Pisa, ottobre 1966
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Per completare il Verbale della Giuria che decise di conferirmi il primo premio come storico straniero dell’Arte italiana, vorrei aggiungere, rispondendo alla richiesta del Prof. Tristano Bolelli, qualche notizia riguardo i miei rapporti con l’Italia e le ragioni che mi hanno indotto allo studio dell’arte di questo paese. I miei rapporti con l’Italia cominciano con l’interesse per un capitolo splendido della storia e della cultura ungherese, il regno di Mattia Corvino, amico di Lorenzo il Magnifico, che segnò nella seconda metà del Quattrocento il primo e più brillante episodio della diffusione del Rinascimento italiano fuori d’Italia. Già da giovanissimo, appassionato dall’architettura Rinascimentale del Palazzo Reale e della Biblioteca Corviniana, ricevetti un’idea piuttosto precisa anche di quel periodo dell’arte italiana e degli artisti italiani che avevano lavorato per il re ungherese. Più tardi, da studente che già aveva scelto la sua vocazione di storico dell’arte e a cui si imponeva lo studio della lingua italiana, la appresi da solo, nelle fredde mattine viennesi, servendomi della Divina Commedia di Dante, che leggevo tenendomi accanto una traduzione annotata, per semplificare la lettura di quest’opera che abbraccia, come contenuto, tutto il macrocosmo. Un terzo punto di contatto, il più importante, fu costituito dalle opere d’arte italiana, che potei vedere dapprima nel Museo e nelle collezioni private di Budapest, e in seguito in quelli di Vienna, di Monaco, di Berlino, di Dresda, ecc. Poiché a Budapest e a Vienna tra le scuole italiane è rappresentata più brillantemente quella veneziana, la mia preferenza andò naturalmente ad essa, prima del mio primo viaggio in Italia, quando potei prendere visione diretta degli originali di Michelangelo. Scelsi l’Università di Vienna in primo luogo per il grande Maestro che vi insegnava, Max Dvorak, e poi per un’opportunità unica che mi si offriva: poter vedere nel Museo quasi ogni giorno, riuniti in tre piccole stanze, diciassette capolavori del pittore che più mi appassionava, Pieter Bruegel il Vecchio, il sommo paesaggista della pittura europea. Ci si deve meravigliare di questo amore per un insieme davvero unico, che rappresenta più di un terzo dell’opera totale del Maestro? Ad ogni modo, davanti a queste immagini quadridimensionali del mondo passavo molto del mio tempo, e fu naturale per me scegliere come tema della tesi di laurea questo artista e con lui tutta la problematica dell’arte nordica. Si deve anche aggiungere che a quel tempo i pur altissimi esempi di opere italiane nella Galleria di Vienna non erano coerentemente riuniti secondo i maestri, come sono ora, ed anche questa fu una delle ragioni per cui l’impatto con Bruegel il Vecchio si impose con più vigore. L’occasione dei più importanti rapporti furono i miei viaggi di studio in Italia, dove ero interessato non solo dai tesori dei musei, dalle chiese e dai palazzi: anche il paesaggio italiano, così severo e dolce nello stesso tempo, specialmente in Toscana, mi interessava, come anche gli uomini, il loro aspetto, il loro costume, il loro carattere. Ricordo che la prima città tipicamente italiana dove giunsi, venendo dall’Austria, Trento, mi parve il Paradiso Terrestre: gente che non lavorava, seduta intorno a un tavolo, fuori dall’uscio di casa, a giocare a carte e a bere buon vino. Ma in Italia non mi condusse il primo viaggio d’istruzione all’estero, avvenuto nel 1921 e continuato nel 1922: in quell’occasione visitai Bruxelles, Anversa, Lovanio, Gand, Bruges, Liegi. Nell’anno successivo fui per cinque mesi prima a Parigi e alle grandi cattedrali francesi, poi in Spagna e a Lisbona, di seguito nella Francia del Sud e infine in Italia, per un primo approccio: Torino, Milano, Venezia. Il mio primo viaggio attraverso tutta l’Italia, che durò cento giorni, avvenne nel 1924. Fu durante questo viaggio che mi si rivelarono la Cappella Medicea a Firenze e la Sistina a Roma, e scoprii in me l’affinità intima che mi lega all’opera di Michelangelo e che determinò la mia scelta di dedicarmi principalmente allo studio di questo Maestro. Le sue grandi opere mi parvero infatti come la realizzazione di un mondo di perfezione fisica e spirituale che mi pareva l’ideale, per me inarrivabile. E’ questo amore la ragione che mi ha indotto a dedicarmi a Michelangelo. Subito dopo aver conseguito la laurea all’Università di Vienna (cosa che avvenne nel 1925, e non sul Bruegel, come avevo dapprima pensato, ma su Hieronymus Bosch) volli dunque stabilirmi a Roma, dove secondo i miei progetti sarei dovuto restare definitivamente, ma in effetti rimasi fino al 1938. Già allora volevo dedicare la maggior parte della mia vita allo studio e all’interpretazione delle opere e dello spirito di Michelangelo. Oltre a lui, mi appassionavano anche gli artisti italiani che, per così dire, ne preparavano l’apparizione, come Giotto, Masaccio, Piero Della Francesca, Filippo Lippi, Leonardo da Vinci, e quelli che ne seguivano la linea, trasformandola in senso personale come il Pontormo e il Tintoretto, per non menzionare che i più importanti. Lo stesso procedimento per ascendenza e discendenza si verificò per me anche nel caso dell’arte nordica, per tutto quanto nei Paesi Bassi preparava Pieter Bruegel il Vecchio, come il Maestro di Flémalle, i fratelli Van Eyck, Hieronymus Bosch, e per quanti ne proseguivano la lezione, come Rubens e Rembrandt. E lo stesso legame elettivo mi ha pure legato ad una particolare linea dell’arte francese, quella rappresentata da Watteau-Delacroix-Cézanne, e fra gli spagnoli a Velázquez. Tutti gli studi su questi artisti costituiscono le pietre virtuali di un edificio che io pensavo una volta di costruire, ma che è rimasto, michelangiolescamente, non finito. In seguito, benché il destino mi portasse in altre città d’Europa e poi in America, non mancai mai, salvo che negli anni della guerra, a un viaggio annuale in Italia. Nel 1964, quando mi trovavo a Princeton, mi giunse una grande sorpresa: una lettera d’invito, non sollecitata da me, ad essere Direttore della Casa Buonarroti a Firenze. Lasciando i miei impegni americani, accettai questo incarico, che mi faceva onore, e che mi permetteva di ritornare al focolare della mia vita, a Michelangelo e in Italia. Durante i quindici anni di direzione della Casa Buonarroti ho riorganizzato completamente e ordinato il Museo; ho potuto raccogliere, con i contributi della Casa Buonarroti attraverso non piccole difficoltà un nucleo di biblioteca michelangiolesca, ed ho eseguito lavori su Michelangelo come il Corpus dei disegni e una settantina di saggi. Questo è il coronamento di una carriera dedicata al Buonarroti. Nota: A questo punto il testo del Professor Charles de Tolnay è lasciato interrotto, a causa della sua repentina scomparsa. Tra le ultime cose che Egli mi disse, c’era la volontà di completare queste pagine, secondo lui troppo indirizzate a sottolineare i suoi rapporti intellettuali ed affettivi con l’arte dell’Italia, con qualche frase riguardo il suo legame con questa terra e con la sua gente. Non mi disse di più; ma quanti tra noi ne hanno conosciuto la grande anima possono completare da sé anche questo lavoro, michelangiolescamente non-finito. Paola Squellati Brizio