Pisa, ottobre 1965
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Mi sarebbe impossibile non rispondere con un senso di piacere al riconoscimento delle mie fatiche che ha luogo oggi. Ma ogni atto di gentilezza da parte vostra non può mettere a tacere un dubbio che mi assilla. Molti della mia generazione sono stati esposti ad un’esperienza profondamente sconcertante: voglio dire una certa sproporzione fra l’ampiezza degli orizzonti rivelati da una vita agitata eppur stimolante e, d’altro canto, la mancanza di presentazioni adeguate delle vedute che abbiamo acquisite. Guerre, esili, migrazioni, mutamenti ripetuti del mezzo linguistico nel quale dovevo esprimere i risultati dei miei studi, hanno fatto sì che troppo spesso mi son dovuto accontentare di brevi saggi in luogo di compiuti volumi. E ora mi domando: una carriera così dispersa e frammentaria, merita essa davvero tali onori? Quasi tutti i miei studi hanno avuto, a mio avviso, la loro ragion d’essere in un comune convergere verso un punto centrale: un personale modo di vedere il Rinascimento e l’Umanesimo italiano. Questo mi fece sentire in opposizione a molti studiosi della mia generazione e di quella che mi precedette, al punto di sviluppare in me un atteggiamento in certo qual modo polemico, quasi fin dall’inizio dei miei studi. Ho ritenuto di poter avvalermi dell’occasione odierna per spendere qualche parola intorno alla natura di quella mia concezione, giacché potrò in tal modo sforzarmi di spiegare come mai lavori così incompleti e in gran parte limitati ad una località – Firenze – siano pur stati sempre dei tentativi di dar risposta a dei quesiti fondamentali. 1. – Mi si permetta di incominciare con alcuni ricordi giovanili. In uno dei primi seminari che seguii da studente all’Università di Lipsia sotto l’egida del mio indimenticabile maestro, Walter Goetz, noi giovani venimmo a discutere le teorie che prevalevano in quegli anni, secondo cui l’umanesimo transalpino, e particolarmente tedesco, era cresciuto su basi indigene tardo-medioevali, essenzialmente indipendenti da ogni influsso del Sud – perlomeno da ogni influsso che potesse considerarsi salubre per il Nord. A me fu assegnato il compito di formulare un’opinione sulla base di una lettura comparativa di un numero ragguardevole di fonti originali. Dopo un certo periodo di studio concentrato riuscii a presentare una presa di posizione che risultò, dopo un po’, convincente a quel gruppetto. Sostenni che tutte quelle teorie che andavano per la maggiore mi sembravano viziate da pregiudizi, e che i mutamenti di educazione e pensiero riscontrabili in Italia mi risultavano essere stati indispensabili per il cambiamento del clima intellettuale nel resto dell’Europa. Quel seminario risale al 1920, ed un caustico ascoltatore potrebbe dire che tutti i miei successivi studi non sono stati altro che uno sforzo continuo per provare che quella prima impressione era stata giusta. In mia difesa posso dire che, in un’epoca di tendenze accademiche spesso avverse, non è stato sempre agevole scoprire i fatti su cui appoggiarmi per sostenere quella posizione. Quando, finita l’università, mi accinsi seriamente a definire il rapporto fra le aspirazioni umanistiche al sud e al nord delle Alpi, incominciai, come pure tanti altri, col pensare a poco più che all’influsso del Neoplatonismo fiorentino sull’umanesimo erasmiano. Fu appunto con una borsa di studio per ricerche su Ficino e Pico che nel 1925 attraversai le Alpi, e le mie prime scoperte nelle biblioteche fiorentine concernevano lettere giovanili di Ficino, il suo commentario sulle epistole Paoline, e alcuni testi che rivelavano l’atteggiamento ficiniano verso l’astrologia. Ma le miscellanee manoscritte di cittadini fiorentini, che contenevano gli scritti rari del Ficino, spesso includevano del materiale che era rimasto in circolazione in Firenze sin dalla prima metà del Quattrocento – discorsi recitati da cittadini in posizioni ufficiali, antiche orazioni volgarizzate e, spesso, opere e traduzioni del cancelliere, Leonardo Bruni. Al confronto con questi scritti più antichi, tutti pieni di una vitalità civica tesa all’azione politica, i componimenti aggiunti dalla generazione neoplatonica mi parevano astrusi e rimossi dalla vita reale e quotidiana della città – fonti per lo studioso di filosofia piuttosto che per storici ansiosi di rendersi conto delle forze emotive e morali e delle idee che aiutarono Firenze a rimanere un centro indipendente e vitale durante il Rinascimento. Così fu che, dopo qualche pubblicazione spicciola sui Neoplatonici, passai il mio materiale a Paul Oskar Kristeller affinché l’includesse nel suo Supplementum Ficinianum mentre io, per conto mio, risalivo alla assai meno nota generazione fiorentina che aveva trovato il suo condottiero spirituale in Leonardo Bruni. 