Pisa, ottobre 1991
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Il giorno successivo a quello in cui mi è giunta la lettera del prof. Bolelli con l’annuncio dell’assegnazione del Premio Galileo Galilei, trovandomi a Padova per una conferenza, ho potuto ammirare davanti al Caffè Pedrocchi, simbolo del Risorgimento italiano, la statua della fanciulla accovacciata di Emilio Greco, certamente il più famoso scultore italiano vivente. Ho contemplato a lungo la scultura senza riuscire a capacitarmi di come un’opera così splendida un giorno avrebbe potuto essere mia. Nonostante la profonda gratitudine che invase allora il mio cuore e che oggi davanti a voi tutti presenti vorrei esprimere, non ero in grado di rispondere alla domanda, per quali meriti sono stato ritenuto degno del conferimento di questo premio.
Se per essere designato al premio Galileo Galilei bastasse un infinito amore per l’Italia, ritengo di essere all’altezza, anche perché non vorrei che qualcuno in questo mi superasse. Credo che un tale amore mi corra nel sangue perché mio zio, lo storico Friedrich Andreae di Breslavia, noto quale fondatore della Osteuropäische Geschichte come disciplina accademica, nella sua ricostruzione dello stemma della famiglia Andreae credette di aver individuato come capostipite Messer Giovanni d’Andrea di Rifredi giurista della Corona di Arrigo VII, l’imperatore che fu sepolto qui, a Pisa. Messer Giovanni d’Andrea dovrebbe riconoscersi in uno dei quattro consiglieri accanto alla statua seduta dell’imperatore nel monumento di Tino da Camaino ora al Museo dell’Opera del Duomo a Pisa. Non so se ciò corrisponda al vero ed a bella posta non ho voluto fare delle ricerche personali, per non distruggere un pensiero che mi è stato caro sin dall’infanzia, da quando mio padre mi mostrò la statua di Giovanni d’Andrea. Egli era venuto coll’imperatore in Germania e, fondando una grande famiglia, aveva tradotto il suo nome nella versione latina Johannes filius Andreae, donde il nome che ho l’onore di portare. Era un grande stimolo quell’idea e s’incontrava con quel teutonico desiderio dell’Italia di cui è impregnata la storia del nostro popolo.
Ma dalla storia del premio Galilei che oggi viene assegnato per la trentesima volta ho appreso che non bastano il desiderio e l’amore per l’Italia: ci vuole di certo altro, anche se forse non di più, perché l’amore per l’Italia e per le sue ricchezze culturali rimane il fondamento di tutto quello per cui (in precedenza) fu assegnato il premio.
Sono convinto che il premio è stato conferito alla mia persona perché in questo momento sono l’ultimo della serie di tredici direttori dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica che, per volontà di Bismarck, ha dovuto prendere il nome di Germanico. E’ l’Istituto che rappresento che corrisponde veramente, nella sua interezza, all’intenzione del premio. Nella mia umile persona vengono allora onorati uomini come Eduard Gerhard, Wilhelm Henzen, Heinrich Brunn, che per primo ha scoperto le copie romane del Donario di Attalo, che solo quest’anno, nella mostra “I Celti”, sono state per la prima volta riunite, essendo disperse nei Musei di Napoli, del Vaticano, di Venezia, di Aix-en-Provence e del Louvre; o un personaggio indimenticabile come Ludwig Curtius, che dell’Istituto ha fatto quello strumento di ricerca e quel punto di riferimento che è attualmente il Germanico.
D’altra parte il presidente della Fondazione del premio internazionale Galilei dei Rotary Italiani non mi ha chiesto di parlare dell’Istituto da me diretto, cosa che sarebbe più facile per me e di certo meno imbarazzante, ma di preparare un breve discorso per illustrare le ragioni del mio interesse per la cultura italiana e per l’Archeologia che si riferisce all’Italia: una rassegna, dunque, della mia attività scientifica.
Mio padre era un armatore, ma i suoi interessi erano più scientifici che mercantili. Era un umanista ed aveva tradotto le opere politiche di Platone in tedesco. Approfondendo gli studi sul pensiero socio-politico di Platone, divenne professore di economia e commercio in diverse Università. La nostra casa era piena di ricordi dei lunghi viaggi dei miei genitori in Grecia ed in Italia. Mia madre è scrittrice ed ha descritto in un romanzo ben accolto dai lettori la vita di un professore di Archeologia. Ma da alcune impressioni dell’infanzia fino alla formazione di una professione la via non sempre è diretta: tuttavia mi ha condotto a Roma. Così, almeno per me, si è verificato il detto “tutte le strade portano a Roma”. Se poi mi soffermo a ricordare la quasi incredibile storia di una giovane studentessa che a diciassette anni, durante un viaggio a Roma, nel lontano 1956, ha annotato nel suo taccuino “più di tutto vorrei sposare il direttore dell’Istituto Archeologico Germanico” e che oggi quella donna è mia moglie e che proprio domani, 7 ottobre 1991, quasi in concomitanza con la trentesima edizione del premio Galilei, ricorre anche il trentesimo anniversario delle nostre nozze, allora non posso fare a meno di ringraziare un favorevole destino.
