Pisa, ottobre 2013
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Confesso che sono rimasto molto commosso quando mi è stata comunicata la notizia dell’assegnazione del premio Galileo Galilei. Avevo ricevuto un paio di onorificenze in passato, che naturalmente mi avevano fatto molto piacere, ma erano distinzioni che premiavano piuttosto le mie funzioni e non, come in questo caso, una cosa che mi sta molto più a cuore, e cioè il mio lavoro scientifico. Desidero quindi esprimere la mia più profonda riconoscenza a tutti coloro che hanno reso possibile questo evento, e in particolare ai membri della giuria che mi hanno scelto tra, immagino, molti candidati altrettanto meritevoli di questo riconoscimento.
In queste occasioni, nel discorso di ringraziamento il premiato normalmente fa una specie di bilancio della sua attività come studioso, un bilancio che comprende anche gli eventuali piani per il fututro. Ho sempre avuto un po’ di reticenza a parlare di me stesso, per natura (sono fatto così), e anche perché quello che ho fatto e faccio è di dominio pubblico, accessibile a tutti, e perciò mi sembra inutile parlarne. Mi rendo però conto di avere un grande debito di riconoscenza verso molte persone che nel corso degli anni mi hanno aiutato in maniere diverse: aprendomi nuove prospettive, incoraggiandomi a lavorare su certi temi, concedendomi la loro fiducia e, certo, insegnandomi molte cose che non sapevo. Un bilancio di quello che ho fatto comprenderà dunque anche tutti quelli che mi hanno aiutato a raggiungere questi risultati. E pensando a loro mi riuscirà più facile parlare qui di me stesso.
Dopo la maturità mi sono iscritto all’Università di Padova. Come succede quasi a tutti in questi casi, non sapevo veramente che cosa mi aspettava: la mia scelta era stata dettata da una certa insofferenza anticonformista – in Ticino chi studiava lettere normalmente sceglieva Friburgo o Zurigo oppure, se decideva di passare il confine, Pavia – io, volendo fare diverso, avevo invece deciso per Padova, attratto un po’ dalla fama (padovani gran dottori) e dal fatto che Padova mi avvicinava un po’ a quell’unica parte dell’Italia che allora conoscevo e a cui ero legato affettivamente, il Friuli, la terra di mia mamma. Questa scelta si è rivelata determinante per tutta la mia vita, non solo per i miei studi.
La mia prima lezione universitaria è stata una lezione di linguistica ladina con Giovan Battista Pellegrini – in realtà era l’unico corso che iniziava nella prima settimana, e io ero molto ansioso di cominciare, qualsiasi cosa fosse; inoltre sapevo che il ladino aveva qualcosa a che fare con il friulano. Il professor Pellegrini mi ha subito chiesto che cosa avessi studiato in preparazione del suo corso specialistico. Quando gli ho confessato che quella era la mia prima lezione all’università, con la sua maniera un po’ brusca mi ha detto chiaro e tondo che non avevo le basi sufficienti e che ritornassi dopo essermi fatto le ossa con i corsi di glottologia o di dialettologia o di filologia romanza. Avevo trovato la lezione molto interessante, data però la severità dell’ammonimento, non ho osato continuare il corso.
Ma la sfida era lanciata: quell’anno ho seguito i corsi di glottologia e di dialettologia per tornare alla carica l’anno seguente di nuovo con linguistica ladina. Ero entrato alla facoltà di lettere con l’intenzione di studiare letteratura e nel giro di pochi giorni avevo praticamente già deciso che sarei diventato un linguista. Il corso di dialettologia era tenuto da Manlio Cortelazzo, che oltre a innestare in noi l’amore per lo studio dei dialetti, ci aveva anche provvisti di utili consigli per i nostri studi universitari di indirizzo linguistico: quello di studiare il rumeno, una lingua romanza tanto diversa dalle altre, e l’ungherese, per avere un’idea di una lingua non indoeuropea; inoltre quello di scegliere, tra i vari corsi di filologia romanza, quello tenuto dal prof. Renzi, che dedicava molto più spazio alle questioni di linguistica.