2. – Mi attendeva una sorpresa. Si credeva allora generalmente che alla fine del Trecento fosse tramontata per i Comuni l’ora della libertà e del repubblicanesimo; che “nell’età delle Signorie e dei Principati” l’umanesimo fosse formato essenzialmente dall’atmosfera delle corti. Invece, con Bruni e con la sua scuola fiorentina, ogni pensiero politico e ogni espressione di valore erano state determinate da vivace spirito pubblico, impegno nella vita della comunità, ed un fermo idealismo repubblicano. Gli umanisti fiorentini erano guidati dai più categorici ideali di attiva partecipazione nella vita politica dello stato, nella convinzione che senza di essa la natura umana non può giungere al suo compimento. Studiosi della storia della filosofia si riferivano spesso al Bruni come ad uno fra i propugnatori di uno Stoicismo umanistico che insegnava al saggio a seguire la ragione sola e a sopprimere le sue passioni sia politiche che private. Ma Bruni chiaramente rappresentava un tipo di aristotelico umanista quasi dimenticato dagli studiosi. Egli aveva la mentalità di un cittadino del Rinascimento che ha appreso da Aristotele quanto siano necessari i sentimenti forti (come l’amore e l’odio) per l’uomo che si accinge a compiere i suoi doveri sociali, e quanto poco siano da disprezzare le ricchezze anche nel giudizio del saggio, poiché senza di esse la comunità non può fiorire. Per Bruni perfino Cicerone, benché fosse l’autore delle stoiche Disputazioni Tusculane, non era più un saggio stoico. Attorno all’anno 1400 alcuni umanisti fiorentini della scuola di Salutati riscoprirono i tratti romani della vita e dell’opera di Cicerone, e Bruni poi lesse la filosofia civile di Aristotele alla luce di quel riscoprimento. Per la prima volta dall’inizio del Medioevo Cicerone esercitava una potente influenza intellettuale e morale come cittadino romano. Ma se la generazione del Bruni era in grado di vedere la vita romana in una luce storica più genuina, era nascosta in questa osservazione un’altra sorpresa. Si era supposto di solito che l’umanesimo del Quattrocento avesse generato un’imitazione retorica e classicistica della storiografia antica – proprio l’opposto di qualsiasi genere di pensare storico. Eppure risultò di fatto che Bruni e i suoi contemporanei fecero della storia una parte indispensabile della formazione intellettuale del cittadino; che essi furono i primi a concepire il sorgere e il decadere di Roma, nonché lo svilupparsi degli stati italiani secondo il modello romano, come fenomeni naturali, da spiegarsi con cause non religiose. Perfino l’accusa, tante volte ripetuta, essere stato il classicismo umanistico del primo Quattrocento cieco alle possibilità del Volgare, richiedeva delle modifiche per Firenze. Ché l’apprezzamento della lingua natia rimase vivo nella cerchia dell’umanesimo civile, e l’interesse crescente per la storia, perlomeno a partire dal 1430, fu alla base dell’opinione bruniana, secondo cui ogni lingua ha la sua perfezione individuale e la lingua di Dante avrebbe avuto il suo momento storico di trionfo, come era accaduto alla lingua di Omero e a quella di Virgilio. In seguito a tutte queste osservazioni dovevo pure trovare una risposta al problema della causa di sviluppi così inaspettati. E’ certo vero che nuovi concetti e valutazioni della vita non sono nati ad un tratto e che, una volta che i nostri occhi hanno acquistato particolare acutezza nella scoperta dell’orientamento del pensiero in ascesa a Firenze intorno all’anno 1400 e durante i primi decenni del secolo, appare ovvio come tutte le nuove idee fondamentali avessero avuto una sorta di preistoria nel Trecento. Ma prima del 1400 i nuovi concetti e valutazioni nascenti non si erano mai uniti a formare una visione integrata della natura umana e della storia, ed ogni inizio di novità era sfociato in rinnovate esitazioni ed aveva ceduto ogni