Pisa, ottobre 1962
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
E’ una grande gioia per mia moglie e per me incontrarvi ed entrare nell’ambiente del Premio Internazionale. Tutto è divenuto vivo per noi fin dal momento in cui siamo stati così cordialmente accolti.
Sento la più viva gratitudine per il grande onore che mi fate: dovrei dire che è immeritato ma le parole che mi vengono alla mente sono: caro e indimenticabile.
Con ammirazione vedo questo lavoro di un grande scultore moderno italiano. Con ammirazione e gioia entrerà in casa nostra una tale creazione dell’Italia di oggi, che tanto amo ed ammiro.
Ritorna anche il ricordo della lieta sorpresa e della gioia quando, nei boschi della lontana Dalecarlia, con la telefonista interpretavo il telegramma giunto da Falun con il quale il Rettore dell’Università di Pisa e la Giuria mi annunciavano il grande onore ricevuto.
Il verbale della Giuria, che conservo come un tesoro, e le lettere del prof. Bolelli mi informavano delle idee realizzate col Premio Internazionale ed aumentavano giorno per giorno l’allegria e la gratitudine. Venivano anche articoli di giornali, i quali, come il verbale, rilevavano che il Premio è destinato a “studiosi stranieri, che abbiano dato un contributo alla cultura d’Italia” ed in special modo sottolineavano che trentasei anni fa ho fondato l’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma.
Niente può essere stato più caro per me, più commovente. La speranza di aver potuto dare qualche contributo alla ricca cultura dell’Italia di oggi è audace. Mi anima anche per il futuro, anche se non oso giudicare: sub judice est.
Irresistibile è invece in questa giornata di ricordanze e di prospettive, prendere come spunto le parole riguardanti i miei sforzi per mantenere viva e ripristinare in forma moderna la tradizione svedese in Italia, per me divenuta una seconda patria.
Roma, come Livorno, come Pisa, Firenze, come Napoli, Ischia, è piena di melodie straniere nascoste. A Firenze le ricordano iscrizioni quartiere per quartiere. Di solito entrano anonime nella grande musica secolare delle città italiane. Per noi stranieri hanno invece un’importanza viva, preminente: anni di studio in Italia di scultori, pittori, architetti, poeti, musicisti, modesti studenti hanno scritto pagine grandi nella storia della cultura svedese per saecula a Roma, in Italia.
Venite con me in piazza Farnese a Roma. Mentre le persone e la piazza vivono la loro vita incantevole, ancora oraziana e belliana di ogni giorno, essa per noi è anche piena di un’altra poesia. Ecco la casa di Santa Brigida, il primo posto nel mondo ove si fece sentire una voce svedese fuori della Scandinavia. Nella casa stessa venne scritta e stampata nel 1500 la prima storia della Svezia. E’ questo il luogo di nascita della storiografia svedese. Sulle rive del Tevere i nostri pensieri si fermano al palazzo della Regina Cristina, e così i nostri ricordi vivono la loro vita privata quasi ad ogni segnale rosso – anche se andiamo in macchina – nel centro di Roma.
Trasferiamoci al Nord. Già un primo sguardo al Palazzo Reale nella città medievale sulla collina di Stoccolmarivela che il geniale creatore era stato allievo di Bernini.
Quando ero studente a Uppsala era un sogno fra noi – allora giovani – poter rinnovare questa nostra grande tradizione romana in forma moderna, attiva, creando un istituto di studi classici, come quelli dei Francesi, dei Tedeschi, degli Inglesi a Roma. Molti anni dopo, nel 1925, venni all’improvviso chiamato a Palazzo Reale, il Palazzo berniniano, dunque, dal Principe Ereditario, adesso Gustavo_II_Adolfo_di_Svezia” target=”blank_”>Re Gustavo Adolfo, che già allora era preso dalla sua instancabile attività per la vita culturale in Svezia, ispirata dai suoi profondi interessi e dalla sua grande cultura.
In poco più di due ore espose un programma per un Istituto svedese a Roma, un programma da lui studiato insieme con M. Nilsson ed altri. Il mio ammirato maestro di latino Einar Löfstedt, già citato dal prof. Bolelli, appartenne al primo comitato. Questo programma dura ancora ma venne allora fissato in ogni particolare, non escluse le difficoltà, adesso superate, come i mezzi scarsi e la completa mancanza di biblioteca. “Abbi coraggio – concluse – nell’affrontare l’avventura“.
