Pisa, ottobre 1968
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Essendo venuto sul tappeto magico dall’America lontana per trovarmi oggi con voi in questo ambiente nobile e caro, vorrei anzitutto esprimervi il mio profondo apprezzamento e la mia soddisfazione per questo grande onore fattomi in Italia, in Toscana e a Pisa, e vorrei ringraziare di tutto cuore le autorità universitarie, cittadine e del Rotary Italiano che hanno stabilito questo premio ormai famoso, e anzitutto l’amico Bolelli e gli altri membri della commissione che mi hanno giudicato degno di riceverlo quest’anno. Mi sento poi profondamente commosso dalla presenza di vecchi amici e dagli affettuosi ricordi che mi legano a Pisa, alla vostra Università e alla Scuola normale superiore dove ho passato tre anni della mia vita, in cui ho iniziato molti dei miei lavori, ho assorbito le tradizioni e i metodi della cultura e della scienza italiana, ho acquistato molti tra i miei migliori amici, e dove mi sono sentito quasi un membro della comunità intellettuale italiana. Vorrei ora parlarvi brevemente dei motivi che mi hanno guidato nelle mie ricerche sulla storia intellettuale del rinascimento italiano e nei miei contatti con l’Italia, ma questo compito autobiografico, per quanto attraente, non è affatto facile. Nella mia vita di studioso mi sono mosso da un problema all’altro, guidato dall’istinto e dalla curiosità piuttosto che da un piano consapevole e stabilito, e stimolato probabilmente più di quanto immaginassi dalle letture, dagli incontri e dai miei interessi precedenti. Tra le idee e i progetti, molto viene dimenticato o abbandonato o rimane frammentario, e perfino ciò che viene terminato spesso non è altro che un frammento di ciò che si voleva o sperava di fare. Così la mia opera appare a me stesso, e sospetto che altri studiosi, altre persone vivano e lavorino in una maniera simile. Nel corso della mia vita gli studi italiani sono venuti abbastanza tardi. Nato a Berlino in ambiente borghese, in tempo per ricordare il mondo prima del 1914 e per subire i movimenti del decennio dopo il 1920, ebbi un’educazione classica molto rigorosa che mi aiuta tuttora nei miei studi, appresi da Goethe e da altri scrittori tedeschi e francesi il mito dell’Italia, e imparai da mia madre e dai musei della mia città natale l’amore per l’arte italiana. Da studente universitario mi sono occupato anzitutto della filosofia di Platone, di Kant e di Hegel, ma ho anche seguito corsi di storia medievale, di storia della letteratura e di storia dell’arte, e ho approfondito gli studi classici, interessandomi anche di critica testuale e di paleografia. La mia tesi di laurea tratta di Plotino, autore che mi è tuttora caro. Quando, nel 1931, scelsi un argomento di studio che doveva portarmi alla libera docenza in Germania, fissai la mia attenzione su Marsilio Ficino perché volevo esplorare un’altra fase fondamentale della storia del platonismo, e perché quest’autore e il suo ambiente mi attraevano, sia per la sua traduzione e interpretazione di Plotino, sia per i saggi sul suo pensiero che venni a conoscere attraverso le pagine del Burckhardt, del Cassirer e del Panofsky. Scelto questo argomento, mi misi subito a imparare la lingua italiana e a leggere opere della letteratura e critica storica italiana. Cominciai con la Divina Commedia e con la Storia dell’Accademia Platonica del Della Torre, e temo che questa strana combinazione abbia lasciato la sua impronta sul mio stile italiano fino a più tardi e forse fino ad oggi. Il mio primo viaggio a Roma e Firenze fu nel marzo del 1933, e già allora incontrai parecchi studiosi e bibliotecari italiani e vidi molti manoscritti e incunabuli del Ficino e dei suoi contemporanei. Quando la persecuzione nazista troncò la mia carriera in Germania, mi decisi ad emigrare, e venni in Italia nel 1934, incoraggiato da parecchi studiosi che si interessavano della mia opera, tra i quali Giovanni Gentile, Ernesto Codignola e Leonardo Olschki. Il mio volume sulla filosofia del Ficino era già scritto a metà, e avevo cominciato a raccogliere i testi e i documenti inediti che dovevano riempire il Supplementum Ficinianum. Trattenendomi parecchi mesi a Roma e un anno intero a Firenze, ebbi occasione di conoscere non soltanto l’ambiente italiano e le vostre biblioteche, ma anzitutto le ricchezze del materiale inedito e importante nascosto nei vostri fondi manoscritti e appena sfiorato dai grandi studiosi della generazione precedente. Venni poi a Pisa nel 1935 come