Pisa, ottobre 2010
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Illustri signori delle autorità, stimatissimi colleghi, carissimi amici e amiche.
E’ un grande onore essere scelto come vincitore del Premio Galileo Galilei. Questa onorificenza provoca in me un non piccolo senso d’imbarazzo. Posso contare almeno una diecina di altri storici – molti dei quali sono amici — certamente più meritevoli di me per questo onore. Ma non posso, nemmeno, nascondervi il piacere di trovarmi qui, per accettare formalmente questo prestigioso premio, e per condividere con voi miei sentimenti di gratitudine e di piacere. D’altronde, non mi sfugge una coincidenza assai significativa per me, che immagino non sia sfuggita ai membri del giurì che mi ha fatto questo onore, e cioè che questo premio arrivi proprio al momento di chiusura della mia carriera accademica. E’ pressoché inevitabile, perciò, che le mie osservazioni odierne abbiano un carattere retrospettivo, che esse rappresentino un tentativo di evocare pochi momenti del mio passato personale e professionale. Aggiungo che nel corso di riflettere su che cosa avrei voluto raccontarvi oggi, ho sentito un ulteriore senso di imbarazzo. Fatto è che spesso nutro un sentimento di scetticismo nei confronti di racconti autobiografici – particolarmente se scritti da scienziati o studiosi — i quali, raramente, mi sembra, riescono ad evitare la trappola di una visione lineare e rigidamente teleologica nella rievocazione delle loro carriere. Per quanto mi riguarda, vorrei soffermarmi solo su pochi momenti, non necessariamente collegati direttamente tra loro in questa occasione, piccoli frammenti di un immaginario discorso che sarebbe più complicato, molto più lungo, e francamente di scarso interesse per voi.
Sono passati esattamente quarantotto anni da quando, in ottobre dell’ormai lontanissimo 1962, un ragazzo di poco più di vent’anni arrivò a Firenze.
Anche se lo scopo del suo soggiorno era chiaro a lui, aveva le idee assai confuse. Voleva scrivere una tesi, ma, era evidente addirittura a lui stesso, che sue conoscenze erano pateticamente insufficienti per un tale compito. Un giorno della prima settimana di quel lontanissimo ottobre, salì la lunga scalinata del vecchio e bellissimo Archivio di Stato di Firenze negli Uffizi, si guardò intorno, balbettò qualche parola d’italiano al dottor De Feo, che, allora, era responsabile della piccola e schiettamente arredata sala di lettura, cercò di orientarsi tra gli inventari, tutto il lungo intimorito che qualcuno avrebbe scoperto la sua impreparazione ed ignoranza, e concluse (tenendo però il pensiero a se stesso) che quel luogo affascinante nel quale si era introdotto richiedeva conoscenze e intelligenza che erano ben superiori alle sue. Dopo un paio di ore, che sono tuttora vivamente impronte nella sua memoria, fece marcia indietro, scese scoraggiato la lunga scalinata e se n’andò. Passarono non poche settimane prima che si riprendesse il coraggio per riaffacciarsi nella sala di lettura.
Nel frattempo, fece la conoscenza di un paio di ragazzi italiani, qualcuno dei quali è rimasto amico fino ad oggi. Uno di questi gli suggerì di iscriversi alla Facoltà di Lettere dell’Università. Sarebbe un’occasione per incontrare gente, migliorare il suo italiano, e, forse, chiarire le sue idee sul progetto di tesi. Fu un ottimo consiglio. Iscrittosi alla Facoltà di Lettere per seguire corsi singoli, ebbe l’enorme fortuna di avere una serie di professori straordinari: Eugenio Garin in storia della filosofia, Ernesto Sestan e Elio Conti in Storia Medievale, Delio Cantimori in Storia Moderna. Poco dopo incontrò e chiese consigli ad Alessandro Perosa, Arrigo Castellani, Paola Zambelli. Nessuno di loro offrì grandi suggerimenti chiarificatori per la tesi. Ma, nel corso del tempo, le loro lezioni, ed insegnamenti, e, forse più importante di tutto, il loro incoraggiamento furono fondamentali nel creare un senso di fiducia in se stesso. Così, più di un mese dopo la ritirata ingloriosa dalla Sala di Lettura dell’Archivio di Stato di Firenze, risalì con maggior fiducia la lunga scalinata e si buttò in un percorso di ricerca che, più passava il tempo, più gli pareva una sfida di straordinario fascino.
