Pisa, ottobre 1993
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Il conferimento del Premio Internazionale Galileo Galilei costituisce per me non solo un riconoscimento delle mie attività scientifiche, ma soprattutto uno stimolo di continuare questa mia via di studi di italianistica di cui il presidente Bolelli mi ha gentilmente invitato di parlare in questa sede. Esprimo i miei vivi ringraziamenti ai Rotary italiani e a tutti quelli che hanno contribuito alla cerimonia di oggi. Premetto che già una laudatio per un amico o per un collega stimato costituisce per me uno sforzo particolare, tanto più mi ripugna di parlare di me stesso. Vorrei ricordare il comportamento del mio maestro Walter von Wartburg che al momento della nomina al dottorato honoris causa dell’Università di Oxford aveva proposto al senato accademico di mandargli per posta il rotolo con il diploma onorifico per non perdere il suo tempo prezioso viaggiando in Inghilterra. Devo confessare che non considero un tale incontro con amici in un ambiente così solenne come perdita di tempo, ma è per me una sosta gradevole che permette di riprendere le mie attività future con nuove forze e impulsi. Questo breve soggiorno a Pisa suscita in me molti ricordi e mi fa rivivere il semestre più bello dei miei studi universitari dell’anno 1957, in cui ho passato 6 mesi come borsista svizzero nella Scuola Normale Superiore e in questa Università. Quel periodo vissuto nel Palazzo dei Cavalieri studiando insieme con i normalisti italiani è per me pieno di ricordi indimenticabili di amicizia che continua fino ad oggi, di esperienze scientifiche e umane. Trentasei anni fa, il direttore della Normale a quell’epoca, il prof. Bolelli, mi aveva invitato a presentare nel suo seminario la scuola svizzera di italianisti celebri quali Jaberg e Jud. Mi ricordo inoltre le lezioni dei grandi maestri di allora a Pisa quali Luigi Russo, Silvio Pellegrini, Giovan Battista Pellegrini e di altri, senza parlare della visita in Normale del presidente Gronchi o della scappata vietata alla Piazza dei Miracoli all’alba quando il palazzo dei Cavalieri era ancora chiuso. Quel semestre a Pisa non costituisce però il mio primo contatto con la lingua e la cultura italiana. Già nel liceo il mio professore di latino Franz Fankhauser riusciva a entusiasmarmi per lo studio delle lingue romanze; dopo la maturità mi disse che avrei dovuto conoscere anche l’italiano prima di cominciare lo studio del mondo romanzo. Così in tre mesi mi iniziò alla lingua italiana, in modo che potessi seguire le lezioni in italiano del mio maestro Reto Bezzola e il corso di perfezionamento del lettore pisano Martinengo all’Università di Zurigo. Dopo il dottorato fui nominato professore di liceo: qui insegnai il francese e l’italiano con trenta ore di lezione settimanali. Fu quello un decennio di lavoro intenso in cui, oltre ad insegnare al liceo, finivo la mia seconda tesi e compivo il tirocinio lessicologico presso l’altro mio maestro, Walther von Wartburg. Ogni lunedì partivo da Zurigo alle 7 di mattina, lavoravo a casa di Wartburg dalle 8 e mezzo alle 22, per poi tornare a Zurigo verso mezzanotte. In dieci anni, dal 1960 al 1970, ho imparato così il mestiere del lessicografo. Devo molto al “padrone” come noi allievi abbiamo chiamato Wartburg. A lui e al mio professore di latino, Franz Fankhauser, ho per questi motivi dedicato il LEI. Redigendo gli articoli del FEW, ho concepito l’idea di creare un’opera sorella al FEW, che possa permettere il confronto diretto tra Galloromania e Italoromania. Essere coscienti dell’importanza di tutte le forme documentate, sia per la lingua standard che per i dialetti, è la lezione imparata lavorando al FEW. Quest’opera ha rappresentato per me il modello della precisione filologica. Walther von Wartburg mi ha affascinato con il suo slancio instancabile, con la sua abnegazione totale, con