lettore di tedesco alla Scuola Normale e all’università; qui terminai il libro sul Ficino nel testo tedesco e italiano, pubblicai il Supplementum Ficinianum presso Olschki con una prefazione di Gentile e sotto gli auspici della Scuola Normale, scrissi alcuni articoli per gli Annali della Scuola e altre riviste italiane, e preparai, con l’aiuto di Gentile, Mancini, Olschki, Perosa e molti altri amici pisani, la Nuova collezione di testi umanistici inediti o rari che continua ancora, per quanto lentamente, a essere pubblicata con l’aiuto del Frugoni, del Campana, del Mariotti e del Martellotti. E sono contento che quest’impresa che mi lega tuttora a Pisa, sia sopravvissuta alla guerra e alla mia partenza. Il mio soggiorno a Pisa mi dette pure l’occasione, specialmente d’estate, di esplorare gli altri fondi di manoscritti in Italia, e ricordo volentieri le prime scoperte fatte a Napoli e Venezia, a Milano, Parma e Modena, a Bergamo, Ferrara e Mantova, e in molti altri posti. Nel 1939 dovetti emigrare per la seconda volta negli Stati Uniti e, dopo qualche mese di attesa, ebbi un posto modestissimo alla Columbia University di New York dove ho poi fatto la mia carriera accademica e dove dopo quasi trent’anni occupo la cattedra ordinaria di storia della filosofia intestata al nome del compianto Prof. Frederick Woodbridge. In America, grazie all’appoggio e all’interessamento di molti colleghi e amici, ho potuto pubblicare in traduzione inglese il mio volume sul Ficino (uscito poi anche in italiano presso Sansoni dopo la guerra). Insegnando anzitutto storia della filosofia, sono stato anche invitato qualche volta a insegnare letteratura italiana, perfino in italiano, e sono stato sempre in contatto con la Casa Italiana della mia università e con il suo istituto di studi italiani, prima con Bigongiari e Prezzolini, poi con De Negri e adesso con i loro successori più giovani che sono in parte miei allievi. Ho pure il mio studio all’università nella Casa Italiana. Arrivato in America non più giovanissimo, ma abbastanza giovane per poter ancora imparare qualcosa, ho dovuto per forza allargare le mie vedute, sia con l’impegno dell’insegnamento e delle conferenze sia con le discussioni con colleghi che avevano altri interessi e altre opinioni, criticando e nello stesso tempo imparando. Devo all’ambiente americano ciò che ho imparato nel corso degli anni, non sul platonismo, sull’umanesimo o sulla letteratura italiana, ma sull’aristotelismo, sulla storia delle scienze, dell’economia, della musica, della letteratura inglese, e anche su molti aspetti della storia medievale. La mia interpretazione del rinascimento italiano risulta probabilmente da un compromesso tra le mie nozioni precedenti, dovute alla mia educazione tedesca e italiana e le correnti storiografiche e filosofiche che ho incontrato in America. Compromesso non dovuto all’intenzione di piacere a qualcuno, ma piuttosto all’esame critico delle varie opinioni nella loro base storica, testuale e documentaria. La mia opera dopo il mio arrivo in America si è svolta in varie direzioni. Rimane vivo il mio interesse per il Ficino e il suo ambiente per il quale ho scoperto ancora molti testi e documenti e problemi dopo la pubblicazione del mio volume e del Supplementum. Mi sono interessato di altri pensatori del periodo, specialmente del Pomponazzi e del Patrizi. Ho cominciato uno studio vasto che è ancora incompiuto sulla storia intellettuale delle università italiane che mi ha portato verso parecchi testi e articoli riguardanti Salerno, Bologna e Padova e anche verso le origini dell’umanesimo e aristotelismo italiano. Ho iniziato il progetto del Catalogus Translationum et Commentariorum, impresa internazionale che deve descrivere la tradizione latina degli autori antichi greci e latini e mettere in rilievo il contributo notevole sia del medioevo francese che del rinascimento italiano a questa tradizione centrale, e con la quale si spera di sostituire le controversie con fatti storici e bibliografici bene accertati. E mi sono fatto trascinare nell’impresa dell’Iter Italicum che non è altro che un tentativo di rendere accessibile agli studiosi gli appunti raccolti nelle biblioteche italiane e straniere durante i miei viaggi, che cominciarono nel 1933 e che continuano tuttora. Anzi, per citare mia moglie, questo progetto mi ha servito di pretesto per viaggiare e visitare molti luoghi interessanti, e mi dà occasione di venire spesso in Italia e di mantenere i contatti con gli amici e i colleghi