Pisa, ottobre 2012
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
TRA NATURA E SCRITTURA: LE SCELTE DI GALILEO
Scelgo un tema che conviene all’insegna sotto cui si pone il Premio: Galileo Galilei. Confesso che la scelta è stata spontanea poiché il caso ha voluto che nelle settimane in cui mi è stata comunicata la notizia, usciva a stampa l’edizione critica da me curata della Lettera a Cristina del grande scienziato pisano. Mi sembra allora buona cosa presentarmi qui con questa materia, ancora calda e come appena tolta dal forno. Rivolgo il mio ringraziamento, semplice quanto caloroso, alla Giuria che ha operato la scelta che mi riguarda e all’Istituzione dei Rotary Club Italiani che l’ha fatta propria; è onore che ritengo destinato anche alla Svizzera italiana da cui vengo. Non posso tacere il pensiero che 20 anni fa, in occasione analoga per la stessa disciplina, era qui festeggiato il mio maestro Giovanni Pozzi.
Prendo avvio con una citazione: Grandi invero sono le cose che in questo breve trattato io propongo alla visione e alla contemplazione degli studiosi della natura. Grandi, dico, sia per l’eccellenza della materia per se stessa, sia per la novità loro non mai udita in tutti i tempi trascorsi, sia anche per lo strumento, in virtù del quale quelle cose medesime si sono rese manifeste al senso nostro.
Così inizia il Sidereus Nuncius di Galileo, 1610, scritto in latino, la lingua universale dei dotti del tempo; è il primo grande frutto della scoperta del cannocchiale. Il dato è ben messo in evidenza nel frontespizio del libro, un titolo di oltre novanta parole, una ventina di righe, un vero manifesto dell’Annunzio celeste, pur costretto dentro la misura di un libricino in ottavo. Al centro, la parola CANNOCCHIALE. Il telescopio si presenta in tutta la cultura barocca come strumento (e anche come metafora) di singolare seduzione intellettuale per la sua proprietà di ridurre le distanze ottiche, moltiplicando la curiosità dell’uomo e favorendone le scoperte che essa sollecita.
Da Padova a Firenze
Il Sidereu nuncius è dedicato al Graduca di Toscana, Cosimo II, figlio della Granduchessa Madre, Cristina di Lorena. La mossa strategica di Galileo ottiene un doppio vantaggio – sul piano biografico, il passaggio da Padova a Firenze: Galileo diventa “Primario Matematico” dello Studio di Pisa, nonché “Primario Matematico et Filosofo” della persona del Granduca di Toscana, con uno stipendio di mille scudi all’anno – sul piano scientifico: la promozione delle proprie convinzioni veicolate da un’opera che si pone sotto la protezione di un’autorità politica importante. Il Sidereus, in particolare la scoperta dei satelliti di Giove, presentava forti elementi a favore della dottrina copernicana. Ciò contribuì a renderlo oggetto di valutazioni non solo astronomiche in senso stretto (per le “novità” ivi annunciate), ma anche in larga misura cosmologiche, mettendo in crisi il quadro della dottrina astronomica allora egemone.
A Roma
In ogni campo, le novità non si affermano da sole, vanno sostenute e pubblicizzate. Per questa ragione Galileo lasciò Firenze nel marzo del 1611 alla volta di Roma per svolgervi un’intensa attività di promozione delle proprie scoperte negli ambienti culturali romani: iniziativa tanto più opportuna in un mondo scientifico, filosofico, teologico in movimento e anzi in tensione. Nel viaggio a Roma, Galileo mirava a legittimare l’effettività delle scoperte telescopiche nel loro complesso («tutte le novità delle mie osservazioni»), e ad accreditare le «gran consequenze» che esse importavano, ossia la capacità della scienza astronomica di contemplare la verità dei fenomeni. Non entro nei particolari degli incontri e colloqui con il gesuita e matematico padre Clavio e due suoi allievi, e così delle discussioni intorno alle scoperte telescopiche con diversi esponenti della scena culturale romana, soprattutto dell’Accademia dei Lincei: il principe Federico Cesi, fondatore, il naturalista tedesco Johannes Schreck (Terrentius), il professore della Sapienza, Giulio Cesare Lagalla, il matematico greco Giovanni Demisiani, Francesco Pifferi da Siena, il filosofo telesiano Antonio Persio. È un mondo di chierici e di laici dove le competenze in scienza naturale e in scienza filosofica e teologica (effettive o presunte) spesso convivono nella stessa persona. Si attiva un personaggio influente della Chiesa di Roma: il Card. Bellarmino nell’aprile del 1611 richiedeva ai professori di matematica del Collegio Romano un parere intorno questioni sollevate dal Sidereus. Quattro esponenti della “accademia matematica” del Collegio Romano, Cristoforo Clavio, il Grienberger, Odo van Maelcote e Paolo Lembo, confermarono integralmente le conclusioni galileiane relative alla figura di Saturno, alle fasi di Venere e ai satelliti di Giove; più cauti erano sulla composizione della Via Lattea e delle nebulose. Clavio rifiutava l’opinione galileiana di un suolo lunare scabro ed accidentato. Accanto alle prese di posizione pro-galileiane, non mancarono, tuttavia, e fin da quella primavera del 1611, anche voci dissonanti all’interno degli ambienti scientifici della Compagnia di Gesù. Queste resistenze finirono con l’innescare inquietudini premonitrici di future, assai più profonde divergenze.
