Pisa, ottobre 1964
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Fra le nazioni europee l’Italia gode il privilegio di essere, certamente, il paese più frazionato nei suoi dialetti*. Questo fenomeno ha senza dubbio delle origini etniche e storiche, ma non sarà indipendente da certe proprietà e qualità del popolo italiano. Questo frazionamento mi sembra l’espressione linguistica di un individualismo nazionale e di un alto sentimento per l’importanza culturale della piccola patria. L’intero significato di tale situazione si rileva subito, quando confrontiamo l’Italia con quel paese europeo che nei suoi immensi territori ci presenta proprio il caso contrario, cioè un minimo di divergenze dialettali: la Russia. Questa ricchezza dell’Italia dialettale fu già per Dante Alighieri cagione e motivo di esaminare e giudicare i vari dialetti sul loro valore poetico e artistico, in cerca di un volgare illustre, il quale per il sommo poeta doveva essere piuttosto un ideale che una realtà. E questa ricchezza dialettale esiste ancor oggi come fenomeno sociale e come fenomeno linguistico. Ogni viaggiatore che, cominciando col Piemonte, traversando poi la Liguria, la Toscana, il Lazio e le province napoletane, si reca in Sicilia, si può rendere conto di questa situazione. Non posso entrare qui in dettagli: mi contento di far risaltare alcuni importanti confini linguistici o piuttosto confini dialettali; perché in questi confini si rispecchiano certe antiche barriere storiche e etniche (1). Appena passato l’Appennino tra Bologna e Firenze, spariscono di colpo i cosiddetti fenomeni galloromanzi: la lüna e piöve vengono sostituiti con luna e piove. Il fögu e la röa dei Genovesi si trasformano in fuoco e ruota. Sparisce la nasalizzazione dei settentrionali: karhûn, savûn, visîn. Invece delle consonanti scempie appaiono le antiche geminate latine: terra invece di tera, gatta invece di gata, bella invece di bela. Spariscono anche, almeno in gran parte, quei riflessi sonori che ricordano le lingue romanze occidentali: l’amiga diventa amica, la cadena diventa catena, savüdo o savudo diventa saputo. Il bagio dei Genovesi si trasforma in bacio; la camisa dei Lombardi diventa camicia. Entrato poi in Toscana il viaggiatore s’imbatte in uno stranissimo fenomeno: la cosiddetta ‘gorgia’ toscana: la hòha hanta una hanzone, nelle hase si spegne ogni fòho; ma anche il dito diventa ditho, il sapone si trasforma in saphone. Illustri glottologi italiani e stranieri tendono a vedere in questa aspirazione l’effetto fonetico di un sostrato etrusco. Ciò che rende problematica tale interpretazione è il fatto che le più antiche manifestazioni del fenomeno non vanno oltre il sedicesimo secolo. Anche le circostanze nelle quali si presentano le aspirate in etrusco sono tutte diverse (2). Non abbiamo qui il tempo di occuparci del posto linguistico di Roma per la formazione della lingua nazionale. Si sa che la lingua della Roma di oggi non corrisponde più a quel dialetto romanesco del Cinquecento, cioè dialetto di tipo prevalentemente meridionale, ma oggi non è altro che (come si suol dire) lingua toscana in bocca romana. Non è nemmeno più il caso di accettare l’opinione di Giulio Bertoni, formulata nell’apogeo del fascismo e espressa nella fiera affermazione: ‘Mentre la pronunzia di Firenze ha per sé il passato, quella di Roma ha per sé l’avvenire’. Un altro importante confine dialettale è quello che divide l’Italia Centrale dai dialetti del Mezzogiorno. Questo confine, il quale non è un confine assoluto, segue, press’a poco, una linea che si può tirare da Ancona, passando per Rieti, ai monti Albani sotto Roma (3). Sorpassata questa linea, entriamo in una zona di una più antica romanità. Qui, di fronte all’italiano di tipo toscano si sono conservati vecchi latinismi: frate invece di fratello, soru invece di sorella, agno (aino, auno) invece di agnello, fago invece di faggio (arbor fageus). Qui si trovano gli