. Dieci anni fa ne fui eletto presidente e questo mi fu motivo di grande gioia. Da allora in poi mi sono ingegnato di tenere viva l’eredità spirituale e poetica di Dante in Germania, conforme agli statuti della società. Questa mia attività ha trovato un appoggio da parte della nostra illustre consorella, cioè la “Società Dantesca Italiana”, sotto la presidenza del carissimo amico Francesco Mazzoni, a cui esprimo anche in quest’ora la mia sincera gratitudine. L’organo scientifico della “Società Dantesca Germanica”, cioè il “Deutsches Dante-Jahrbuch”, mi ha offerto un foro adatto per presentare i miei studi danteschi ai lettori interessati. Nei contributi pubblicati da me in questo annuario si ravvisano in prima linea due temi: l’autointerpretazione di Dante come poeta e i suoi rapporti coll’eredità antica. Ad affascinarmi nel primo tema era il fatto che Dante – unico fra tutti i poeti medievali – avesse trasferito la propria persona nel centro della sua opera poetica e rivendicato per il poeta un rango speciale nella società. La sua soggettività culmina nella missione attribuita al “poeta-vates” nella “Commedia”. Tutto ciò che vede e viene a sapere non serve soltanto alla salvezza dell’anima peccaminosa del viandante, ma nello stesso tempo torna a vantaggio dell’umanità oppressa dal peccato, alla quale il poeta indica la via della beatitudine terrena ed eterna: “removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis”. Grazie alla consapevolezza del proprio valore Dante si sente allo stesso livello con i maggiori poeti dell’antichità e, a loro pari, s’inserisce nella loro schiera nel Limbo: “sì ch’io fui sesto tra cotanto senno”. Si scopre qui un nesso fra l’autointerpretazione del poeta e i suoi rapporti coll’eredità antica. Trattando quest’altro tema è da porre in evidenza di nuovo la posizione singolare di Dante nella letteratura medievale. Ciò che lo distingue da tutti gli altri poeti che ebbero a che fare coll’antichità è da un lato la vastità del suo sapere riguardo agli autori antichi, dall’altro lato la sua creatività stupenda che lo rese capace di far rivivere la cultura classica nel quadro del più grande poema cristiano dell’epoca. I miei studi sulla funzione degli autori antichi nell’opera di Dante riguardano anche l’altro centro dei miei interessi, cioè la sopravvivenza dell’antichità nella letteratura italiana. Di questa problematica mi sono occupato già nella mia tesi di laurea, cioè “Il platonismo nelle poesie di Lorenzo de’ Medici”, il mio primo libro, pubblicato a Berlino nel 1936. Ripresi il tema generale nella mia “Habilitationsschrift”, trattando i rapporti fra umanisti e poesia e la nascita della poetica normativa del classicismo. Lo studio dell’interpretazione di Aristotele e di Orazio da parte dei teorici umanistici mi convinse dell’importanza dell’assimilazione dei testi antichi per l’epoca moderna – in questo caso per lo sviluppo dell’estetica moderna. Ad allora risale l’interesse per questa tematica che mi impegna ancora oggi. Presi le mosse dall’interpretazione dell’epoca da parte degli stessi umanisti. Questi, grazie alla prospettiva del tutto nuova in cui guardano gli autori antichi, si sentono gli iniziatori di una nuova epoca e propagano un nuovo concetto dell’uomo. In questo modo d’intendere l’umanesimo italiano come un movimento che inizia l’età moderna mi vedo confermato da Eugenio Garin, uno dei migliori conoscitori dell’umanesimo dei nostri giorni. D’accordo con lui e col mio amico Hans Baron, considero i grandi umanisti non come intellettuali estranei alla vita sociale e isolati nella torre d’avorio, ma come membri della società consapevoli della loro responsabilità da fronte al prossimo, e impegnati nella “vita attiva politica”; ciò che ho cercato di dimostrare mediante il paradigma dell’umanesimo civile di Matteo Palmieri. Lo strumento per realizzare il loro programma di una educazione civile l’offersero agli umanisti gli “studia humanitatis”, i quali, secondo la definizione di Leonardo Bruni, spesso citata, vengono chiamati così “quod hominem perficiant atque exornent”. Sulla base di questi studi gli umanisti svilupparono un nuovo concetto della scienza opposto a quello scolastico. Sotto l’influsso umanistico da un lato le scienze già esistenti come la teologia e la giurisprudenza subirono una trasformazione incisiva, dall’altro nacquero nuove discipline come la filologia classica con l’archeologia, l’epigrafia e la numismatica e inoltre la storiografia moderna. I testi antichi editi o tradotti dagli umanisti diedero degli impulsi alla matematica e alla medicina, e in virtù dell’autorità degli autori antichi risuscitati dalle tecniche esistenti prima solo sul livello di prassi, salirono al rango di scienze come la geologia, la mineralogia e l’agricoltura. Questa formazione di un nuovo concetto di scienza nel Rinascimento aveva destato da tempo la mia attenzione e l’anno scorso sono riuscito a organizzare un colloquio su questo argomento