Pisa, ottobre 1994
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Signori, la storia di cui ci occupiamo, i soggetti che indaghiamo nel corso di una vita di ricerca seguono raramente una traiettoria rettilinea. Caso e necessità, contingenza e libere scelte si susseguono per dar loro un senso che spesso trova una sua qualche coerenza solo quando al tramonto di una vita gli si rivolge uno sguardo retrospettivo. Quando si incomincia – a 20 anni – sono soprattutto i nostri maestri diretti e le tradizioni universitarie del nostro Paese ad indirizzare il nostro cammino. Studiare la storia romana in Francia nel 1950, voleva dire soprattutto leggere ed ammirare le opere di Jérôme Carcopino e André Piganiol. Questi due “agrégés” di storia, già “normaliens” e “farnésiens”, erano i rappresentanti, pur con stili diversi, di una storia fondata su basi ben precise e essenziali. Per prima cosa, indispensabile, l’erudizione, cioè le armi dell’esattezza e della critica. Se la Francia, all’inizio dell’Ottocento, era in ritardo in questo campo in confronto alla stupenda fioritura tedesca, forse lo era solamente nell’ambito specifico della filologia critica: la stesura dei testi. Ma, fortunatamente per la storia, la Francia aveva tenuto sempre onorevolmente il passo per quanto riguarda lo sviluppo delle nuove discipline, l’epigrafia latina in primo luogo, l’archeologia, e subito dopo la papirologia. La nostra tradizione, da Leon Rénier a Cagnat e Holleaux fino a Carcopino, H.G. Pflaum e Louis Robert ci poneva allo stesso livello, se così posso dire, dell’universo mommseniano. Da qui, naturalmente, una certa predilezione per questa “grande storia” istituzionale, amministrativa, politica che, ad ogni modo, resterà sempre per me la più importante. Ma vorrei ricordare in secondo luogo che la peculiarità degli studi storici in Francia (più precisamente della storia universitaria), cioè gli stretti legami con la geografia, avevano da tempo preparato i nostri storici (non dico tutti i nostri “classicisti”) a tutte le aperture, di cui si fa credito, con qualche esagerazione, a “non so quale nuova storia”. Quale più bel libro di storia economica romana che La loi de Hiéron di Carcopino che data al 1913 o di storia della cultura che il Saint Augustin o il Mousikos Aner del suo allievo H. Marrou, scritti negli anni ’30? Quanto al mio maestro William Seston (del quale non posso parlare senza affetto e devozione) era allievo e successore alla Sorbona di Carcopino. Era in apparenza, nei suoi scritti, uno storico delle istituzioni e della religione di ferma impostazione classica, un epigrafista austero. In realtà, le sue curiosità o i suoi interessi più personali e profondi, molto più originali, hanno fin dall’inizio orientato i miei. E’ a lui che devo l’impulso e gli incoraggiamenti che mi hanno portato ad impegnarmi su argomenti che ho cercato in seguito di rinnovare. Per quasi trent’anni, William Seston ha sviluppato il suo pensiero e i suoi lavori intorno a qualche problema fondamentale che nuovi documenti avevano per l’appunto appena riproposto: la restaurazione dell’ordine equestre sotto Augusto nella antica “organizzazione corporativa” (per dirla con il Mommsen) e le successive riforme dei comizi elettorali (mi riferisco alle rivelazioni della Tabula Hebana); il processo continuo e maestoso dell’estensione della cittadinanza romana, di cui si tratta di comprendere sia il significato che il contenuto “esistenziale” (mi riferisco alle rivelazioni della Tabula Banasitana). Con la generosità dei grandi scienziati e dei grandi maestri, mi propose con l'”ordine equestre” l’angolo di approccio che forse meglio permetteva di affrontare e unificare tutti questi problemi: era, mi disse, l’argomento di cui lui stesso avrebbe voluto occuparsi. Ma vedete i malintesi e il caso che presiedono alle nostre scelte e regnano nei nostri studi! Vittima delle idee ricevute, vidi nell’ordine equestre un gran soggetto di storia economica, credevo di trovarmi di fronte ai “capitalisti” romani e di potere, con le società dei pubblicani, sondare i misteri di una specie di stock exchange antico! Constatai, alla verifica dei fatti, che prima era necessario sgomberare il campo e comprendere cosa fosse un ordo nell’organizzazione civica, politica e sociale della città romana, e poi arrivare alle finanze e all’economia. Devo dire la verità che la cosa un poco mi irritò. E che le chiavi di accesso che l’ideologia o la moda mi proponevano (o mi imponevano) allora per comprendere la società (“modi di produzione” o “formazioni sociali”, classi sociali, lotta di classe) si spezzavano una dopo l’altra, davanti a dati di fatto che, riguardo le società antiche, si imponevano a me con decisione. Non rimpiango certo di aver richiamato l’attenzione sul peso e la permanenza dell’organizzazione ufficiale degli ordines che informa, in modo così pregnante, la società romana lungo tutto il suo corso; dopo qualche sensibile deviazione anacronistica (quella di Rostovseff stesso), questo era certo necessario. Ma presentivo (fin d’allora) che tra società di ordine e società di classi non era questione di operare una scelta. Gli ordines esistevano formalmente nel diritto (pubblico e privato), nell’immagine che la società voleva dare di se stessa. Esistevano perché esprimevano la volontà di modellare la società civile sulla società politica, due cose che in verità gli antichi non volevano o non sapevano disgiungere. E