ultimi residui della quarta declinazione latina: la manu col plurale le manu, la ficu – le ficu. Qui solo sopravvive il neutro latino nella classe dei sostantivi, che esprimono una sostanza (materia inanimata), riconoscibile nella forma speciale dell’articolo illud, il quale produce la gemmazione della consonante iniziale: lo llatte, lo mmèle, lo ssale, lo bbino (4). Qui l’aggettivo possessivo si aggiunge in forma enclitica al sostantivo, come in rumeno: fràtemo, sòruta, màmmata, mugghièrema. Qui la donna è chiamata fèmmina. Qui ritroviamo in piena vita antichissimi avverbi come cras (crai) e nudiustertius (nustierzu). Solo in questa zona si è mantenuta una arcaica forma del condizionale: avèra ‘io avrei’, cantèra ‘io canterei’, putèramu ‘noi potremmo’, forme che corrispondono al latino potùeram, pronunziato nel lat. volg. potuèra(m), forme che noi ritroviamo in spagnolo: pudiera, vendiera. Voglio accennare ancora ad un’altra particolarità dei dialetti meridionali, la quale colpisce chi è abituato alle forme di espressione della lingua nazionale ovvero del francese e dello spagnolo. E’ la totale assenza dell’avverbio che si forma con la desinenza -mente. Cito per la Calabria i seguenti esempi: sugnu veru malatu ‘sono veramente malato’, parlavamu segretu cioè ‘in modo segreto’, la figghiola era bella vestuta, la fimmina era brutta vestuta. Ma in queste terre meridionali non esistono neanche avverbi bene e male. Si dice p.e. facisti bònu ‘hai fatto bene’, un sacciu lèggiri bònu ‘non so leggere bene’, staju boniciellu ‘sto benino’, cántanu biellu ‘cantano bene’. Il saluto ‘benvenuto’ diventa bomminutu, ossia bono venuto. Invece di male si usa l’aggettivo malo, p.e. fui malu cunsigghiatu, tu canti malu. Il fenomeno merita un certo interesse, perché appartiene a quel gruppo di concordanze linguistiche che esistono tra i dialetti del Mezzogiorno d’Italia e la lingua rumena. Anche il rumeno non conosce per niente la formazione dell’avverbio con la desinenza -mente. Cito i seguenti esempi: am mîncat splendid ‘ho mangiato splendidamente’ am suferit teribil ‘ho sofferto terribilmente’, soruta cânta frumos ‘tua sorella canta bene’ (‘formoso’). Sembra che qui ci troviamo di fronte ad una fase della latinità anteriore allo sviluppo della forma avverbiale la quale vale per le altre lingue neo-latine. E continuando il nostro viaggio attraverso l’antico regno delle Due Sicilie, passata la provincia di Cosenza, all’altezza del golfo di Sant’Eufemia, ci troviamo di fronte a una nuova sorpresa. Da qui in giù la romanità dei dialetti si presenta più moderna e quasi ringiovanita. Sparisce l’antico condizionale: cantèra diventa cantaría, potèra si trasforma in putiría (putarría). Vuol dire che il condizionale prende quella forma neo-latina che fu usata nella lingua aulica dei poeti trecentisti: vorría, saría, credería (5). Sparisce cras e nudistertius: crai diventa dumani, nustierzu diventa avantèri. E mentre ci avviciniamo al Faro di Messina, sparisce anche marìtuma, fìgghiama e sòruta, e non si sente che mè maritu, mè figghia e tò sòru. E con tali forme si presentano in questa Calabria meridionale (generalmente d’accordo con la Sicilia) molti altri vocaboli e forme dialettali che sembrano allacciarsi piuttosto alla comune lingua nazionale o addirittura alle condizioni dell’Italia settentrionale. Per determinare questa strana posizione linguistica, cioè l’intimo contatto della Calabria meridionale (e della Sicilia) col linguaggio dei settentrionali, scelgo un interessante esempio nel campo delle relazioni sociali e familiari. Nei dialetti meridionali del continente, a nord del golfo di S. Eufemia, cioè a nord di Catanzaro, l’idea di sposarsi, seguendo la antica tradizione latina, viene rispettivamente espressa con due verbi distinti, cioè ‘ammogliarsi’ e ‘maritarsi’ secondo che si tratti di uomo o di donna, cioè me nsúru = latino me inuxoro (‘mi reco nella dipendenza della moglie’) detto