italiani. Credo di poter dire che i miei lavori si muovono in due direzioni diverse: da una parte mi attrae il lavoro monografico. Ho cercato di interpretare con cura alcuni pensatori preferiti, e di studiare e pubblicare autori e testi trascurati di importanza spesso modesta che pure mi sembrano riempire delle lacune e illustrare certe correnti interessanti. D’altra parte ho cercato di raccogliere le indicazioni bibliografiche e documentarie che aiuteranno per l’avvenire a una conoscenza più completa e più giusta della cultura intellettuale del tardo medioevo e del rinascimento: i codici e le edizioni rare, i documenti delle università e delle altre scuole, le memorie della storia regionale e locale tanto importanti per l’Italia, le tradizioni delle varie discipline dotte, specialmente quelle legate storicamente con la filosofia, come la medicina e la retorica, e perfino (mi sia permesso di esprimere un’eresia, e vi permetto di fare il segno della croce) la storia dei vari generi letterari. Credo che il tempo non sia ancora maturo per una nuova e solida sintesi sulla storia intellettuale del rinascimento italiano, e confesso volentieri che considero tutto ciò che ho detto e scritto in modo generale sull’umanesimo e sul rinascimento come ipotetico e provvisorio. Credo che i particolari grandi o piccoli che possono essere stabiliti con certezza preparino la strada per una sintesi futura più sicura di quella passata. e su questo punto io, di simpatie metafisiche e storicistiche, non mi vergogno di essere chiamato scientifico e perfino positivista. D’altra parte sento e spero che la rassegna, per quanto provvisoria, dell’intero materiale manoscritto e documentario ci aiuti fin d’ora a capire la civiltà italiana del rinascimento, per usare delle analogie scientifiche, nella sua topografia o morfologia, e ecologia. Non vedo la mia opera come un fenomeno isolato. Mi sento legato ai maestri del passato fino ai grandi eruditi del vostro Settecento dai quali ho sempre imparato anche quando devo criticarli o correggerli, e ai nostri allievi e giovani colleghi ai quali spesso cedo volentieri i progetti che non ho il tempo di proseguire e la cui opera è destinata a sviluppare e a correggere la nostra. Ma mi sento pure strettamente collegato con gli amici e colleghi in America, in Italia e negli altri paesi europei, compresa la Germania, con i quali c’è uno scambio continuo di informazioni, di problemi e di idee. E aggiungo i bibliotecari e archivisti, spesso studiosi di grande merito, senza la cui pazienza e generosità le nostre ricerche non si potrebbero condurre o proseguire. Non credo, e qui vado d’accordo con Croce, che alcuno storico possa essere interamente privo di preconcetti, ma ho sempre cercato, per quanto è possibile, di frenare i miei, di evitare i giudizi tendenziosi, e di imparare da tutti. Essendo straniero, e estraneo a certe tradizioni politiche, religiose, critiche e filosofiche dell’Italia, forse ho potuto vedere chiaro e dal di fuori certi aspetti della storia culturale dell’Italia che voi o considerate come così ovvi da non meritare menzione, o che avete dimenticati, perché hanno lasciato più tracce all’estero che non nella stessa Italia. Mi piace pensare che il mio destino particolare mi abbia guarito dal nazionalismo ancora vivo in molti luoghi, e mi abbia insegnato a guardare la nostra e la vostra storia da prospettive diverse. D’altra parte, mi sento abbastanza vicino all’Italia per non sentirmi estraneo in un paese in cui ho vissuto a lungo, dove ho molti amici, e dove ho pubblicato parecchi libri e articoli. E poiché ho sempre stimato l’opera degli studiosi italiani del nostro secolo, mi compiaccio doppiamente dell’onore che mi viene fatto oggi perché mi fa pensare che i miei sforzi di studioso hanno suscitato il vostro interesse, e le mie conclusioni, per quanto siano state spesso criticate e meritino di essere criticate, vi hanno convinto almeno fino a un certo punto. Concludendo, vi confesso volentieri che l’Italia e la cultura italiana fin da quando le ho conosciute hanno avuto sempre un’attrazione speciale per me, e che quest’attrazione è piuttosto aumentata con gli anni malgrado la mia lunga assenza. Considero l’Italia come una mia patria d’elezione, e spero che sia vero ciò che alcuni mi hanno detto, cioè che il mio soggiorno italiano abbia lasciato qualche traccia nel mio carattere e nelle mie abitudini. Ammiro la vostra arte e il vostro paesaggio come hanno fatto tanti visitatori del Nord prima di me. Mi