Non posso fare a meno di vedere un favorevole destino anche nel procedere della mia attività scientifica, perché è accaduto spesso che, quando mi sembrava che i miei studi non avessero più ampie prospettive, un inaspettato ritrovamento archeologico mi abbia aperto una via d’uscita.
Ed un favorevole destino, come mi è concesso di vedere oggi retrospettivamente trent’anni dopo la mia abilitazione a libero docente nell’Università di Bonn, ha segnato come un filo rosso la mia attività scientifica.
Ho cominciato come allievo di Friedrich Matz con lo studio dei sarcofagi romani e sono ancora editore del corpus dei sarcofagi. Tra parentesi, vorrei ricordare che il quarto simposio sui sarcofagi si è svolto qui, a Pisa, in concomitanza con il colloquio sul reimpiego dei sarcofagi romani nel medioevo, di cui il Camposanto di Pisa è l’esempio più insigne. Lo studio dei sarcofagi con scene di battaglia mi ha fatto intendere che i sarcofagi romani hanno una triplice importanza: come opere d’arte romana, come specchio di composizioni più antiche e come mediatori tra l’arte classica e l’arte rinascimentale.
Innanzitutto rappresentano una delle più significative classi di opere dell’arte romana. Lo sviluppo di questa classe di rilievi tra il secondo ed il quinto secolo dopo Cristo ci consente di seguire l’evoluzione dell’arte antica dall’espressione mimetica dell’arte classica ed ellenistica a quella spirituale e simbolica della tarda antichità e del medioevo. Tra i sarcofagi romani si trovano le più grandi opere d’arte di un’intera epoca. Ricordo il grande sarcofago Ludovisi, il cui tema compositivo ho potuto chiarire, e desidero ricordare come l’ispirazione per questa scoperta mi sia venuta proprio il giorno in cui a tarda sera doveva nascere la mia prima figlia Irene. Con questo nome ho voluto cancellare il cattivo nome che poteva costituire la considerazione e persino l’elogio di opere che rappresentano un campo di battaglia.
Ma i rilievi dei sarcofagi non sono solo un importante contributo all’arte del loro tempo. S’ispirano, infatti, a grandi opere anteriori come nel caso dei sarcofagi con scene di battaglia, che si rifanno ad una pittura ellenistica di cui ci parla Pausania quando, in visita ad Atene, va a vedere sul muro dell’Acropoli il donario di Attalo. In precedenza il periegeta aveva narrato l’irruzione in Grecia dei Galati o Celti, secondo il nome corrente per essi, e, dopo aver rammentato la seconda sconfitta dei Greci ad opera di un popolo barbaro presso le geografia%29″ target=”blank_”>Termopili, ricorda come i Pergameni conservassero le spoglie prese ai Galati e che “c’è una pittura che rappresenta l’impresa compiuta contro i Galati”. Purtroppo Pausania non dice chi sia l’autore di questo quadro conservato a Pergamo, ma alcune pagine dopo egli ritorna sulla storia della sconfitta dei Galati nella guerra con i Pergameni, quando descrive brevemente il donario che il re Attalo II aveva dedicato sull’Acropoli di Atene per commemorare quella che Pausania definisce la phtorá, cioè lo sterminio dei Galati nel 166 a.C. Questo donario consisteva in più di cento statuette in bronzo che rappresentavano la guerra tra Dei e Giganti, tra Ateniesi ed Amazzoni, tra Greci e Persiani e, quale evento attuale, la strage dei Galati. Di tali 100 figure, che erano alte solo m. 1,20 perché altrimenti non potevano trovare posto sul muro, sono conservate solo dieci, appunto quelle riconosciute 130 anni fa da un mio grande predecessore e cioè Heinrich Brunn. Anche in questo caso Pausania non menziona il nome degli artisti, ma Plinio riferisce che erano quattro, tra cui il famosissimo scultore e pittore Firomaco di Atene, artista di corte degli Attalidi di Pergamo, che in un papiro egizio viene inserito come settimo nell’elenco degli scultori più famosi dell’antichità e cioè Mirone, Fidia, Policleto, Scopa, Prassitele e Lisippo. Ma mentre di questi scultori conosciamo un cospicuo numero di opere, di Firomaco fino a poco tempo fa non si conosceva quasi nulla, perché non era possibile distinguere se tra le dieci figure conservate del donario di Attalo vi fosse anche un’opera sua. Ciononostante trentasette anni or sono avevo osato proporre che l’artista della pittura