Così il secondo anno ho cominciato il rumeno e seguito i corsi di linguistica ladina e filologia romanza. L’ungherese era progettato per l’anno dopo. Ma nel frattempo si sarebbe aggiunta una ragione ben più cogente per studiarlo: al corso di linguistica ladina era comparsa a un certo punto una borsista ungherese, che entro breve tempo sarebbe diventata mia moglie e che, finiti gli studi universitari, mi avrebbe portato a stabilirmi, definitivamente, in Ungheria.
Ma mettiamo da parte le ragioni del cuore e torniamo a quelle degli studi: la parte linguistica del corso di Lorenzo Renzi è stata per me una rivelazione folgorante. Avevo imparato varie cose di linguistica generale, più che a lezione, leggendo in maniera un po’ disordinata manuali e opere dello strutturalismo europeo, e avevo acquisito una buona dose di fatti di linguistica storica romanza; ma i principi generali restavano piuttosto astratti, e i fatti restavano fatti più o meno isolati. In quelle settimane dell’autunno del 1975, attraverso le chiare spiegazioni del professor Renzi, grazie alla sua capacità di presentare anche le teorie più complesse in una forma limpida ed essenziale, e attraverso le sue applicazione dei principi teorici della linguistica moderna ai fatti della linguistica storica, ho cominciato a intravvedere la possibilità di mettere in ordine e spiegare quello che apparentemente era un insieme di fatti sconnessi, ma sopprattutto mi sono reso conto per la prima volta di come l’utilizzazione di una teoria non era solo un requisito indispensabile per la spiegazione dei fatti linguistici, ma anche un potente mezzo per scoprire fatti nuovi, rimasti fino ad allora inosservati. Alla fine del corso ho chiesto a Lorenzo Renzi di essere il relatore della mia tesi: è stato l’inizio di un lavoro in comune che dura ininterrottamente da quasi quarant’anni.
L’anno seguente, su stimolo di Lorenzo Renzi, è stato l’anno della grammatica generativa: fonologia generativa con John Trumper, ma soprattutto il corso, per me fondamentale, di sintassi di Guglielmo Cinque, seguito l’anno dopo da un seminario per gli happy few in cui leggevamo insieme, professori e studenti, l’ultimo articolo di Chomsky, con anche un’escursione a Pisa per seguire un seminario di Richard Kayne alla Scuola Normale. È cominciato così un lungo periodo di intenso contatto con la scuola chomskiana di cui ho seguito l’evoluzione per una ventina d’anni. Anche se non ho mai partecipato al dibattito teorico che si andava sviluppando, la teoria di Chomsky ha rappresentato il punto di riferimento per il mio lavoro di quegli anni; e anche dopo l’avvento del minimalismo, quando ho cominciato a non seguire più il dibattito in corso e le mie idee sulla sintassi e altri aspetti del linguaggio si sono leggermente allontanate dalle posizioni „ortodosse”, le idee base della teoria chomskiana sul linguaggio continuano a essere il fondamento del mio lavoro.