Qualche decennio dopo, quando, nella battuta di una sua nipotina, il ragazzo era ormai diventato un vecchio pensionato, egli ebbe occasione di riflettere sulle circostanze che lo indussero a diventare uno storico del tardo medioevo e del rinascimento e, con il passare del tempo, del commercio mediterraneo in epoca moderna. In quell’occasione, gli sembrò che, innanzitutto, una serie di circostanze casuali tracciarono il sentiero della sua vita professionale, ma che almeno quattro considerazioni particolari furono importanti per spiegare il perché, almeno all’inizio della sua carriera, si fosse concentrato su certi temi di ricerca, spesso, però, ponendosi delle domande che si rivelarono poco efficaci per quanto riguardasse una strategia di ricerca. Queste quattro considerazioni furono gli interessi (generali per non dire generici) che egli sviluppò quando era ragazzo in Grecia, crescendo durante l’ultima grande guerra ed il periodo post bellico; la scoperta, dopo i suoi studi liceali, del mondo scientifico statunitense; la sua introduzione in quel mondo, oserei chiamarlo quasi un mondo magico, dell’Archivio di Stato di Firenze; e i suoi contatti, avviati per primo nelle aule delle Facoltà di Lettere dell’Ateneo fiorentino, con il mondo delle idee e la ricchissima tradizione storiografica italiana. E poi, un’altra circostanza ancora, forse non meno importante, fu lo stimolo che ricevette nel corso degli anni da un gruppo di studenti straordinari che ebbe la fortuna di insegnare in tre ambienti accademici assai differenti l’uno dall’altro: gli Stati Uniti, l’Italia, e l’Istituto Universitario Europeo.
Quel ragazzo che arrivò a Firenze 48 anni fa, era nato e cresciuto, in circostanze non sempre facili, in Grecia, nella città di Salonicco, in una famiglia della media borghesia mercantile sefardita di quella città. Riunitosi con i genitori dopo la guerra, ebbe la fortuna di frequentare scuole che rinforzarono in lui valori e sentimenti che i propri genitori cercavano di impartirli: anzitutto, la convinzione che, qualsiasi strada uno segua nella vita, i libri, la storia e la letteratura andrebbero presi molto sul serio. L’insegnamento di un professore molto amato, (mi preme ricordarlo per nome oggi) Tassos Georgopapadakos, fu fondamentale: insegnante di Greco, antico e moderno, e di storia riuscì a trasmettere a non pochi dei suoi studenti un senso dell’importanza etica e della bellezza dello studio. Una quindicina di anni dopo la conclusione dei suoi studi liceali, quando questo ragazzo era ormai diventato uomo ed insegnante di storia in una università americana, il vecchio maestro li scrisse dalla Grecia. Li descrisse le condizioni umilianti che gli erano state imposte dagli sbirri dei colonnelli che in quegli anni governavano il paese, e lo incoraggiò, semplicemente, di continuare a studiare ed insegnare la storia. Non scrisse altro. Ma il senso delle sue parole sembrò chiaro all’allievo. Era lo stesso che, in parole oblique ed insegnamenti indiretti, il professor Georgopapadakos e qualcun altro dei suoi maestri liceali avevano cercato di impartire ai loro allievi. Studiare voleva anche dire coltivare un senso delle alternative possibili al potere. Era una lezione che l’esperienza devastante subita dalla sua famiglia durante la guerra non poteva che rinforzare nella sua coscienza. Questa lezione gli fu ampiamente rinforzata nel corso dei suoi primi anni negli Stati Uniti. Certo, per un ragazzo diciottenne, cresciuto in un ambiente dove tradizione ed oppressione erano strettamente coniugate l’una all’altra, gli Stati Uniti della fine degli anni Cinquanta offrivano una gamma quasi infinita di possibili lezioni –culturali, pratiche, politiche, etiche. Innanzitutto, c’era il senso