volta il passo al tradizionale pensiero medioevale. Come mai, quindi, quella creatività in tanti campi, quella cristallizzazione e permanenza delle nuove idee occorse a Firenze in un momento preciso? Fu proprio intorno al 1400 che la repubblica fiorentina, resistendo agli sforzi da parte dei Visconti di costituire una monarchia al nord e al centro dell’Italia – e di fatto una monarchia assoluta -, si trovò impegnata in una lotta decisiva non solo per la sua indipendenza politica, ma anche per la sopravvivenza di libertà repubblicana nell’Italia. Era una guerra che, fatto pur trascurato dagli storici moderni, mise a fuoco e fece emergere alla luce della coscienza non solo gran numero dei problemi fondamentali della tradizione comunale ma anche molte contraddizioni dell’umanesimo trecentesco. Se non mi fu possibile almeno venticinque anni fa (1) compiere una sintesi di tutte queste mie riscoperte, ciò fu dovuto, oltre che alle difficoltà esteriori della mia vita, alla vastità di un indispensabile compito preparatorio: di convincermi e di dimostrare che nessuno degli scritti fiorentini che contenevano le nuove idee era stato composto prima che l’esperienza della lotta fra i Visconti e la repubblica fiorentina avesse assunto vero rilievo. Il lavoro particolareggiato di confutare numerosi errori di cronologia, tramandati da studioso a studioso, occupò quindi molti dei miei migliori anni, ma era un prezzo che dovevo pagare per porre delle fondamenta durevoli, anziché tenermi pago di un’ipotesi ingegnosa (2). 3. – Quando queste fatiche erano ormai quasi giunte in porto, nei primi anni dopo l’ultima guerra, mi accorsi con gioia che non ero del tutto solo sulla strada che avevo scelto. Simili impostazioni erano state tentate in Italia, specialmente da tre studiosi eminenti. Eugenio Garin aveva letto i miei lavori apparsi negli anni venti e trenta con animo consenziente e già durante la guerra si era riferito in La Rinascita alla mia interpretazione dell’etica civile degli umanisti fiorentini definendola un’impostazione nuova e convincente (3); ed aveva già da allora esplorato fin nell’intimo la filosofia fiorentina che affermava che la morale e la cultura postulavano un impegno politico e sociale e che la passione politica possedeva psicologicamente un diritto che non era stato ad essa concesso dallo Stoicismo umanistico del Trecento. Garin aveva anche scoperto che, più innanzi nel Quattrocento, quella filosofia diveniva una delle correnti principali nella letteratura e discussione umanistica dentro e fuori Firenze. Nella mia gioventù gli studiosi italiani della storia della filosofia avevano presupposto una evoluzione entro la quale l’umanesimo fiorentino della prima metà del secolo non risultava essere più che una preparazione alla filosofia della “dignitas hominis”, che doveva culminare coi Neoplatonici nella seconda metà del secolo. Oggi, grazie a Garin e la sua scuola, la fase in cui – nel primo Quattrocento – nuove idee emersero in un intimo rapporto con la società civile, è valutata per se stessa, e gli studiosi parlano altrettanto di perdita che di guadagno quando si giunse alla susseguente ascesa del Neoplatonismo e della cultura delle corti. Alla luce di questa prospettiva, le mie scoperte a proposito del primo Quattrocento non appaiono più tanto strane e isolate. Ugualmente congeniali risultarono le vedute di Federico Chabod. Il modo in cui Chabod, in varie occasioni, aveva descritto l’emergere di una comprensione causale e naturale della vita veniva ad accordarsi con quello che io avevo appreso sull’origine del pensiero storico. Contribuiva ottimamente a chiarire le mie conclusioni, e cioè che alcuni decenni attorno all’anno 1400 vanno considerati decisivi per la trasformazione del concetto umanistico della vita nel suo sviluppo dal Medioevo al Rinascimento. Infine Nino Valeri aveva descritto le guerre fra Milano e Firenze come il crogiuolo in cui si era rifuso e rigenerato lo spirito politico fiorentino, insistendo, come io stesso avevo fatto, che negli scopi contrastanti dei due contendenti – una monarchia accentratrice contro una ricca varietà di stati e culture indipendenti – si nascondeva un’autentica alternativa per l’Italia: un’alternativa che stimolava le passioni e gli ideali alla soglia del Rinascimento (4). Mi si permetta di ribadire il significato che, durante