Avevo trovato a Padova, tra l’istituto di glottologia e quello di filologia neolatina, un ambiente aperto e stimolante: la linguistica storica tradizionale (per la quale voglio ricordare ancora almeno il corso di francese antico di Gianfranco Folena e quello di italiano antico di Pier Vincenzo Mengaldo) viveva accanto alle correnti più avanzate della linguistica moderna, e le due linee di studio si stimolavano in molti casi reciprocamente. Anche la mia tesi di laurea, dedicata ad aspetti sincronici e soprattutto diacronici delle costruzioni romanze con ausiliari perfettivi, riflette bene questo ambiente e quanto ne avevo assorbito: era un tentativo di integrare, certamente in maniera ancora un po’ eclettica, il sapere tradizionale della linguistica storica con gli approcci della grammatica generativa e della tipologia linguistica. Direi anzi che questa è rimasta una costante anche in quello che ho fatto in seguito. E nonostante fossi portato per la teoria, non mi sono mai occupato di teorizzazione pura, ma sono sempre rimasto un linguista „empirico”, legato ai fatti di alcune lingue che conosco meglio, perché ho sempre sentito istintivamente che posso occuparmi di un problema linguistico solo se conosco abbastanza a fondo la lingua in cui si manifesta, in maniera da poter inserire il fenomeno in questione nel funzionamento generale del sistema.
Qualche mese prima della laurea venivo anche cooptato da Lorenzo Renzi nel team della Grande Grammatica Italiana di Consultazione, progetto che era allora agli inizi, con due capitoli, di cui uno, quello sulla frase semplice, doveva essere il primo dell’opera, uno dei suoi assi portanti. Ero insomma stato buttato in acqua, e dovevo nuotare. È stato questo il primo caso in cui mi si faceva fiducia sulla parola, affidandomi un compito al di sopra delle mie capacità del momento con la convinzione che mi sarei tirato d’impaccio. In questo e in qualche altro caso credo di avercela fatta, e sono molto grato a chi mi ha fatto fiducia perché questo è stato il miglior stimolo per imparare qualcosa di nuovo, anche di molto importante per il mio sviluppo scientifico.
Un secondo caso, anche più rischioso del primo, è stato l’invito di Zoltán Rózsa, che stava organizzando l’insegnamento della lingua e letteratura portoghese a Budapest, di impararmi in fretta il portoghese perché aveva bisogno di qualcuno che insegnasse linguistica portoghese. L’ho imparato e poi insegnato per 17 anni – sicuramente all’inizio non sapevo molto di più dei miei studenti, ma la conoscenza del portoghese ha ampliato molto le mie conoscenze di linguistica romanza e ho anche raggiunto qualche risultato interessante nel campo della sintassi storica di quella lingua, in particolare riguardo al problema dei clitici, molto studiato da portoghesi e brasiliani, ma fino ad allora in genere con un apparato concettuale inadeguato.
Un altro è stato l’invito di Paola Benincà a sostituirla nei corsi di linguistica ladina all’Università di Trento (corsi che continuo a tenere da più di vent’anni): si trattava di un dominio dialettologico molto specialistico, di cui sapevo poco, ma che ancora una volta mi ha insegnato molto.
A Budapest intanto avevo ritrovato i due filoni della mia prima formazione: quello tradizionale nella persona di József Herman, uno dei maggiori specialisti di latino volgare, che mi ha introdotto in questo campo di studi, oltre ad aiutarmi molto nella mia carriera accademica; e quello della grammatica generativa nel vivace gruppo dello studio 13, l’ampio locale dell’Istituto di Linguistica dell’Accademia Ungherese delle Scienze in cui lavorava e si riuniva un gruppo di giovani linguisti ungheresi diretti da Ferenc Kiefer. In quest’ultimo caso si tratta di un aspetto nascosto della mia formazione, perché non mi sono mai occupato attivamente di linguistica ungherese, ma il contatto stretto e la lettura assidua di quello che si faceva nella cerchia teoricamente più avanzata e agguerrita della linguistica ungherese (anche qui, come a Padova, una scuola di livello straordinario) ha costituito per anni una fonte di ispirazione per il mio lavoro sulle lingue romanze e sul latino. Così deve molto alle mie conoscenze degli studi sulla sintassi dell’ungherese il mio lavoro sull’ordine delle parole del latino classico, lavoro che, parallelamente a quello di altri studiosi, ha recentemente smosso un po’ le acque in un dominio da cui gli approcci formali si erano perlopiù tenuti prudentemente lontani.