dell’uomo, e mé maritu detto della donna, distinzione osservata anche in Lucania, Campania e nelle Puglie e fino in Toscana. Viceversa nella Calabria meridionale, come anche in Sicilia, questa distinzione non è per niente conosciuta: l’òmu si marita, la fimmina si marita. La perdita di questa antica distinzione ci porta ai paesi settentrionali, tanto in Francia, dove je me marie si dice indistintamente dell’uomo e della donna, quanto nell’alta Italia, dove la formula me marido (nelle Venezie) si usa ugualmente per l’uomo e per la donna; similmente in Piemonte e in Liguria: gen. maiáse ‘sposarsi’ (si dice tanto dell’uomo quanto della donna). D’altra parte in questa Calabria meridionale si presentano curiosissimi fenomeni. – E’ quasi sconosciuto l’uso del passato prossimo, il quale viene sostituito dal passato remoto, anche in riferimento all’ultimo passato: invece di dire: hai dormito bene? si domanda: dormisti bònu? Invece di dire come avete mangiato? si domanda: come mangiástivu?; capiscístivu?, ki ddicístivu? – Dopo certi verbi è escluso e non ammesso l’infinito. Non si dice ‘voglio mangiare’, ma si dice vògghiu mu (mi) mángiu, cioè ‘voglio che mangio’; ‘sono passato senza vederti’ diventa passai senza mu (mi,) ti viju; ‘andiamo a mangiare’ diventa jamu mu (mi) mangiamu. – Per chi conosce il greco moderno, questi due fenomeni si rivelano come manifesti riflessi di una lunga bilinguità greco-latina. E arriviamo in Sicilia. E qui nuove sorprese ci aspettano. Invece di trovare in questa più antica colonia latina un baluardo di un’antica latinità con fisionomia individuale al pari della Sardegna, notiamo dei dialetti che sembrano appartenere ad una più recente romanità, come stidda, viteddu, bedda matri, pronunzia che la Sicilia ha in comune con la Sardegna e con molti altri dialetti del Mezzogiorno. E la stessa impressione riporterà uno studioso il quale, lontano dalla Sicilia, in una biblioteca di Parigi o di Londra, per scopi folkloristici, consulti le raccolte di fiabe e di canti popolari delle varie province d’Italia. Confrontati col piemontese, col genovese, col lombardo, col napoletano, col barese e col calabrese della provincia di Cosenza, i testi siciliani si presentano allo studioso straniero molto più lisci, più accessibili e quasi senza difficoltà. E questa è veramente una situazione paradossale: il siciliano che è il dialetto più meridionale dell’Italia, si mostra essere il dialetto meno meridionale del Mezzogiorno. Le ragioni di questa situazione sono complesse, ma sono oggi essenzialmente conosciute. La posizione linguistica della Sicilia rassomiglia in molti aspetti alla posizione dell’Andalusia in Ispagna, terra per il 90% nuovamente romanizzata dopo la riconquista cristiana. Anche in Sicilia la liberazione dalla dominazione dei Saraceni e la loro scacciata ha portato ai noti fenomeni della riconquista: fenomeni sociali, fenomeni di ripopolazione, fenomeni linguistici. E questa situazione non è limitata alla Sicilia, ma comprende anche, come già è stato detto, la Calabria meridionale fino al golfo di Sant’Eufemia, dove non hanno dominato i Saraceni, ma dove fino al dodicesimo secolo si è mantenuto il greco come lingua del popolo (6). Quello che distingue la Calabria meridionale dalla situazione linguistica in Sicilia, è unicamente una altissima percentuale di grecismi, di fronte ai moltissimi arabismi della Sicilia (7). Per il resto si può dire che la Calabria meridionale, linguisticamente (almeno in molti aspetti), non è altro che un avamposto della Sicilia, un balcone della Sicilia. Il tempo non ci permette di entrare in particolarità. Basta ricordare, per la Sicilia, i numerosissimi gallicismi come avantèri ‘l’altroieri’, accattare ‘comprare’, giugnettu ‘luglio’, racina ‘uva’, vuccèri ‘macellaio’, custureri ‘sarto’. A questi elementi settentrionali si aggiungono gli influssi che per via di massima immigrazione sono emanati dall’Italia padana. – Ecco perché