gli ultimi dieci o venti anni (5), ha avuto per me il fatto che ho potuto riferirmi a questi orientamenti di studiosi italiani congeniali al mio, e che essi hanno potuto, per parte loro, appoggiarsi alle mie scoperte e conclusioni. Grazie ai medesimi posso dire di aver assistito nel corso della mia vita ad un profondo riesame e trasformazione della nostra concezione del Rinascimento. Si è visto emergere un gruppo ampio e ben integrato di fatti di grande importanza per l’interpretazione di quel periodo. E giacché tali elementi contraddicono radicalmente le congetture correnti nella mia gioventù sulla natura del Quattrocento e sullo sviluppo generale del Rinascimento, è difficile credere che nel futuro essi non forzeranno ulteriori mutamenti nel quadro tradizionale (5). 4. – Non voglio dire con questo che tutti i risultati possano di già essere preveduti, ma in ogni caso nuove domande dovranno essere poste. Ad esempio: Se attorno al 1400 incontriamo in Italia i seguenti fattori, simultanei ed interdipendenti, cioè il trionfo di un punto di vista secolare e causale nella politica e nella storiografia; una trasformazione dell’umanesimo nella cultura di un’élite impegnata negli affari pubblici; il diffondersi di una filosofia della vita activa-politica; e la difesa della lingua volgare contro il classicismo latineggiante, ci domanderemo: forse che alcuni o tutti questi fattori ebbero anche un ruolo nel progressivo espandersi del Rinascimento in tutta l’Europa? Le ricerche di studiosi, particolarmente americani, hanno già incominciato ad indicare come le idee della vita activa-politica, l’insistenza sulle cause psicologiche e sociali e l’incoraggiamento delle nuove lingue nazionali abbiano avuto un loro posto tanto nell’umanesimo francese quanto in quello inglese. Una volta che abbiamo percepito il nuovo quadro delle origini del Rinascimento italiano, la sua influenza sulla nostra comprensione del Rinascimento in altri paesi non può non conseguirne. Ci si domanda se simili considerazioni non debbano valere quando le nuove vedute sull’umanesimo e sulla politica del primo Quattrocento sono applicate ad altre zone della stessa storia fiorentina ed ad altre fasi del Rinascimento italiano. Certamente, cultura e politica si sviluppano in guise diverse, come tutti i vari settori della vita; tuttavia abbiamo il diritto di ritenere che le esperienze e gli atteggiamenti stabilitisi in campi quali la politica interstatale e l’etica umanistica dovranno trovare dei paralleli nei contemporanei sviluppi costituzionali, sociali ed economici. La generazione dei Fiorentini che resistettero ai Visconti e produssero l’umanesimo civile della scuola di Bruni non può aver pienamente perduto la sua fiducia nella libertà costituzionale della repubblica e ceduto in modo imbelle ad un’oligarchia autocratica o ad un sorgente principato. Per quanto non si possano anticipare i risultati futuri delle odierne ricerche d’archivio, la probabilità che un modus operandi che domina vari settori nella vita di un periodo non rimarrà totalmente inattivo in altri sembra così forte che anche qui la nostra conoscenza dei fenomeni già rivelati non potrà non essere seguita dalla scoperta di certi fenomeni affini. Tali conclusioni vanno tratte per varie pagine della storia del pensiero nel suo sviluppo dal Petrarca al Machiavelli. Si prenda, ad esempio, la relazione fra la vita e lo studio del Petrarca. Se dopo il 1400 la fusione dell’umanesimo con il modo di vivere dei cittadini nelle città-stato condizionò i valori e le idee del Rinascimento, non sarà giusto inferirne che le ben note oscillazioni del Petrarca e di altri trecentisti – la loro comune riluttanza a staccarsi definitivamente da abiti mentali proprii del Medioevo – erano in gran misura causate dall’essere la vita del Petrarca ancora in buona parte contemplativa nel senso medioevale e perciò “disimpegnata” a confronto di quel che accadde a Firenze dopo il 1400? Naturalmente c’è una certa verità nei tentativi di spiegare i conflitti interiori del Petrarca su una base essenzialmente psicologica o come un effetto della compagine retorica della sua mentalità e della sua arte. Ma questo non ci dà la storia piena di lui o di altri umanisti del Trecento. Avremo una spiegazione più storicistica e vera quando le idee e le contraddizioni del Petrarca saranno valutate alla