Firenze
La storia, come insegna Caro Dionisotti (il grande italianista autore di Geografia e storia della letteratura italiana), va fatta per decenni, e anche anni e mesi, e per luoghi. A Firenze, il 14 dicembre 1613 Benedetto Castelli (matematico, abate benedettino, allievo di Galileo) informa il maestro di un colloquio avvenuto alla tavola del granduca. […] Madama cominciò, dopo alcune interrogazioni dell’esser mio, a argomentarmi contro con la Sacra Scrittura: e così con questa occasione io, dopo haver fatte le debite proteste, cominciai a far da teologo con tanta riputazione e maestà, che V. S. haverebbe hauto gusto singolare di sentire. […]
In risposta, Galileo affida le riflessioni in merito al rapporto tra conoscenza scientifica e rivelazione scritturale a una lettera indirizzata allo stesso Castelli, una settimana dopo, il 21 dicembre. Ne do una parafrasi schematica ridotta alle articolazioni principali dell’argomentazione.
La lettera di Galileo al Castelli Nella Parte I, sulla Bibbia e sulle conclusioni naturali, Galileo formula queste osservazioni:
– la Scrittura non può mai mentire o errare
– alla Scrittura va riservato l’ultimo posto nelle dispute naturali perché in molti passi ha bisogno di spiegazioni diverse dalla lettera
– nella necessità di farsi capire dai rozzi, la Scrittura dà a Dio attributi diversi dalla sua essenza. Così non usa rigore scientifico parlando incidentalmente di terra e sole
– dato che due verità non possono contraddirsi, gli espositori devono trovare il vero senso dei luoghi in accordo con conclusioni naturali
– non si può porre limite agli ingegni umani
– l’autorità della Scrittura ha voluto persuadere solo in cose necessarie alla salute dell’anima
– bagliano coloro che nelle dispute naturali utilizzano luoghi della Scrittura, spesso male intesi.
Nella Parte II, Galileo affronta il passo biblico di Giosuè (Dio fermò il sole), che secondo l’esegesi tradizionale cozza contro il sistema copernicano; secondo Galileo mostra invece contraddizione col sistema Aristotelico e Tolemaico, accordandosi col Copernicano.
La lettera al Castelli circolò e si diffuse, suscitando interesse non solo tra gli amici e sostenitori dello scienziato pisano, ma anche tra i suoi rivali.
Ad un anno esatto dalla data di stesura della importante epistola al Castelli vengono formulate pubblicamente due denunce nei confronti di Galileo. Dal pulpito di S. Maria Novella un frate domenicano, Tommaso Caccini, proferì parole di fuoco contro i “galileisti” accusandoli di essere nemici della religione; due settimane dopo replicò l’accusa direttamente davanti al S. Uffizio. Un altro padre, Niccolò Lorini, nel febbraio del 1615 denunciò a sua volta Galileo con una lettera alla Congregazione del S. Uffizio. Al centro delle e accuse: le asserite da Galileo mobilità della terra e immobilità del sole, repugnanti alle divine scritture esposte da Santi Padri e conseguentemente contrarie alla fede.
La lettera a Cristina di Lorena La Lettera, posta al centro delle mie riflessioni, nasce in questo clima; essa mette a confronto il libro della natura e il libro sacro sul rapporto mobilità-immobilità, centralità-non centralità di terra e sole.
Nell’ascrizione comune a un solo Autore (garante di non contraddizione tra le due scritture), Galileo dimostra che non è pertinente leggere i caratteri della natura mediante il testo della Bibbia.
La destinataria della lettera (la Granduchessa Madre, allora cinquantenne era scelta con finissima strategia, in modo da porre gli argomenti ivi delineati, come per il Sidereus, sotto la diretta protezione della casa regnante di Toscana. In realtà i veri destinatari della lettera-trattato sono
– i teologi della Curia romana
– il Cardinale Bellarmino, teologo del papa Paolo V, membro del Sant’Uffizio e dell’Indice
– quei Gesuiti che dimostravano maggiore apertura verso le tesi galileiane.
