Pisa, ottobre 2019
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Signore e signori, cari maestri e amici,
Confesso subito che per me non è facile dire qualche parola in questa occasione. Il discorso solenne di ringraziamento non è tra i generi letterari a me congeniali. Se poi consideriamo anche il mio limitato uso della lingua italiana e il mio carattere un po’ riservato, comprenderete la difficoltà di esprimere qui i sentimenti di sorpresa, di gioia e di profonda gratitudine che ha suscitato in me l’assegnazione del Premio Galileo Galilei nella sua edizione LVIII.
Ai colleghi che hanno formato il comitato e assunto la decisione di attribuire un Premio così importante proprio a me − Marco Cavina, Loredana Garlati, Bernardo Sordi e Claudia Storti− va quindi innanzitutto il mio semplice e sincero grazie.
Ho ricevuto la comunicazione dal Segretario Prof. Saverio Sani nello scorso mese di luglio. Mi trovavo allora a Madrid per consultare alcuni archivi, impegnato nella stesura di un libro sul progetto di codice civile del 1821, un codice che le Cortes volevano ma non riuscirono a condurre in porto, durante il secondo periodo di vigenza della Costituzione di Cadice. Quella celebre carta costituzionale, lo ricorderete bene, ispirò i moti liberali di Napoli e Torino proprio allora, mentre i deputati spagnoli avrebbero voluto approvare una “legge secondaria” (Bentham) per applicare e sviluppare i diritti che la costituzione proclamava. L’esperienza spagnola −monarchica e cattolica− diventava per tal modo italiana, così come, d’altro canto, qualcosa di italiano si poteva riconoscere nel Codice delle Cortes: cronologicamente vicino al Codice… del Ducato di Parma, anch’esso opera di un professore di giurisprudenza abituato alle routine del tardo ius commune ed espressione istituzionale dell’ordine privato di uno Stato ancora immerso in trasformazioni epocali.
La piacevole notizia del premio mi è arrivata, dunque, mentre la ricerca mi riportava alle fonti italiane e rileggevo con profitto la storiografia corrispondente. Ho poi appreso che Pio Caroni, riconosciuto maestro della storia delle codificazioni moderne, si era trovato nella mia situazione dieci anni prima, e ho pensato che ci fosse forse un legame, tematico almeno, tra l’incontro di oggi e quello avvenuto nel 2009.
Il premio sottolinea legami tra la cultura italiana e gli studiosi stranieri e mi spinge a ripercorrere alcuni miei itinerari in questo amato paese.
Sono stato collegiale di San Clemente a Bologna. Appartengo quindi alla nutrita proles aegidiana, condizione di cui vado fiero e di cui sono grato all’istituzione che mi ha permesso di frequentare l’Alma Mater Studiorum a metà degli anni Ottanta, e di tessere lì un universo di relazioni umane e professionali che ancora mi accompagnano. Ma lo ricordo anche come osservatore della cultura giuridica spagnola, poiché il Collegio di Spagna, come familiarmente lo chiamano i bolognesi, è stato un potente strumento dell’ “italianizzazione” che ha attraversato la scienza giuridica spagnola sin dalla fine del XIX secolo. Consentitemi, cari amici, di procedere per un attimo a documentare questa affermazione; in realtà, cerco di spiegare a me stesso, con un alibi professionale, i motivi per cui mi trovo oggi dinanzi a voi e sul punto di ricevere un riconoscimento tanto onorevole.