Una buona parte della mia carriera di studioso è legata alle due grandi imprese collettive ideate dal mio maestro Lorenzo Renzi, la Grande Grammatica Italiana di Consultazione e la Grammatica dell’italiano antico, imprese che mi hanno tenuto occupato, più o meno intensamente, per circa trent’anni. Alla prima opera sono stato associato prima come autore, poi, a partire dal secondo dei tre volumi, anche come curatore. La Grammatica aveva come scopo quello di fornire una descrizione della sintassi dell’italiano che fosse la più completa possibile e facesse tesoro dei risultati della linguistica moderna, che aveva cominciato in quegli anni a essere applicata più intensivamente ai fatti dell’italiano. Ma la Grammatica è molto di più di questo, perché ha in realtà dovuto supplire in molti casi alla totale mancanza di descrizioni anche in termini tradizionali. Gli autori non hanno solo dovuto riassumere i risultati della ricerca recente, ma in moltissimi casi hanno dovuto fare loro stessi questa ricerca, per cui la Grammatica non è solo un esempio di descrizione grammaticale che segue i metodi della linguistica moderna (e che è servito da modello per imprese simili in altre lingue romanze, come lo spagnolo, il catalano, il rumeno e ora anche il francese), ma fornisce anche in molti casi la prima descrizione di fenomeni fino ad allora non descritti. La Grammatica è stata qualche volta definita un’opera di parte, cioè come la grammatica della scuola generativa. Naturalmente ogni ricerca scientifica si deve basare su delle ipotesi che guidino il ricercatore nella scelta e scoperta dei fatti, ed è vero che una parte delle ricerche su cui si basa la Grammatica (ma assolutamente non tutte) sono state guidate dalle ipotesi generative, ma lo scopo di Lorenzo Renzi e poi anche mio è stato quello di offrire una presentazione descrittiva (non tecnica, senza ipotesi formali) di fatti e generalizzazioni interessanti attraverso cui lo studioso può conoscere il funzionamento della sintassi italiana, porsi delle domande e continuare la ricerca dal punto in cui noi l’abbiamo lasciata. Credo che dopo alcuni sospetti iniziali la Grande Grammatica svolga oggi questa funzione nella ricerca linguistica sull’italiano. E a 25 anni dalla pubblicazione del primo volume uno dei progetti che tengo in caldo è quello di una revisione/riscrittura dell’intera opera alla luce della ricerca svolta in questi decenni, in parte anche stimolata dalla Grammatica stessa.
Nel frattempo, con Laura Vanelli abbiamo anche tentato di offrire un’opera nello stesso spirito dedicata soprattutto agli insegnanti, quella che noi chiamiamo confidenzialmente „piccola grammatica”, con cui vorremmo contribuire alla modernizzazione dell’insegnamento grammaticale nella scuola, ancora legato sotto molti aspetti a schemi scientificamente superati.
L’altro grande progetto, la Grammatica dell’italiano antico, è una descrizione sincronica della lingua scritta e parlata a Firenze nel Duecento e nei primi anni del Trecento, cioè della prima fase conosciuta di quella che doveva diventare la lingua italiana moderna. Anche questo progetto è nato sulla scia del rinnovato interesse per i fatti della lingua medievale in cui il gruppo di Padova, e soprattutto Paola Benincà, ha avuto un grande ruolo. L’opera integra i risultati della linguistica storica tradizionale con quelli ottenuti sulla base delle moderne teorie linguistiche, e anche in questo caso gli autori hanno per la gran parte eseguito ricerche di prima mano, per cui molti fenomeni sono qui descritti per la prima volta.