la sua perseveranza inesorabile. L’anno 1969 è stato decisivo per me: l’ottenimento della libera docenza all’Università di Zurigo e la nomina come Cattedratico a Marburgo pochi mesi dopo, hanno significato l’emigrazione in Germania, le necessarie dimissioni dall’incarico di comandante di battaglione di fanteria e l’inizio dei lavori al Lessico Etimologico Italiano, impresa avviata fin dagli ultimi mesi della mia attività a Zurigo. Da questo momento in poi, i miei interessi di studio nel settore italianistico si dirigono in tre direzioni. A Marburgo ho avuto la fortuna di incontrare come collega e amico lo specialista dell’umanesimo August Buck, vincitore del premio Galileo Galilei dell’anno 1982. Insieme con lui tenni due seminari, conclusi con due pubblicazioni in comune: Studi sulla prosa dell’umanesimo fiorentino nel Quattrocento, e Studi sui volgarizzamenti di autori latini nel Tre— e Quattrocento. Anche un contributo sulla lingua di Dante è nato sotto l’impulso del mio amico Buck, che era in quegli anni presidente della Società dantesca in Germania. Un secondo mio campo d’interesse è costituito dagli studi sul superstrato germanico, cioè sul gotico e longobardo e sul loro influsso nella costituzione dell’Italia dialettale. Una conferenza plenaria sul superstrato germanico nelle lingue romanze al Congresso internazionale di linguistica e filologia romanza, a Napoli nel 1974, mi portò poi alla carica di consigliere, di vicepresidente e infine di presidente della Società internazionale di filologia romanza, successore di Aurelio Roncaglia. Diversi lavori in questo campo mi hanno permesso di fare la conoscenza di illustri colleghi italiani e di collaborare in una rete interdisciplinare con archeologi e storici. Tuttavia, se oggi posso parlare davanti a voi, questo riconoscimento è dovuto soprattutto al Lessico Etimologico Italiano, “al tiranno” che spietatamente esige i suoi tributi, come il mio amico filosofo Silvestro Marcucci chiama l’opera della mia vita. Dandomi il Premio Galileo Galilei, onorate nello stesso tempo anche tutta la squadra di collaboratori che con entusiasmo si dedica con me a questa opera pluriennale. Al giorno d’oggi, infatti, un grande dizionario non si scrive più da solo a tavolino. L’epoca di un Du Cange, di un Littré o di un Tommaseo è passata per sempre. Oggi necessitano collaboratori capaci e motivati, una squadra efficace, e mezzi finanziari assicurati per molti anni. Quanto al lavoro di squadra è opportuno ricordare l’opinione sfavorevole di Max Leopold Wagner, eminente autore del Dizionario etimologico sardo, che nel 1943 scrisse (3,22): “nulle part ailleurs que dans le domaine linguistique, l’individualité du chercheur est aussi décisive que dans le domaine étymologique… le travail étymologique ne peut être produit sans arrêt”. Per essere chiaro: da parte sua, Wagner presentava una serie di obiezioni ad un lavoro di squadra nel dominio etimologico, in quanto a suo parere l’unità di un tale dizionario richiede spesso decisioni prese da un solo responsabile. Ma d’altra parte, un lavoro gigantesco come il LEI non si realizza più da solo. E’ un dilemma difficile da risolvere, che esige compromessi forse sempre non soddisfacenti per tutti i collaboratori. Il lavoro di squadra esige il rispetto di certe regole unitarie e comporta anche che il redattore, alla fine di un articolo, firmi l’articolo e assuma la responsabilità di quanto sostiene. Nonostante l’opinione di Wagner, sono convinto che la mia preoccupazione principale deve essere quella di formare buoni redattori, dando vita a una squadra internazionale ben motivata e che lavori con molto impegno, capace di continuare la mia opera. In questo momento dispongo di tre posti di redattori: un posto fisso e due posti divisibili in contratti parziali di lavoro; a questo nucleo che ha sede in Germania, si affianca una dozzina di redattori soprattutto