piace la gentilezza e l’umanità del vostro popolo che mi si è rivelata nei momenti più tristi della mia vita, sia da parte di ministri e senatori sia da parte di camerieri ed uscieri. E sento profondamente lo stile, semplice ma nobile e sottile che distingue la vostra cultura, la vostra arte e il vostro pensiero, e specialmente il vostro rinascimento. E’ una delle grandi epoche della nostra civiltà occidentale, grande per ciò che ha prodotto di suo, per ciò che ha conservato e trasformato dell’eredità classica e medievale tuttora fondamentale, e per ciò che ha trasmesso alla posterità, all’illuminismo, al romanticismo, al nostro sincretismo semibarbaro. Noi e i nostri successori, obbligati a rimediare ai difetti politici, economici e sociali della nostra società, ma anche a conservare e possibilmente arricchire la nostra tradizione artistica, letteraria e scientifica e a dirigerla da un ambiente nazionale o europeo verso una sintesi mondiale, dobbiamo sempre ammirare e studiare, tra gli altri elementi della nostra comune cultura, l’arte e il pensiero del rinascimento italiano. Alla colazione in suo onore il 27 ottobre 1968 il prof. Kristeller pronunziò le seguenti parole: In mezzo a questo gruppo di colleghi e amici mi piace parlare ancora dei miei legami con Pisa, l’Università e la Scuola Normale e dei miei ricordi, che risalgono ormai a più di trent’anni fa, fino al 1935. Ho insegnato a Pisa per tre anni interi dal 1935 al 1938, e poi di nuovo due volte per sei mesi nel 1949 e nel 1952 quando fui professore Fulbright alla Scuola Normale. Il legame più continuo, a parte gli amici, è stata la collezione umanistica che fu fondata nel 1937 e che continua ancora sotto gli auspici della Scuola Normale. Nei vecchi tempi prima della guerra sono stato incoraggiato e aiutato da molti studiosi della vecchia generazione di cui molti sono morti. Ricordo specialmente Gentile e Pasquali, Russo, Mancini e Merlo che non sono più con noi, e poi Chiavacci e Amoretti, Picotti, Calogero, Bianchi Bandinelli e molti altri. In quei tempi conobbi anche Codignola, Bignone, Berenson e Leo Olschki a Firenze, Bertoni e Leonardo Olschki a Roma, il card. Mercati e Mons. Pelzer, Bertalot alla Vaticana. In quegli stessi anni incontrai parecchi colleghi e amici della mia generazione, qui a Pisa anzitutto Perosa, Carli, Borghi e a Roma Cantimori, Campana, Momigliano, Radetti e Luisa Banti. Conobbi anche Garin qui a Pisa quando egli vi fece gli esami al Liceo, dopo che avevo letto e recensito il suo primo libro ormai classico sul Pico, e siamo ancora molto amici benché le nostre opinioni non siano sempre uguali. Qui a Pisa conobbi poi molti studiosi che furono allora studenti o perfezionandi e miei allievi o compagni e che adesso occupano cattedre o altri posti importanti in Italia o altrove e che ho riveduti come colleghi in varie occasioni: Binni e Branca, Donadoni, Frugoni, Mencaraglia, Getto, Ferrarino, Giustiniani, D’Andrea, Roncaglia, Bigi, Folena, Munari, Mariotti, Omodeo, lo stesso Bolelli e tanti altri (mi scuso se non ritengo bene il loro ordine di anzianità o di graduatoria). Qui a Pisa ho rinnovato dopo la guerra l’amicizia con Cantimori, e ho avuto allievi nuovi come Mainardi e Velli. E sono contento di ritrovarvi adesso altri amici e colleghi che avevo conosciuti altrove come Momigliano, Fubini e Martellotti. Perdonatemi quest’enumerazione, ma per me ogni nome rappresenta il ricordo d’una fisionomia, di molte conversazioni e di libri e articoli letti con piacere e con profitto. Grazie a questi amici, Pisa, dove ho anche preso una laurea, costituisce per me una fase e una esperienza indimenticabile della mia vita. I tre anni che ho passato qui prima della guerra, malgrado l’amarezza dell’esilio e della persecuzione e la minaccia di altri guai che si sono poi verificati più tardi, furono degli anni felici, grazie alla cordialità e ospitalità degli amici e alla possibilità di continuare le mie ricerche. E sono pure gli anni a cui devo la mia conoscenza dell’Italia e delle sue tradizioni. Concludo con un saluto a Pisa, a quella passata, presente e futura, e agli amici pisani, ai vivi che sono qui con noi nella loro presenza o nel loro pensiero, e ai morti che vivono nella loro opera e nella nostra memoria. E cerchiamo di dedicarci anche per l’avvenire alla causa della nostra scienza, agli studi filosofici e storici che hanno sopravvissuto nel passato a tante crisi politiche, religiose e sociali e che speriamo che sopravvivano anche a quelle del presente.