pergamena tramandataci nei rilievi di alcuni sarcofagi romani poteva essere appunto Firomaco. Egli comunque aveva collaborato al Donario di Attalo e, come sappiamo sempre da Plinio, era pittore. E poiché tra il donario di Attalo e la pittura pergamena ci sono molti punti in comune, sembrava possibile che Firomaco rappresentasse il punto di contatto e che avesse sviluppato nella pittura un’iconografia ripetuta nel gruppo scultoreo rappresentante lo stesso evento storico. Naturalmente questa ipotesi non si poteva provare senza ulteriori elementi. Un destino favorevole ci ha restituito negli scavi di Ostia un’iscrizione che riferisce a Firomaco un capolavoro della ritrattistica antica e cioè l’immagine del filosofo Antistene, conosciuto in ben dodici repliche. Per la prima volta era possibile avere un’idea precisa dello stile di questo grande artista, che si presenta come un antico Michelangelo. Oso proporre questo paragone perché si può dimostrare inequivocabilmente come il grande cambiamento di stile che s’intravede nell’opera di Michelangelo tra la Pietà ancora quattrocentesca ed il barocco della Cappella Sistina sia dovuto ad un effetto lontano dell’opera di Firomaco.
Si domanderà come sia possibile provare una simile asserzione.
Dagli studi su Firomaco che s’inseriscono nell’ambito degli studi più vasti relativi ai gruppi scultorei ellenistici come quelli di Sperlonga e di Baia, ai quali ho dedicato buona parte della mia attività scientifica, è emerso che la più famosa opera dell’antichità pervenutaci, e cioè il gruppo del Laocoonte, è una creazione ellenistica dell’arte di Pergamo che non si può spiegare se non con l’influsso decisivo della geniale personalità artistica di Firomaco. Dopo la scoperta a Siracusa di una replica romana in marmo del capolavoro di Firomaco, cioè del suo Asclepio, è apparso chiaro come Firomaco sia stato il creatore dello stile del grande fregio dell’ara di Pergamo; ed il gruppo del Laocoonte si rifà direttamente al Gigante Alcioneo dell’ara di Pergamo. Il Laocoonte viene rappresentato come gigante perché in lui è innata una Hybris gigantesca, che osa opporsi alla volontà degli dèi. Essi avevano deciso di lasciar distruggere la città di Troia per rinnovarla nel popolo romano attraverso Enea, che era fuggito da Troia. Laocoonte possedeva, in quanto sacerdote, il dono della divinazione e avrebbe dovuto conoscere il futuro. Ma egli mette in guardia i Troiani dal cavallo di legno e minaccia di opporsi ai progetti degli dèi. Essi perciò lo devono annientare come avevano annientato i Giganti.
Il gruppo del Laocoonte non si può intendere senza seguire il cammino dell’arte pergamena, nella quale Firomaco ha un ruolo decisivo; egli e infatti il creatore del barocco antico come Michelangelo è divenuto, sotto l’influsso del Laocoonte da lui scoperto, il creatore del barocco cinquecentesco. Anche Raffaello non ha potuto sottrarsi alla grande personalità artistica di Firomaco, quando egli, nella sua ultima opera, la Battaglia di Ponte Milvio nelle stanze del Vaticano, ha collocato al centro della composizione un gruppo di due cavalieri in aspro combattimento, per il quale aveva trovato ispirazione appunto nel rilievo di uno dei menzionati sarcofagi con rappresentazione di battaglia.
E’ la profonda ammirazione per questi artisti, fra i più grandi di tutti i tempi, che mi ha dato la forza di continuare e di ricercare costantemente gli elementi della sopravvivenza dell’arte ellenistica in quella romana, anche attraverso notevoli sforzi fisici, come quando ho imparato a fare il sub per poter eseguire gli scavi sottomarini di Baia. E’ tale ammirazione che mi ha indotto ad estrarre dal fondo del mare le statue del palazzo-imperiale sommerso, a seguire l’immagine di Ulisse di Sperlonga che prende la sua fisionomia definitiva appunto nella cerchia di Firomaco, a cercare negli scavi di Villa Adriana la chiave per poter ricostruire ed intendere il gruppo di Polifemo. In questa ricerca si intrecciano l’arte greca e l’arte romana con quella italiana. Tali studi, è inutile negare, si possono seguire solo in Italia, perché, come ha detto il mio più grande predecessore, Ludwig Curtius, “Il cuore del mondo era greco. Roma lo ha tenuto in vita”.