della libertà dai vincoli che avevano tracciato i limiti del suo immaginario nella sua patria di origine. Il ragazzo sentì questo senso di libertà, subito anche nello scegliere suo corso di studio, in una università certo di non primissimo ordine, ma dove un paio di vecchi storici di grande valore, come furono Donald Barnes e Carl Wittke stavano chiudendo loro carriere, e due altri giovani, nelle loro prime armi, stavano avviando carriere notevoli: Jack Greene, nella storia delle colonie inglesi nel nord America, e Marvin Becker, storico tra i primissimi negli Stati Uniti ad occuparsi della storia di Firenze nel tardo medioevo e rinascimento. La conoscenza con Becker –personaggio di un fascino personale irresistibile, e di energia intellettuale impareggiabile, anche se di umore non sempre prevedibile—fu determinante. Nelle sue lezioni, egli affrontava questioni e temi che spesso s’incontravano separatamente in trattamenti di storia politica, storia economica, storia delle idee, storia sociale, mentre sempre cercava di suggerire collegamenti ed influenze reciproche tra il mondo del potere, del pensiero, della società. Anni dopo, in seguito al suo arrivo in Italia, il giovane capì quanto profonda era stata per Becker l’influenza del pensiero storicista, e quanto poco, invece, era stato toccato da una altrettanto importante tradizione scientifica italiana, cioè la filologia. Ma questa era un’idea che colpì solo dopo. Ripensandoci sopra, due considerazioni sembrarono importanti: studiare con Becker voleva dire entrare nell’ambito di un gruppo di studiosi –in gran parte esuli ebrei rifuggiatisi negli Stati Uniti poco prima della seconda guerra mondiale, due dei quali, Hans Baron e Roberto Lopez, furono particolarmente importanti nella sua formazione, in parte, anche, giovani americani, appunto come Becker, che contribuirono a far nascere e fiorire nella seconda metà del secolo scorso una grande scuola statunitense sul rinascimento italiano. Studiare con Becker voleva anche dire entrare in dialogo con uno storico la cui visione era stata fortemente influenzata dalla sua lettura di Jacob Burckhardt e di Federico Chabod. Per Becker, uno dei fenomeni determinanti del quattordicesimo e quindicesimo secolo fu la creazione di un nuovo tipo di stato, uno stato moderno. Il particolare contributo di Becker a questa discussione fu sua percezione che al centro del processo di costruzione dello stato ci fu un meccanismo economico. L’emergere di un tipo di finanziamento deficitario dello stato, con il consolidarsi nella metà del Trecento del debito pubblico conosciuto come il Monte Comune, consentì ad una classe sociale di investire sue risorse materiali nello stato e perciò di identificarsi con sue strutture e di partecipare attivamente nelle attività politiche. Per Becker, essere cittadino fiorentino alla fine del Trecento e per il secolo successivo acquistò tutt’un altro significato grazie alla creazione di questo nesso tra finanza privata, finanza pubblica e politica. Oggi sarebbe facile identificare le esagerazioni ed i limiti di questa interpretazione. A me, oggi, preme invece asserire quanto nuova e potente era questa visione, e quanto profondamente influì quel ragazzo che, con molta esitazione, approdò all’Archivio di Stato di Firenze nel 1962. Consentitemi, almeno brevemente, di parlarvi in prima persona. Mi è chiaro che per una grande parte della mia vita professionale, il dialogo con le idee di Becker ha occupato parte centrale della mia ricerca storica. Dialogo implica non solo consenso. Così è stato a lungo con miei rapporti intellettuali con Becker. Non vorrei annoiarvi con i dettagli di uno scambio che durò più di 40 anni. Qui mi preme solo dire che, in contrasto con Becker, a