italiani, colleghi o futuri colleghi delle Università di Padova, Trieste, Torino, Viterbo, Napoli, Bari, Lecce e Palermo. Attualmente mi sforzo di ottenere due borse dal CNR da accordare a giovani ricercatori che, in parte, lavorerebbero per il LEI e, in compenso, sarebbero introdotti da me nel lavoro lessicografico, e potrebbero utilizzare il mio materiale per i loro lavori personali. Un tale appoggio da parte italiana confermerebbe anche l’interesse italiano alla impresa del LEI, e dissiperebbe le critiche tedesche al fatto che il LEI, con molti redattori italiani, debba solo essere finanziato con mezzi tedeschi. In questa sede vorrei presentare i miei ringraziamenti particolari perché il conferimento di un simile premio dimostra anche l’interesse e la stima che i miei colleghi, facenti parte della giuria del premio, esprimono nei riguardi della mia opera. Se diamo uno sguardo retrospettivo allo sviluppo del LEI negli ultimi venti anni, vediamo che il cammino percorso non è stato senza ostacoli. La mia prima domanda alla Comunità tedesca di ricerca scientifica (DFG), fu respinta. Non senza ragione, Gerhard Rohlfs, il terzo vincitore del premio Galileo Galilei nell’anno 1964, aveva dato un giudizio negativo, quando era stato interpellato sulla possibilità di realizzazione del mio progetto lessicografico. Rohlfs giudicava negli anni sessanta e settanta un progetto come il LEI non realizzabile, almeno fino a quando la linguistica italiana non avesse potuto disporre di un dizionario dell’italiano antico paragonabile al Godefroy o al Tobler-Lommatzsch per il francese. Ognuno può immaginarsi con quanta impazienza io aspetto e con quale entusiasmo io auspico la realizzazione del desiderato Tesoro della lingua italiana delle origini, impresa grandiosa già dell’Accademia della Crusca, passata poi al Consiglio Nazionale delle Ricerche, progetto sotto la direzione del collega Beltrami, pisano, che ora finalmente prende forma concreta e merita tutto l’appoggio nazionale e internazionale. Spero che anche i Rotary italiani concorreranno a un tale progetto culturale di primo ordine e di grande rilevanza scientifica, e che il nuovo direttore dell’opera del vocabolario non sia più costretto come in giugno di quest’anno a sottolineare “palese inadeguatezza delle risorse” per tale progetto di ricerca. Scusate questa parentesi. Rohlfs, dunque, nel 1970 aveva i suoi dubbi giustificati riguardo al LEI. Le perplessità si dissiparono solo quando nel 1973 ho pubblicato i primi articoli di prova e poi, nel 1979, ho pubblicato il primo fascicolo dell’opera. Gerhard Rohlfs in quel momento fu il primo a congratularsi con me, scrivendo su una cartolina: “ha vencido lo imposible”. Oggi, dopo venti anni, ho finito la raccolta del materiale preliminare (ca. 5 milioni di schede), a parte le nuove accessioni, e ho ultimato la pubblicazione della lettera A (4 volumi), cioè la decima parte dell’alfabeto totale. Nel 1973, al momento in cui si decideva se la Comunità tedesca della ricerca scientifica volesse sostenere il mio progetto o no, uno degli esperti mi chiese l’età. Alla mia risposta che avevo 40 anni, osservò che io avevo già perduto la corsa con la morte, e aggiunse che Wartburg, alla stessa età, aveva già pubblicato il primo volume del FEW, e che io ero quindi 10 anni in ritardo in confronto a Wartburg. Alla mia replica che Wartburg doveva scrivere le schede a mano e che io potevo avvalermi delle fotocopie, mi fu risposto che Wartburg, per questo lavoro, aveva a disposizione tutta la sua famiglia (copiavano schede sua moglie, sua figlia, magari sua suocera), e che in più poteva sfruttare i suoi assistenti all’università che per carriera dovevano “servire il loro padrone”, e che io, invece, come cattedratico del dopo ’68, non avevo più i mezzi di pressione dei baroni universitari prima di questa data. Erano obiezioni a cui non seppi rispondere. Il