Lo scienziato si avvaleva di una forma letteraria che, nel caso di una eventuale pubblicazione, lo potesse mettere al riparo da un serio rischio connesso alla normativa tridentina. La lettera era infatti un genere non sottoposto all’approvazione ecclesiastica, e così permetteva a Galileo di evitare sanzioni in cui sarebbe incorso pubblicando un’opera sull’interpretazione della Scrittura senza preventiva approvazione ecclesiastica.
La Lettera a Cristina (una sessantina di pagine a stampa) si articola in quattro parti, non marcate nel testo ma individuabili nell’articolazione del discorso. Mi attengo all’essenziale dell’argomentazione (rinvio ai paragrafi dell’edizione critica)
I parte
Le scoperte dei satelliti di Giove e isuccessi di Galileo con Sidereus Nuncius provocano e invidia e critiche degli avversari; essi sostengono che le proposte dello scienziato sono eretiche e perciò dannande. Galileo prende posizione di fronte alle falsità che dichiarano, con simulato zelo di religione, eretica la sua dottrina utilizzando la Scrittura a loro vantaggio, contro l’intenzione dei Padri (§ 4.1)
II parte
Galileo passa in rassegna le obiezioni degli avversari e le confuta (§§ 6-23, 2). Queste le argomentazioni in contrario.
1. La Scrittura non mente quando se ne conosce il vero senso, spesso diverso dal significato delle parole (§ 7.1)
2. Nelle dispute di problemi naturali non si deve cominciare dall’autorità di luoghi della Scrittura, ma dalle „sensate eserienze e dalle dimostrazioni necessarie“ (§ 9.1)
Queste due argomentazioni rispondono a un’osservazione degli avversari data in forma di sillogismo (§ 6.1)
a. in molti passi la Bibbia dice che il sole si muove e la terra sta ferma (premessa maggiore)
b. la Scrittura non può mai mentire o errare (premessa minore)
c. quindi (conclusione): erronea e dannanda è la sentenza che il sole è immobile e la terra si muove
3. Galileo non esclude che si debba tenere la Scrittura in somma considerazione; ma osserva che la Scrittura ha mirato a persuadere gli uomini in quegli articoli che non potevano essere fatti credibili con altra scienza se non per bocca dello Spirito Santo (§ 10.1)
4. Ne segue che Spirito Santo non è entrato nel merito del moto o della quiete di terra e sole; la sua intenzione è di insegnare „come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo“ (§ 11.1)
5. Essendo che due verità non possono contrariarsi, è compito dei saggi espositori penetrar i sensi dei luoghi sacri che concordano con conclusioni naturali fatte certe da senso e dimostrazioni necessarie (§ 13.1)
III parte
Sulla stabilità del sole e mobilità della terra (§§ 23, 4-33, 3), risulta manifesta la necessità della Sacra Scrittura di attribuire moto al sole e stabilità alla terra: e ciò per non confonder la capacità del volgo, e renderlo così diposto a prestar fede agli articoli principali (§ 24.1). Lo stesso Copernico, conoscendo la forza nella fantasia umana di una inveterata consuetudine, dopo aver mostrato che i movimenti che ci appaiono del sole sono in realtà della terra, parla del ‘nascere e tramontare’ del sole e delle stelle (§ 25.1)
IV parte
Quanto al passo di Giosuè, Galileo sostiene che con la costituzione copernicana si ha il senso letterale apertissimo e facilissimo anche del particolare che „il sole si fermò nel mezo del cielo“ (§§ 34, 1- fine).
L’edizione latina del 1636
La Lettera a Cristina, scritta nel 1615, esce a oltre vent’anni dalla sua stesura, nel 1636. Per ragioni inerenti al testo e per considerazioni strettamente filologiche, giudico che in quel lungo ventennio Galileo non sia più tornato sul documento.
Segnali evidenti di una mancata revisione e di un mancato aggiornamento si colgono in più luoghi come evidenti asincronie, dove Galileo indica il Sidereus Nuncius (ricordiamo, del 1610) e le scoperte che vi descrive, come recenti. Basti un esempio, ma ne posso dare altri. Nell’incipit della Lettera, “Io scopersi alcuni [variante: pochi] anni addietro […]” (1.1), con riferimento al Sidereus Nuncius (1610), è notazione non pertinente nel 1636 a oltre un quarto di secolo da quella data.