me è apparso importante sottolineare non solo gli aspetti positivi, ma anche i lati più oscuri del consolidamento e della gestione del debito pubblico, cioè della creazione dello stato moderno: la creazione di meccanismi fiscali intesi a far circolare la ricchezza della società dal basso verso l’alto, una politica con lo scopo di avvantaggiare i più potenti nei confronti dei più deboli: i cittadini in confronto ai contadini, i ricchi ai poveri; in conseguenza, l’emergere di una classe dirigente che spesso cercava di sfruttare per il proprio vantaggio le strutture fiscali dello stato e che si basava su quelle strutture per riprodurre posizioni di privilegio delle famiglie cittadine più importanti; infine, la capacità della famiglia Medici di emergere, negli anni venti e trenta del Quattrocento, come i primi inter pares all’interno della classe dirigente cittadina, grazie anche alla loro volontà di finanziare, con dei prestiti a breve termine allo stato, di cifre enormemente superiori a quelle disponibili dai loro rivali. Queste idee emersero lentamente e mi condussero a seguire sentieri di ricerca che spesso producevano risultati ambigui e non chiari, come per esempio il tentativo, abortito strada facendo, sul rapporto tra mortalità infantile nel quattrocento ed investimenti di famiglie nel debito pubblico. I silenzi delle fonti su tutta una serie di varianti, possibilmente importanti, erano troppi per poter affrontare questa domanda. Ma l’idea di Becker –cercare di intravedere il nesso tra politica, fiscalità, e modernità—continuò ad offrirmi una sorta di bussola per anni dopo la fine dei miei studi con lui. Il riferimento alle fonti ci porta indietro nel tempo, al momento del primo impatto con l’Archivio di Stato a Firenze. Questa scatola magica enorme, che nascondeva inimmaginabili segreti, esercitò, e continua ad esercitare, uno stimolo enorme sulla sua immaginazione. L’immersione in fonti largamente sconosciute spesso servì come un tipo di elisir, che continuava a tirarlo alla direzione dell’Archivio. Il fascino fu ulteriormente radicato nel 1970, dalla decisione di Guido Pampaloni, allora direttore dell’Archivio di Stato, di affidarli la preparazione del primo inventario della documentazione superstite del Monte Comune. Nel corso di un anno di una memorabile intensità, con l’aiuto quotidiano di una grande squadra di uscieri dell’ Archivio, qualcuno dei quali rimase amico per anni dopo, riuscì a vedere e catalogare, pezzo per pezzo, i 3.947 volumi del Monte. Sulla base di quella esperienza, l’ormai non più giovane storico decise di dedicare uno studio al Monte delle doti, istituzione che squisitamente combinava fiscalità pubblica ed interessi privati. Nel passare degli anni, la prospettiva cambiò, sue curiosità in certi sensi si allargarono, in altri si ristrinsero, due vivacissime comunità alle quali ebbe la fortuna di appartenere gli offrirono uno stimolo continuo a ripensare criticamente sue idee. Ho scritto altrove quanto importante è stata per molti di noi la conversazione continua tra gli utenti della sala di lettura dell’Archivio di Stato di Firenze. Per un quindicennio a cavallo della catastrofe dell’alluvione, essere presente nella sala di lettura dell’Archivio di Stato era equivalente a partecipare in un seminario continuo di storia fiorentina. Studiosi che provenivano da tutto il mondo, grandi storici come Carlo Cipolla, Raymond de Roover, Graf von Polnitz, Nicolai Rubinstein ed altri ancora, frequentavano quasi da uguali i giovani principianti, discutendo una gamma inesauribile di temi, offrendo, l’uno all’altro, continuo stimolo e incoraggiamento. Questo stimolo spingeva verso la continua e sempre più sistematica immersione nelle fonti, nel tentativo di