Poco o nulla doveva il progetto del 1821 al celebre Code Napoléon. Ma quel progetto d’ispirazione benthamiana infine non fu realizzato e la storia giuridica spagnola, dal 1830 in poi, si rivolse risolutamente al diritto codificato francese. Il Codice civile spagnolo del 1889, tutt’ora in vigore, è stato uno degli epigoni europei più tardivi del Code, e perciò giustamente criticato fin dalla sua apparizione; ma bisogna almeno ricordare che la cultura giuridica dominante in Spagna fu a lungo una cultura del codice senza il codice, una cultura che coltivò letteratura francese in terre di lingua spagnola lungo un’epifania prolungata sino alla fine dell’Ottocento. Ad esempio (e questo non è un esempio qualsiasi), i corsi universitari di maggiore diffusione erano testi molto elementari, redatti in brevi paragrafi di stile apodittico, numerati correlandoli agli articoli di una legge civile desiderata ma ancora inesistente, in cui le norme ‘giuridiche’ spagnole −tramandate niente meno che dal VII secolo − fornivano la sostanza “locale” di un discorso giuridico tracciato sul modello del Code. E naturalmente: la diffusione in Spagna della letteratura francese fu la conseguenza del successo dell’ideale codicistico napoleonico. Basta consultare la biblioteca dell’Ordine degli Avvocati di Madrid, il cui catalogo è stato pubblicato nel 1860, per verificare che la maggior parte dei libri che vi si raccolsero non aveva a che fare −in linea di principio− con il sapere giuridico, mentre la maggior parte delle opere che trattavano di diritto non era spagnola: l’antica lingua latina e l’esperanto moderno della giurisprudenza, cioè il francese, rappresentavano la maggioranza dei titoli professionali.
Sembra un paradosso, ma questo paesaggio così uniforme si frantumò proprio quando la francesizzazione della cultura giuridica spagnola giunse al culmine realizzando l’attuale Codice civile nel 1889. E proprio dai quelli anni prese avvio in effetti un’ondata di traduzioni di opere giuridiche italiane, che – in estrema sintesi – può essere posta in relazione con il Collegio di Spagna e la permanenza a Bologna di singoli studiosi e accademici. Nella biblioteca spagnola di testi italiani, nei periodi precedenti troviamo solo alcuni classici del momento illuminista (Beccaria, 1774; Genovesi, 1785; Filangieri, 1787-1789) e non poche edizioni di teologia morale e diritto canonico, comunemente tradotte dal latino, che forse dovremmo escludere dal discorso relativo alla contaminazione italiana della cultura spagnola, poiché più che testimonianze del pensiero giuridico italico, forniscono documenti della vocazione universale della Chiesa (Marco Mastroffini, 1859; Domenico Cavalario, 1831, 1835, 1835, 1837, 1838, 1838, 1841, 1846-1847, ecc; Giulio Lorenzo Selvaggio, 1846); spicca la presenza di Luigi Taparelli d’Azeglio (1866-1867, 1867-1868, 1871, 1871, 1884, 1887) e di Giuseppe Prisco (1866, 1879, 1884, 1886, 1886, 1887, 1891), due neoscolastici che avevano in Spagna il dono dell’ubiquità nelle opere giuridiche e nei concorsi a cattedra.
Mentre le ultime edizioni di questi autori videro la luce, altri nomi e altri testi arrivavano dall’Italia. Che gli spagnoli fossero abbastanza maturi da stabilire un’intensa comunicazione con i loro colleghi cisalpini e molti altri che vivevano ‘al di la e al di qua del Faro’ (Fiore, Cimbali, Majorana…) era stato notato già vent’anni prima, in una piccola rivista che ebbe vita breve ma intensa di dottrina: mi riferisco alla Escuela del derecho, ennesima tessera del mosaico internazionale disegnato da Mittermaier in nome della battaglia contro la pena di morte. Vi pubblicarono frequentemente, spesso offrendo vere primizie, penalisti della statura di Francesco Carrara, Pietro Ellero o Enrico Pessina. Sappiamo che dal fermento dei “classici” nacque poi la reazione “antro-positiva” e va sottolineato che la nuova e risonante Scuola criminale fu subito conosciuta in Spagna e divenne strumento per favorire la diffusione di nuovi saperi specialistici. Da noi si ammirava −secondo una tempestiva cronaca del Congresso di Antropologia Criminale (1885)− il “grandioso renacimiento cientifico operado en Italia a impulsos de sus nobles y levantados esfuerzos para la reconstrucción de su nacionalidad”. All’ammirazione seguirono ben presto le traduzioni: contando solo trattati e monografie più di cinquanta giuristi della giovane Italia unita furono disponibili per il lettore spagnolo tra il 1880 e il 1920: dal diritto penale e civile, al diritto internazionale (onnipresente, nel suo corpo fisico e nei suoi testi, il napoletano Fiore), al diritto processuale (Carlo Lessona, e il già citato Ellero), al diritto commerciale (Ercole Vidari, Davide Supino), insomma, alla filosofia del diritto (Giuseppe d’Aguanno, Emanuele Carnevale).