finora a torto negletto dagli storiografi delle scienze. Sebbene l’umanesimo abbia fecondato le scienze, non è stato una scienza. Ha prodotto una antropologia non sistematica e in collegamento con essa una dottrina di vita. In lettere, dialoghi e trattati gli umanisti italiani hanno creato un nuovo genere letterario: la prosa umanistica d’intento morale. Combinando l’”eruditio moralis” degli antichi colle esperienze dei moderni, esposero una concezione della vita che doveva attuarsi nell’esistenza individuale, nella famiglia, nella convivenza sociale della società e nell’ordine statale. Leonardo Bruni ha concentrato la quintessenza di questo modo di vivere in una sola frase: “Bene agere, bene vivere ac felix esse”. Sotto questo aspetto moralistico ho trattato alcuni dei più importanti esponenti fra gli umanisti italiani: Leon Battista Alberti, Baldassar Castiglione e Alessandro Piccolomini. La prosa umanistica d’intento morale con le sue idee pedagogiche ha avuto un’eco oltre i confini dell’Italia nella vita intellettuale di tutta l’Europa. Nonostante gli elementi nazionali nelle correnti umanistiche al di là delle Alpi predominò l’influsso italiano. In Germania, dove l’influsso umanistico si fece sensibile per la prima volta per merito del Petrarca, fu Enea Silvio Piccolomini, chiamato dal Voigt l’apostolo dell’umanesimo italiano, che prese su di sé la missione di diffondere le nuove idee. Mi sono interessato del suo influsso sull’insegnamento nelle scuole di Norimberga, città la cui importanza è stata esaltata dal Piccolomini nel suo trattato “De situ, ritu, moribus et conditione Germaniae”. Le sue due lettere pedagogiche, indirizzate a due principi tedeschi, hanno avuto riflessi notevoli nel pubblico tedesco. E’ una delle prove per la penetrazione delle idee umanistiche italiane nella pedagogia tedesca contemporanea, un argomento complesso di cui ho parlato in un saggio ancora in corso di stampa. Una specie di somma di tutti gli aspetti dell’assimilazione degli autori antichi da parte dell’umanesimo italiano è contenuta nel mio libro “L’eredità classica nelle letterature neolatine del Rinascimento”, uscito nell’’80 anche in traduzione italiana. Era mia intenzione mettere in rilievo l’importanza decisiva dell’eredità classica quale componente costante della creazione letteraria in un’epoca in cui l’Italia ebbe il primato culturale in Europa. Seguendo l’esempio italiano i poeti e scrittori europei elevarono il principio dell’”aemulatio” con i modelli antichi a categoria fondamentale del loro modo di intendere la propria attività. Così il Rinascimento italiano ha indicato alla letteratura europea la via che la condusse attraverso la scuola degli antichi nell’epoca moderna. Se impulsi personali devono obiettivarsi in ricerche scientifiche lo scienziato dei nostri giorni deve ricorrere più che nel passato a uno scambio di idee con rappresentanti di altre discipline e a quelle istituzioni pubbliche che facilitano gli studi privati. Perciò il collaborare all’organizzazione della ricerca su basi collettive mi sembra essere un compito urgente a cui nessuno scienziato dovrebbe sottrarsi. Mentre riguardo agli studi danteschi ho avuto sempre a mia disposizione un’organizzazione provata, le ricerche sull’umanesimo, che fiorivano una volta in Germania, decaddero dagli anni trenta in poi e dopo la guerra non trovarono più che pochi interessati. A rianimare queste ricerche e a procurare ad esse di nuovo un prestigio internazionale servono due istituzioni, create su mia iniziativa: la “Senatskommission für Humanismusforschung” alle dipendenze della “Deutsche Forschungsgemeinschaft”, organo supremo dell’assistenza alle scienze (corrispondente al “Consiglio Nazionale delle Ricerche”) e il “Wolfenbüttel Arbeitskreis für Renaissanceforschung”, istituito presso la famosa Herzog August Bibliothek, biblioteca ricca di fonti della cultura italiana dal Trecento al Seicento. Organizzando colloqui, pubblicando nuove ricerche e dando appoggio ai ricercatori, ambedue le istituzioni fanno il possibile per incoraggiare, coordinare e mandare avanti gli studi sul Rinascimento e sull’umanesimo in Germania. I fatti storici giustificano che la parte centrale dei lavori delle due istituzioni è dedicata alla cultura del Rinascimento italiano. Questa cultura ha dotato di vita nuova un concetto, coniato dalla élite intellettuale di Roma antica: penso al concetto di “humanitas” risorto nel pensiero umanistico. In questo concetto si riuniscono le qualità che distinguono l’”homo humanus” che vive in società, vale a dire bontà, benevolenza, indulgenza e misericordia. L’uomo deve imparare a vincere la sua animalità dandosi alla “humanitas”: “humanitatem induere et feritatem deponere” ammonisce il padre dell’umanesimo, Francesco Petrarca, i suoi contemporanei. Dopo di lui altri umanisti hanno ripetuto questo ammonimento. E’ stata, a mio avviso, la più fruttuosa lezione data dall’umanesimo italiano a tutto il mondo.