La coordinazione di questa seconda impresa è stata certo più gravosa che non quella della prima: nel caso della Grammatica di Consultazione, c’era il controllo scientifico e, forse ancora più arduo, quello stilistico: non è sempre stato facile infatti convincere autori abituati a scrivere nello stile ragionativo degli articoli scientifici, ad adottare lo stile espositivo della grammatica descrittiva. Nella redazione della Grammatica dell’italiano antico, a questi compiti si è aggiunto quello di guidare autori che per la maggior parte non erano anche filologi, attraverso le varie trappole che il trattamento di un corpus di testi antichi comporta.
Personalmente, non mi sono ancora del tutto rimesso da questa lunga trance che è stata la preparazione della Grammatica dell’italiano antico, e nei tre anni passati dalla sua pubblicazione ho continuato a occuparmi di alcuni dei problemi lasciati aperti o sfuggiti alla nostra attenzione e a lavorare all’elaborazione teorica di alcuni dei fenomeni descritti. A più lungo termine, ora che abbiamo i due piloni, ora cioè che abbiamo la descrizione della fase più antica e di quella più recente dell’italiano, bisognerebbe cominciare a gettare il ponte, con descrizioni sincroniche delle fasi intermedie sufficientemente dettagliate e basate sugli stessi principi. Sulla base di queste descrizioni si potranno poi formulare ipotesi sui vari processi diacronici di cambiamento.
Se le ricerche per la Grammatica dell’italiano antico erano di ordine sincronico, il cambiamento linguistico era stato al centro del mio lavoro di abilitazione sulla formazione della struttura di frase nelle lingue romanze, in cui cercavo di seguire e spiegare questo processo diacronico a partire dal latino classico attraverso le testimonianze del latino volgare fino alle prime fasi delle lingue romanze. Più tardi, durante gli anni di elaborazione della Grammatica, colpito dalle differenze tra fase antica e moderna, ho provato a ricostruire l’evoluzione delle costruzioni passive e impersonali con si, un problema già di per sé intricato dal punto di vista descrittivo, per la grande varietà degli usi, e altrettanto dal punto di vista diacronico, ma che permette, credo, di farsi un’idea delle vie non sempre diritte attraverso cui opera la storia.
Che cosa ho imparato, in questi anni passati a occuparmi di fenomeni grammaticali, sulla natura del linguaggio umano? In questi ultimi anni si è aperto un dibattito sulla natura della facoltà linguistica insita nella nostra mente tra chi, come Chomsky, pensa che si tratti un sistema „perfetto”, e chi pensa invece che sia piuttosto un frutto più o meno casuale e più o meno imperfetto dell’evoluzione del cervello. Se è sicuramente prematuro voler dare ora una risposta a questa domanda, è invece certo che le lingue storiche in cui questa facoltà si realizza contengono sempre tracce più o meno ampie di imperfezione o addirittura di indecisione, e che queste sono perfettamente tollerate dai parlanti, che mostrano anzi una notevole elasticità a questo riguardo. Questo non ha mancato di imbarazzare i linguisti come me, che sentono l’esigenza, comune a ogni ricerca scientifica, di spiegare il funzionamento del mondo con principi formali astratti che vanno al di là dei fenomeni ingarbugliati e opachi che apparentemente lo compongono. E infatti è questo che ho cercato di fare in tutta la mia ricerca. Ma siccome le lingue storiche sono (anche) il prodotto della libera attività dei parlanti e delle loro scelte arbitrarie, il linguista deve accettare che ci sarà sempre una parte della realtà linguistica che resisterà al suo spirito di sistema – ma non per questo deve rinunciare ad applicare il suo spirito di sistema per mettere ordine e spiegare tutto quello che può essere spiegato.
Per finire, vorrei aggiungere che tutto quello che ho fatto in campo scientifico, l’ho sempre fatto con piacere e con entusiasmo. Da questo punto di vista devo considerarmi una di quelle persone fortunate che ha potuto occuparsi sempre delle cose che gli piacciono. Questo non sarebbe stato naturalmente possibile senza l’aiuto di quelle persone con cui ho condiviso la mia vita e che adesso qui pubblicamente ringrazio.