Devo tornare rapidamente al Collegio di Spagna, a quell’imponente e tranquillo palazzo vicino a Porta Saragozza, dove un certo Pedro Dorado Montero visse tra il 1885 e il 1887. Al giovane studioso era stata concessa una borsa dalla ‘Junta de Colegios’ di Salamanca per redigere una relazione sull’ “organización y estado de los estudios jurídicos en Italia, comparativamente á España”; ma Dorado Montero, che aveva seguito le lezioni di Enrico Ferri a Bologna, colse l’occasione per immergersi nel positivismo e per portare in Spagna un quadro tanto completo quanto aggiornato e informato del nuovo modo italiano di intendere il diritto. Lo pubblicò nel 1891 −non senza suscitare polemiche− col titolo El positivismo en la ciencia jurídica y social italiana.
Ordinario di Diritto penale a Salamanca dall’anno successivo (1892), Dorado ha fatto molto di più che diffondere tra i colleghi spagnoli gli autori e le tesi del positivismo. La prestigiosa Revista General de Legislación y Jurisprudencia iniziava un ambiziosa politica editoriale di apertura al mondo esterno e alla migliore dottrina europea, proprio quando il nostro criminalista rientrò in patria da Bologna. E durante il resto della sua non lunga vita, Dorado Montero coprì, tra l’altro, il ruolo di esperto della Revista per selezionare tradurre e commentare testi stranieri, in gran misura provenienti dalla letteratura giuridica prodotta in Italia.
Accanto al Dorado Montero troviamo altri illustri studiosi nella Revista General, come Jerónimo Vida, anch’egli collegiale di San Clemente poco prima del suo amico di Salamanca (1882), o il castigliano Rafael de Ureña, traduttore dell’evoluzionista Cogliolo (1898) ed eccellente storico del diritto; un altro di “quelli del Collegio” (1883-1884) legati alla General, fu l’avvocato e politico Isidro Pérez Oliva, che presto divenne noto come traduttore spagnolo dei Nuovi Orizzonti di Ferri (1887). Con numerosi contributi originali, tesi condivise, notizie di novità bibliografiche e ampie “riviste di riviste”, potremmo quasi concludere che i volumi della Revista General negli anni di fine secolo sembrano tratti (o ispirati almeno) da un foglio giuridico italiano.
Sebbene la ‘febbre delle traduzioni’ (Unamuno) si calmò in pochi anni, la presenza della scienza giuridica italiana si era frattanto definitivamente consolidata in Spagna; è significativo che il primo bando nazionale che attribuiva borse per condurre studi all’estero (1909) fosse destinato, nel caso della giurisprudenza, al miglior progetto di “Estudio, en Italia, de las nuevas orientaciones del derecho civil”. In ogni caso, il ruolo del Collegio di San Clemente nella diffusione delle dottrine italiane fu poi decisivo a partire dagli anni Venti e Trenta del Novecento, quando Alfonso Garcia Valdecasas (1923-1925), Miguel Royo (1929-1930), José Beltrán de Heredia (1934-1936) o Diego Espín Cánovas (1934-1935), vale a dire quando una nuova generazione di esperti −in particolare nel diritto privato− conquistò le cattedre universitarie mantenendo vivo fino ad oggi, anche attraverso i loro numerosi allievi, il collegamento tra le esperienze italiane e l’attività accademica nell’università spagnola.