mio progetto lessicografico fu però accettato e finanziato per 10 anni dalla Comunità tedesca della ricerca scientifica, e dal 1984 in poi dall’Accademia di Magonza, con mezzi del Saarland e del Ministero della ricerca. So bene che la realizzazione del LEI dipende da quattro fattori: dalla mia salute e capacità di lavoro, dalla qualità dell’opera, dal finanziamento continuo e dai miei successori e collaboratori. Ogni tre anni il lavoro del LEI viene valutato e controllato da parte della commissione filologica all’Accademia di Magonza e dalla Bund-Länder-Kommission. La continuità dell’impresa è garantita unicamente dall’alta qualità degli articoli, e da una pubblicazione regolare e costante dei fascicoli, attualmente 4 fascicoli l’anno. In occasione dell’ultimo controllo, la Commissione mi ha posto alcune domande sgradevoli: Quando il LEI sarà terminato? Quali prospettive di continuità esistono? O in maniera più diretta: Che succederà dopo la mia morte? I miei calcoli impediscono qualsiasi illusione: il LEI sarà terminato entro 60 anni, a partire da oggi, se si suppone una pubblicazione regolare di 4 o 5 fascicoli all’anno. L’unico modo per accelerare questo ritmo consisterebbe nella creazione di una seconda squadra di redazione che, simultaneamente, comincerebbe con la redazione della lettera D. Attualmente, sto preparando questa seconda squadra di redazione, che potrebbe entrare in funzione dal 1994 in poi, a condizione però che mi sia accordato un posto supplementare di redattore, da assegnare a persona capace e volenterosa. Quando, nell’anno 1972, ho incontrato la prima volta il mio collega Manlio Cortelazzo, a Padova, spiegandogli il mio progetto del Lessico etimologico italiano, mi ha guardato in maniera strana, dicendomi che, per realizzare un tale progetto, mi sarei dovuto ritirare in convento. L’amico pisano – filosofo – mi ha paragonato allo schiavo medievale che non poteva abbandonare la sua gleba. Il grande lessicografo Giuseppe Giusto Scaligero riferiva la sua esperienza personale, quando scriveva che dedicarsi alla compilazione di un dizionario fosse fatica più grave e più dura di ogni pena, più del carcere a vita, più dello spossante lavoro nelle miniere: “Omnes poenarum facies hic labor unus habet.”. In realtà, spesso i termini per l’invio dei manoscritti in tipografia sono schiaccianti e riducono la mia libertà personale, tenendo conto anche dei miei obblighi all’università e della carica di direttore della Zeitschrift für romanische Philologie che attualmente ricopro. Per terminare, non vorrei nascondervi le mie esperienze come lessicografo e, soprattutto, come membro di commissioni di alcune imprese lessicografiche di lunga durata, che sono in corso di pubblicazione. La direzione di una grande impresa lessicografica esige una volontà di ferro, uno sforzo immenso, costante e regolare, con la convinzione che un tale lavoro è necessario, indispensabile per la nostra scienza. Non dobbiamo dimenticare che Wartburg, malgrado la schiera di collaboratori di cui disponeva, ha redatto lui stesso quasi l’80% degli articoli del FEW; la mia parte di articoli del LEI supera ancora il 50%. Ecco una breve presentazione del LEI, opera gigantesca o, forse, smisurata per alcuni; per me piuttosto una sfida affascinante. Personalmente sono convinto di aver scoperto la chiave del successo del mio maestro Walther von Wartburg, successo che gli ha permesso di realizzare il suo FEW: il suo sforzo instancabile, quasi sovrumano, e il suo impegno personale come capo di impresa che sapeva entusiasmare ed affascinare tutti i suoi collaboratori. Personalmente sono stato impressionato in modo tutto particolare dopo aver visto la sua disponibilità e la sua volontà di vivere gli ultimi decenni della vita unicamente per il FEW, pienamente cosciente di aver creato un’opera fondamentale che gli sopravviverà e che conserverà la sua memoria.