entrare nel maggior dettaglio possibile e di discutere concretamente problemi inerenti al corso della storia fiorentina. In quegli anni, l’illusione di arrivare a delle risposte definitive fu ulteriormente sentita grazie ai metodi quantitativi e di analisi seriale che venivano adottati da non pochi storici con entusiasmo, ma, spesso, senza la dovuta riflessione epistemologica. D’altra parte, un’altra comunità alla quale partecipava attivamente in quegli anni lo spingeva in direzione opposta, non necessariamente di allontanarsi dall’archivio, ma di ripensare criticamente quel nesso – che inizialmente sembrava ovvio e naturale—tra i dati inediti scovati dalle filze dell’archivio e lo studio della storia. Quest’ altra comunità fu il dipartimento di storia della Brown University, dove ebbe la grande fortuna di insegnare per molti anni. La vivacità intellettuale ed una collegialità sistematicamente coltivata da quel gruppo di storici, tra i quali per gli ultimi anni della sua vita fu anche David Herlihy, offrivano uno stimolo costante a riflettere su quadri storici più vasti all’interno dei quali situare la storia di un piccolo, pur importante stato come quello di Firenze. Fu così che, grazie anche alle conversazioni e agli stimoli che ricevette da Maurice Aymard, grande storico che è ormai diventato un carissimo amico, ed alle discussioni intense avviate con suoi colleghi ed all ievi all’Istituto Universitario Europeo, che egli cominciò a studiare questioni di storia mediterranea. Se, nei suoi studi precedenti, la costruzione dello stato moderno rimaneva la questione centrale, ora, sua attenzione veniva maggiormente attratta dal fenomeno del commercio transculturale ed interetnico. Le reti mercantili di ebrei sefarditi, armeni, e greci venivano ad occupare una parte centrale della sua attenzione, mentre le domande si spostavano verso questioni delle tensioni, variabili nel tempo e nelle loro intensità, tra solidarietà di gruppo e attività commerciali. Questa attenzione alla storia di mercanti il cui senso di identità nasceva non solo dalla loro appartenenza ad un gruppo, ma anche dalle loro vite perennemente itineranti risultava anche ad uno spostamento dei luoghi di lavoro dello storico stesso. L’Archivio di Stato di Firenze, dove trovò i bellissimi rapporti inviati a Firenze da vari consoli austriaci nei porti del Mediterraneo orientale nella seconda metà del 18o secolo, fu affiancato da altri archivi, come il Public Record Office di Londra, l’archivio dell’Alliance Universelle Israélite a Parigi, la Biblioteca Gennadeios at Atene, ed altri ancora. Temo di avervi annoiato troppo con le mie divagazioni. Vi ho finora parlato della mia formazione iniziale in Grecia, dell’importanza del mio apprendistato ed insegnamento negli Stati Uniti, e della mia esperienza nell’Archivio di Stato di Firenze. Dei quattro temi che toccai all’inizio del mio discorso, ne resta uno: quello della mia esperienza con il mondo delle idee italiano. Potrei facilmente, ma a troppo basso prezzo, cavarmene facendo riferimento alla mia italianissima, anzi fiorentinissima nipotina, splendido prodotto dei miei contatti non solo con il mondo italiano delle idee. E’ evidente che la storiografia e il mondo delle idee italiane mi hanno profondamente marcato. Non credo sia questa l’occasione per entrare in una discussione dettagliata su questo tema. Vorrei solo toccare un punto, per suggerirvi il perché della mia profonda riconoscenza nei confronti di un paese che, ormai, considero come una delle mie patrie. E questo è un motivo semplice. E’ in Italia che riuscì a sentire il senso pieno della libertà intellettuale, di avere trovato degli interlocutori –non solo professori— coi quali avviare discorsi sui temi più