Sono i punti della linea intellettuale che mi unisce agli antenati. Ho avuto alcuni insegnanti che sono stati figli di quella generazione. Ricordo con particolare affetto Manuel Olivencia, ordinario di Diritto Commerciale, che raccontava gli aneddoti del suo maestro Walter Bigiavi… Quel saggio e pittoresco professore di Bologna che ebbe l’idea di pubblicare, nella Trimestrale del 1954, alcuni demolitori “Scritti quasi-giuridici in onore di me stesso compiendosi il mio cinquantesimo anno”. Ma mi viene in mente anche un caro amico e compagno dell’epoca, l’internazionalista Miguel de Amores Conradi, che purtroppo morì ancora giovane poco dopo essersi trasferito ad una cattedra madrilena.
In verità Bologna, l’Italia in generale, rappresenta per me, signori, una tradizione di studi, ma anche una terra ricca di affetti. Quando sono tornato dal Collegio, e circostanze inaspettate mi portarono a Barcellona, la vita mi ha dato due preziosi doni, decisivi per il mio orientamento professionale. Nel 1988, durante un soggiorno in quella casa comune di noi storici del diritto offertaci a Francoforte dalla Max Planck Gesellschaft, ho stabilito una profonda amicizia con la allora giovanissima Cristina Vano, un rapporto che si è presto esteso, grazie alla tradizionale generosità meridionale, al nostro indimenticabile Aldo Mazzacane e al resto della famiglia. Devo dire en passant che la mia Italia passa anche per il Meno, perché lì ho potuto conoscere e ammirare il lavoro serio di Annalisa Belloni, Andrea Padovani, Paolo Cappellini, Carlotta Latini, Italo Birocchi, Massimo Mecarelli, Luigi Lacchè, Luca Loschiavo.. e tanti altri; lì ebbi la possibilità di ascoltare lezioni ed interventi di Ennio Cortese, Domenico Maffei, Antonio Padoa-Schioppa.
Un anno dopo, il professor Paolo Grossi, uno dei miei maestri più ammirati, mi ha convocato all’incontro Hispania. Entre derechos propios y derechos nacionales (1989). Ho poi iniziato un processo di apprendimento stimolato dal lavoro del Centro di Studi per la Storia del pensiero giuridico moderno al quale devo, credo di poter affermare, il meglio della mia prestazione professionale. A quell’incontro ne seguirono altri, oltre a soggiorni di lavoro e vari colloqui, tanto che, in realtà, Firenze fu il modo di incontrare numerosi colleghi, in competizione, in un certo senso, con un altro nodo strategico della rete di scambi scientifici che ho avuto la fortuna di godere: penso all’Istituto Storico italo-germanico di Trento, con le imponenti presenze di Piero Schiera e Paolo Prodi.
Questi ultimi due nomi mi riportano a Bologna, ma questo non ha molta importanza. Valgono soprattutto come un ottimo esempio delle personalità che ho frequentato, e che dimostrano che la professione comune è un modo molto adatto per stabilire i legami dell’amicizia. Amicizia quasi sempre a distanza. E ricordo allora, infine, una bellissima lezione appresa tempo fa da Pio Caroni, quando raccontava di un viaggio nel deserto marocchino. Pio incontrò un vecchio e intelligente contadino bereber, con il quale ebbe l’opportunità di condividere storie ed esperienze varie. Salutando il suo amico, non poteva nascondere la sua emozione, rimpiangendo che la vita non avrebbe permesso un nuovo incontro. “Mon ami”, rispose il contadino (e scusate la citazione a memoria), « il faut que les corps s’éloignent pour que les coeurs se rapprochent ».
Corpi lontani e cuori vicini. Questo prezioso sentimento è tutto quel che desidero condividere con tutti voi oggi. Grazie.