luce della nostra odierna migliore comprensione dell’umanesimo che avrebbe dovuto svilupparsi a Firenze dopo il 1400 (7). E che dire del Machiavelli? Se, del suo atteggiamento politico-storico, una parte maggiore di quel che si credeva fu anticipata dall’umanesimo civile del primo Quattrocento, e se dobbiamo pur ammettere che la repubblica continuò ad avere un fondamentale ruolo emotivo ed intellettuale nell’ambito del Rinascimento, non deve la nostra prospettiva nel giudicare l’opera machiavelliana subire l’influsso di questi accertamenti? Intorno al Machiavelli, più ancora che per il Petrarca, vivaci controversie sono già in pieno svolgimento, e io credo sia ora evidente che la direzione di sviluppo che domina nel Machiavelli non consiste in un distaccarsi dall’umanesimo e dal repubblicanismo, come si è giudicato così spesso. Inoltre, secondo l’ormai rettificata cronologia delle opere machiavelliane (se le mie conclusioni sono corrette) non è vero che il Principe sia stato preceduto da una parte dei Discorsi, l’opera sua repubblicana e, in molti rispetti, umanistica in ispirazione; bensì gli umanistici e repubblicani Discorsi furono il frutto di una fase più tarda della vita del Machiavelli. Ciononostante sarò io l’ultimo a negare che la reinterpretazione del Machiavelli – ed è quel che conta negli studi cronologici sulle sue opere – non sia ancora sufficientemente avanzata sulla base nuova. Poiché, quantunque il quadro ormai mutato del primo Rinascimento non abbia potuto far a meno di invalidare anche molti giudizi sul Machiavelli, dobbiamo ammettere che solo il futuro dimostrerà quanto importante possa risultare una tale rivalutazione del pensiero machiavelliano. Queste incertezze mi riconducono a quel senso di rimpianto che avevo incominciato ad esprimere: il lavoro che mi è di fatto riuscito di compiere risulta modesto e parziale quando si pensa alla portata delle domande tuttora senza risposta. Forse quel che ho fatto non può pretendere di essere più che uno stimolo che spronerà gli studiosi – compreso me stesso, si vita suppetet – verso riconsiderazioni il cui esito non è ancora affatto prevedibile. Ma se la mia opera compiuta eserciterà un tale stimolo, non sarà stata in vano. Questo è l’angolo della visuale da cui dovrei guardare indietro alle mie fatiche passate, come pure all’onore che ricevo oggi. (1) Cioè prima della seconda guerra mondiale; il presente scritto è del 1965. (2) Dopo il discorso del ’65 ho pubblicato quella che spero sia la presentazione finale delle mie maggiori conclusioni cronologiche nei due saggi “Chronology and Historical Certainty: The Dates of Bruni’s Laudatio and Dialogi” e “A Crucial Date in the History of Fiorentine Historiography:The Composition of Dati’s Istoria di Firenze in 1409”, nel mio volume From Petrarch to Leonardo Bruni (Chicago, 1968), pp. 102-150. Ho anche aggiunto nella versione italiana di La Crisi del Primo Rinascimento Italiano (Firenze, 1970), pp. XXIX ss., alcune pagine sui significato e la necessità d’una revisione della cronologia. (3) La Rinascita, IV (1941), pp. 409 ss. (4) Ho cercato di comparare dettagliatamente e di chiarire questa parentela tra il ritratto dell’Italia nel primo Rinascimento dipinto dal Valeri e la mia interpretazione del rapporto tra politica e cultura a Firenze (come pure del ruolo capitale sostenuto dalla resistenza fiorentina contro Giangaleazzo Visconti) in un saggio sullo sviluppo politico del primo Rinascimento italiano (“Die politische Entwicklung der italienischen Renaissance”) nella Historische Zeitschrift, 174 (1952), specialmente pp. 34 s. e 48 ss. (5) Durante gli ultimi venticinque anni, potrei dire oggi. (6) Le conseguenze per la validità del quadro del Rinascimento tracciato dal Burckhardt stesso sono state discusse in un mio saggio scritto nel 1960 e ripubblicato con alcuni ritocchi, in versione italiana coi titolo “Critica dell’individualismo burckhardtiano: Elementi politici e sociali nel concetto di Rinascimento”, in Il pensiero Politico, II (1969), pp. 39-53. (7) Questa spiegazione ho tentato di dare nel contesto di conferenze infine rifuse nel saggio intitolato “Petrarch: His Inner Struggles and the Humanistic Discovery of Man’s Nature”, Florilegium Historiale: Essays presented to W. K. Ferguson (University of Toronto Press, Canada, 1971), specialmente pp. 30 s. e 44 ss.