Alla stessa conclusione giungo attraverso l’esame della tradizione manoscritta della Lettera. Gli oltre sessanta testimoni censiti si lasciano, non senza difficoltà, organizzare in uno stemma codicum che mostra quanto sia difficile attribuire all’autore le diverse centinaia di varianti affiorate dalla tradizione: esse sono da considerare lezioni di copisti-lettori i quali, desiderosi di avere a disposizione (trascrivendo velocemente, come si evince in molti casi dalle grafie) un testo cui essi riconoscono grande valore ideologico, non si preoccupano di lasciar entrare, nella copia che stanno approntando, lezioni altre (e non d’autore) che non alterano sensibilmente né il senso né la scorrevolezza del dettato.
Alla luce dei dati e delle osservazioni qui esposti si può a giusta ragione sostenere che dopo la sua stesura, nel 1615, Galileo abbia tenuto la Lettera a Cristina nel cassetto, certamente in ossequio al monito del ’16 (divieto di intervenire oralmente e per iscritto su problemi inerenti alla Sacra Scrittura), e anche per ragioni di prudenza. D’altra parte (e soprattutto) non si devono dimenticare i grossi impegni affrontati da Galileo dopo il ’16, motivati sia dalle difficoltà cui la censura ecclesiastica l’ha sottoposto, sia dalla necessità di neutralizzarle, sia dall’impegno di nuovi studi sui rapporti tra scienza e natura, meno insidiosi di quelli tra scienza e Scrittura (e più fruttuosi sul piano strettamente scientifico). Nascevano, subito a ridosso della Lettera, il Flusso reflusso del mare e più in là, molto più impegnativi, il Dialogo sopra le comete (1619), il Saggiatore (1623), il Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632).
La Lettera a Cristina esce a stampa nel 1636 a Strassbourg, presso i grandi stampatori Elzevier, per l’interessamento di due amici di Galileo: Elia Diodati (un riformato livornese emigrato al nord) e Matthias Bernegger (traduttore in latino, l’anno precedente, del Dialogo sopra i massimi sistemi); e si presenta nella sua veste originale in italiano e nella traduzione latina di Diodati.
Vediamo di storicizzare la situazione a quest’altezza cronologica, a 20 anni dalla sua stesura.
Madama Cristina di Lorena, la destinataria della Lettera-trattato, ultrasettantenne (muore nel corso dell’anno, in dicembre) non aveva più l’autorevolezza politica di “Granduchessa di Toscana” (“Magna-Dux Hetruriae”, come recita il frontespizio della princeps) essendo stata allontanata dalla corte da Ferdinando II; ed era ormai dimenticata la funzione culturale da lei esercitata, legata alle iniziative di incontri alla Corte intorno a problemi di scienza e religione. All’altezza della stampa, Cristina restava ormai solo un nome di riferimento lontano, oggettivamente non più eloquente per i più; veniva dunque a mancare la ragione della dedica, escogitata da Galileo vent’anni prima, nel manoscritto del 1615.
Galileo, l’autore, ha 72 anni: è un uomo piegato dall’età avanzatissima; è uno scienziato che ha subìto il processo per i contenuti del Dialogo sopra i massimi sistemi ma anche per i testi del 1615-1616 (Lettere a Castelli e a Cristina); è un filosofo che sta pagando la condanna del S. Uffizio.
La pubblicazione della Lettera vuole essere un omaggio a Galileo e insieme una difesa da parte degli amici oltramontani delle posizioni da lui sostenute in favore della libertà della ricerca, della separazione e distinzione tra Scrittura e scienza, del diverso modo di accostare, di leggere e di interpretare il libro della natura e quello della Bibbia La Lettera a Cristina ha avuto più edizioni in ambiente nordalpino, dove prevale l’attenzione del mondo riformato per i contenuti critici sul rapporto tra scienza e Scrittura, in favore della libertas philosophandi, sicuramente in chiave antiromana. Sul versante italiano, bisognerà attendere il 1710 (ossia oltre settant’anni dalla princeps) per trovare una riproposta della Lettera: ma affidata a una stampa clandestina napoletana del Dialogo per aggirare la censura. Solo a 175 anni dalla princeps, quasi a 200 dalla sua stesura, la Lettera a Cristina sarà edita in un volume delle Opere di Galileo nella Collana della Società Tipografica dei Classici Italiani di Milano, 1811.
Non è un caso se nel giro di tre anni (tra 2010 e 2012) sono uscite ben tre edizioni commentate della Lettera, e ora un’edizione critica.
Non uno, più cannocchiali offrono oggi all’uomo la tentazione, la curiosità e la tecnica di entrare in pieghe ancora più segrete e profonde del micro e del macrocosmo; il dialogo tra natura e Sacra scrittura si presenta continuamente, in termini sempre nuovi. Gli scienziati e gli uomini di Chiesa lo sanno meglio di me; a noi, filologi e studiosi di letteratura, resta lo spazio, non grande ma pur importante, di cercare di capire quello che i testi hanno detto e dicono con gli strumenti non arrugginiti, se usati, della filologia e della storia.