troviamo in Sicilia testa invece di capu, agúgghia invece di acu, òrbu nel senso di ‘cieco’, tròja invece di ‘scrofa’, tuma nel senso di ‘formaggio’ – tutti termini tipici dei dialetti dell’Italia padana (8). Da queste e altre correnti è nata in Sicilia una specie di koiné, una romanità più giovane, una romanità avanzata, ma anche meno indigena. Questa riforma linguistica che sta in diretta connessione colla conquista dei Normanni e col regno di Federico II, ha avuto per effetto di collegare la Sicilia più intimamente colla madre-patria Italia e colla lingua nazionale, in sorprendente e stranissimo contrasto colla Sardegna, rimasta in una posizione arcaica e linguisticamente isolata, nel complesso assai più vicina all’antica latinità. * L’Italia dialettale fu intitolato un articolo in cui G. I. Ascoli nell’VIII volume dell’Archivio glottologico italiano (1882, pp. 98-128) tracciò la prima classificazione scientifica dei dialetti italiani, messi a confronto col tipo toscano, articolo che due anni prima era già apparso in versione inglese nell’Encyclopaedia Britannica (IX edizione), New York vol. XIII, p. 491-498. – Italia dialettale fu anche il titolo di un interessante Manuale Hoepli (1916) in cui Giulio Bertoni si propose di fissare i principali caratteri dei dialetti italiani. Fu fondata più tardi (1924) da Clemente Merlo la rivista L’Italia Dialettale che fino ad oggi (attualmente diretta da Tristano Bolelli) rappresenta il maggiore centro scientifico per i lavori che riguardano la dialettologia italiana. Il discorso è stato pubblicato nella Rivista “Nuovi Argomenti”, 1967, pp. 22-27. (1) Cerco di dare in alcune rapidissime linee una veduta generale della situazione dialettale in Italia. In questo ‘panorama’, visto lo speciale interesse dell’autore, sarà data una maggiore importanza a certi fenomeni del Mezzogiorno, anche perché essi sono meno conosciuti. (2) Si veda ora la presentazione del problema nella mia Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (Torino ed. Einaudi, vol. I, 1966, §196). (3) Questa linea, in una parte importante del suo tracciato, corrisponde approssimativamente al confine storico che separava il ducato di Spoleto dalla Pentapolis e dal Patrimonium Petri. (4) Si confrontino d’altra parte nelle stesse zone dialettali i seguenti esempi coll’articolo maschile illu ( =illum): lo cane, lo patre, lo frate, lo lupo. – In altre zone si usa lo come articolo per il neutro, lu come articolo per il maschile: lo latte, lu cane. (5) Fa eccezione l’estrema parte della provincia di Reggio (zone dell’Aspromonte) dove la grecità si è mantenuta più a lungo e dove ancora oggi (intorno alla cittadina di Bova) il greco continua a sopravvivere in alcuni villaggi. In questa estrema Calabria il condizionale si esprime (come una volta in greco antico) per mezzo dell’imperfetto indicativo p. e, partiva ‘ io partirei’, lu facìa ‘lo farei’, si putiva iva ‘se potessi andrei’, si avìa fami lu mangiava ‘se avessi fame lo mangerei’. (6) Per la continuità (residui e influssi) della lingua greca nel Mezzogiorno d’Italia, v. G. ROHLFS, Scavi linguistici nella Magna Grecia (Roma 1933) e l’edizione anteriore Griechen und Romanen in Unteritalien (Ginevra 1924). (7) Si veda G. ROHLFS, Lexicon Graecanicum Ltaliae Inferioris, Etymologisches Wörterbuch der unteritalienischen Gräzität (Tübingen 1964). (8) Va qui ricordata anche la tipica opposizione che riguarda l’uso dei verbi ‘avere’ e ‘tenere’. Mentre invece del verbo ‘avere’ (per esprimere un possesso, una qualità o uno stato di cose) da Roma e dalle Marche in giù, d’accordo con la Sardegna (tengo duos frades) e con lo spagnolo (tengo dos hermanos) si usa il verbo tenere, p. e. (prov. Cosenza) illu tène dui frati, quant’anni tieni?, nella Calabria meridionale e per tutta la Sicilia non si conosce altro che il verbo avere della lingua nazionale e dei settentrionali: aju la frèvi ‘ho la febbre’, iddu avi dui frati, quant’anni ai?