Io – lo confesso – col mio ottimismo giovanile, mi sentivo già vincitore, e nel febbraio del 1926 ricevetti la prima schiera di studenti svedesi, danesi, finlandesi e norvegesi in una piccola sala con tre libri in una casa borghese a noi cara nel cuore di Roma. Quanto eravamo felici!
Gli anni sono volati via. Io sono già in pensione. Il mio piccolo Istituto di allora è adesso la più grande istituzione culturale della Svezia all’estero. Ha il suo proprio palazzo a Valle Giulia, una bella biblioteca, un insegnamento universitario; e ogni autunno per circa sei settimane si fa pratica archeologica con scavi nel Viterbese, ai quali l’Istituto è stato generosamente invitato dalla Soprintendenza dell’Etruria meridionale. Inoltre, grazie alla volontà di accrescere i rapporti italo-svedesi con tanto amore per l’Italia espresso da Axel Munthe nel suo testamento, l’Istituto possiede la Villa S. Michele ad Anacapri dove possiamo offrire ospitalità ad autori, artisti, compositori, poeti e giornalisti svedesi.
Lo confesso, nell’Istituto di Roma si dimentica di essere all’estero. E’ divenuto una parte organica – un melospiuttosto che un meros, per parlare con Marco Aurelio – delle quattro Università svedesi, che vivono a Roma e proseguono gli studi classici nella terra che è loro propria.
Ogni tanto ricevo lettere dai miei ex studenti, dai ragazzi dei miei lontani anni di direttore adesso grandi personalità – con le stesse parole: “La mia vita è divenuta per sempre più ricca in quei mesi in Italia“. Ripeto: tutto questo è anche per me irresistibilmente connesso con l’onore che mi viene fatto.
Sono grato di avermi indotto a sentire come quasi un dovere di parlarne oggi. In un ottimo articolo si afferma – e a ragione – che l’onore di oggi premia tutta l’équipe svedese, tutti quegli studenti che in questo momento mi sono così vicini.
Insieme coi pensieri, i ricordi e le speranze di oggi che simboleggerà per me la dolce danza di questa graziosa fanciulla, insieme con tutto ciò, il riposo incantevole con tanta cordiale ospitalità ed amicizia offertoci al Forte dei Marmi ha rievocato forze vive animanti e specialmente l’ottimismo una volta condiviso coi miei primi studenti del nostro camping di allora, i professori Säflund dell’Università di Stoccolma, Sjöqvist di Princeton, il norvegese L’Orange (adesso fondatore dell’Istituto di Norvegia) il mio successore a Göteborg, Åkerström, Hanell di Lund, ora segretario del comitato dell’Istituto e direttore dei nostri scavi, Andrén, Vessberg ed altri meno conosciuti dai colleghi italiani, che con viva gioia sento onorati con me oggi. Ma – prima di tutto – questi giorni mi hanno rammentato la generosità, la cordialità, l’amicizia colle quali venne ricevuto il nostro neonato Istituto ab incunabulis. Tra gli amici di allora erano il prof. Paolino Mingazzini ed i suoi parenti. E’ una viva gioia per me vederlo qui oggi. E’ una forza indimenticabile, un esempio per sempre. E qui entra ancora un terzo ricordo dei primi anni: il primo congresso etrusco del 1926 a Firenze, quando il Minto ed i suoi collaboratori creavano il moderno, grande programma degli Studi etruschi.
Per noi quattro svedesi e un danese nella schiera dei compagni giovani questo Congresso divenne una inaugurazione alla ricca vita delle ricerche italiane. Ci diede amicizie ed ispirazione che poi, anno per anno, si sono sempre approfondite ed allargate. La presenza oggi dei professori Ferri e Laurenzi come la dedica a me fatta dal prof. Devoto del suo capolavoro “Origini indoeuropee” mi riportano al nostro incontro giovanile in Toscana.
Insieme con questi cari primi ricordi vanno le parole di congedo del Von Duhn. Si alzò, alto e vichinghesco come Montelius e si rivolse a noi giovani dicendo: “Non dimenticate mai che questa terra etrusca con tutti i suoi misteri e problemi è la terra del Rinascimento, la terra, cioè, di un ringiovanimento della nostra cultura paragonabile solo ad Atene.”
Non ho potuto ricevere il vostro Premio senza accennare a quanto mi ha dato la ricca vita italiana, la mia gratitudine, il mio amore, la mia ammirazione. Rimarrà questo giorno per sempre caramente unito a questi ricordi ed alle mie ricerche future, alle realizzazioni di speranze internazionali che abbiamo in comune nei nostri cuori, tutte animate dalla cordialità di questo soggiorno.