svariati, senza limiti di quello che si potrebbe dire o non dire. Certo, questa condizione mancava nella Grecia degli anni 40 e 50, quando il paese dovette affrontare non solo la catastrofe della seconda grande guerra, ma anche i disastri provocati dalla guerra civile. Curiosamente, questo senso di libertà mi sembrò che mancasse pure negli Stati Uniti. Mi ricordo benissimo mio stupore nel mio primo corso di economia, nel corso del quale, non si incontrò nemmeno l’ombra di Karl Marx o di qualsiasi teoria marxista. Espressi mio stupore in lettere al mio amico di cuore che era rimasto in Grecia, e solo dopo capimmo insieme il motivo: Ero cascato nel seminario di uno degli allievi prediletti di Milton Friedman, il quale imponeva ai suoi studenti una visione rigidamente ortodossa, in chiave liberale, dell’economia. In contrasto, nutro un ricordo ancora vivissimo del primo contatto con Eugenio Garin, quando, ogni sabato mattina, il grande storico della fisolofia esponeva sue idee sui giovani hegeliani. Il mondo della filosofia marxista e di tutto l’ apparato critico che ne sboccia non potrebbe che risultare importante per un giovane che aveva deciso, nei primi anni Sessanta, di diventare uno storico. Non solo per la scoperta di un orizzonte di idee e di analisi che arricchivano enormemente sue sensibilità, ma anche perché fu solo attraverso sua scoperta del Marxismo –scoperta filtrata attraverso la lingua e le esperienze italiane—che lui poté spiegare a se stesso il perché lui, come suo padre, si erano sentiti attratti dalle idee che provenivano da ambienti social democratici. Rimane solo un brevissimo punto. Fossi membro del giurì che decise di assegnare a me il Premio Galileo Galilei per la storia economica, avrei espresso serie riserve e dubbi sulla decisione finale. Perché a prescindere della qualità delle mie ricerche, fatto è che non mi sono mai considerato come storico economico. Ho spesso studiato fenomeni dell’economia tardo medievale e moderna, cercando sempre, però, di inquadrarli all’interno di fenomeni politici e culturali. In fin dei conti –e questo sarebbe un debolissimo tentativo di offrire una copertura agli amici membri del giurì—non credo che mi sono tanto discostato dalla posizione di Carlo Cipolla, riconosciuto storico dell’economia tra i massimi del secolo scorso—il quale scrisse più di trent’anni fa che: “…devo…sottolineare che la storia economica è essa stessa un frammento, certamente un frammento arbitrario. Fu adottata per una convenienza di analisi e di preparazione accademica. Ma la vita non ha tale compartimento; c’è solo la storia. Quello che noi chiamiamo storia economica e sociale può essere intesa solo se prendiamo pienamente conto di altri frammenti arbitrari, come la storia delle idee, la psicologia collettiva, l’ educazione, la scienza, la tecnologia, la medicina, la guerra. E’ molto di moda oggi parlare di capital output rations, di funzioni di produzioni, di marginal returns, ed altre simili cose. Quanto interessante potrebbe essere discutere di simili strumenti e misurare qualcuna di queste variabili, il vero problema è di capire il corso della storia e questo è un problema molto più importante ed elusivo. Il problema reale è capire la realtà umana che si trova dietro queste variabili e le rende quelle che sono.” Non credo sia necessario essere d’accordo con Cipolla su tutte le idee implicite nella sua formulazione precedente. Ma su una, tutt’altro che secondaria, io mi troverei chiaramente dalla sua parte. Che storia economica al di fuori di contesti politici e culturali cessa di essere storia e diventa qualcosa d’altro. Ma questo sarebbe un altro tema da sviluppare in un’altra occasione. Vi ringrazio per l’onore e la per vostra attenzione.