quindi la costituzione spontanea di gruppi che riflettevano condizioni o interessi comuni in materia economica non “si sostituisce” a una organizzazione corporativo-giuridica che sarebbe anteriore ad essa; non è neanche “in contraddizione” con essa: o ci si adatta, oppure la modifica senza mai – fino a che dura quella che chiamiamo storia romana – metterla in causa o eliminarla. Roma non ha conosciuto né Poor Law, né dichiarazione dei diritti dell’uomo, né la notte del 4 agosto. La direzione che successivamente la mia ricerca ha seguito è proprio scaturita da questo preliminare di cui l’ordine equestre era stato l’occasione o il pretesto. Già, per il suo aspetto prosopografico, l’indagine sull’ordine equestre mi aveva fortunatamente evitato qualsiasi romano-centrismo; nel recensire gli equites, nell’ultimo secolo della Repubblica, notai che la loro origine era nelle colonie e nei municipi dai quali aveva preso inizio la romanizzazione dell’Italia. L’inventario delle loro proprietà, delle loro attività, della loro parentela, delle loro reti di relazioni rivelava tutte le risorse e la complessità di questa Italia profonda che l’estensione della cittadinanza romana aveva trasformato in un’altra Roma, una “patria secondo diritto” sovrapposta alla “patria secondo natura”, come diceva Cicerone. Questo orientamento delle mie ricerche verso l’Italia ebbe la fortuna di coincidere con il verificarsi di un fenomeno scientifico di ben più ampio respiro: lo sviluppo impressionante delle scoperte e degli studi – dovute principalmente, come è naturale, agli studiosi italiani – di storia locale italiana. Questi studi hanno capovolto i dati della documentazione in nostro possesso e i nostri punti di vista, e forse principalmente proprio per l’epoca repubblicana e l’Alto Impero. Essi si esprimono in un’abbondanza di pubblicazioni locali (periodici e monografie) che, da una parte, ne attestano il vigore, ma dall’altra, devo dire, ne rendono l’accesso sempre più difficile fuori d’Italia (quale biblioteca può vantarsi di possederli tutti questi studi?). Ragione di più per i Francesi, a dir la verità, di venire a Palazzo Farnese. Questa quasi-nazione, l’Italia romana, tuttavia, conservava la forma e le istituzioni di una città-stato antica. Ero già un lettore di Fustel de Coulanges. Come non essere affascinati da questo modello d’organizzazione sociale e politica, di cui lo Stato romano presenta una variante insieme tipica e singolare? Il modello greco non era mai riuscito a superare l’orizzonte limitato di un territorio ristretto e familiare. A Roma questo superamento, al contrario, si opera sotto il segno e il nome di questo ius civitatis che diventerà al limite lo ius civile di un Impero Universale. Avevo cominciato con l’interrogarmi su quale fosse concretamente nelle attività e nella vita di relazione di ciascun cittadino il peso dell’appartenenza, insieme obbligante e liberatrice, a questa civitas. Ho tentato di misurare nel volume Il mestiere di cittadino la distanza tra l’immagine e la realtà, la norma e il vissuto. Ma soprattutto forse di capire la natura e la ragione di questo sistema originale dove confluivano e si controbilanciavano, in linea di principio, per ogni individuo, le costrizioni e i vantaggi, i diritti e i doveri della partecipazione alla vita collettiva, nei campi essenziali e, direi, fondamentali della guerra, delle finanze e del potere. Per far funzionare – non senza difficoltà – questo sistema, si incontra, al centro di tutto, il grande marchingegno del census, il solo che permettesse l’inventario delle risorse e la ripartizione dei ruoli. Tutto ciò che ho cercato di scrivere più tardi, in storia romana, non era che la logica conseguenza di questo grande quesito: come si è passati da un Inventario della città a quello del mondo, con la sostituzione di una percezione geografica ad una percezione umana di spazio, cosa questa che provoca grandi cambiamenti nelle tecniche intellettuali e nelle pratiche di potere. Questa era in ogni caso l’eredità di W. Seston. Era una persona modesta e non era uomo di potere, non faceva parte di commissioni né di giurie, né partecipava assiduamente ai congressi. Ma la sua rete di relazioni e di amicizie scientifiche era la migliore che ci potesse essere. A casa sua, ebbi la fortuna di incontrare, ancora molto giovane e indegno, i suoi amici: D. van Berchem e F. de Visscher, Ronald Syme e Santo Mazzarino, Edoardo Volterra e Andreas Alföldi, A. Momigliano e Francesco De Martino che divennero tutti miei maestri. Ma naturalmente la migliore occasione, se è possibile ottenerla, per un giovane francese che aspiri a consacrare la sua vita a questo genere di studi, è di essere ammesso alla Scuola francese di Roma. Felice invenzione quella di questi istituti stranieri (oggi raggruppati nella nostra Unione) che dobbiamo al fervore degli Iperborei, alla perseveranza dei grandi fondatori dell’Istituto di Corrispondenza archeologica, e al mecenatismo illuminato di qualche sovrano. Sostituiscono, se così posso dire, quei conventi stranieri dove era ricevuta e ospitata un tempo a Roma la folla dei pellegrini. Perché sono proprio dei pellegrini, ma di un’altra specie, questi giovani studiosi di tutti i paesi – ma soprattutto del Nord – che, da quasi due secoli, vengono nella città eterna per ritrovare il centro di ogni cosa. Vengono, innanzitutto, per consultare sul posto le grandi e mirabili risorse degli archivi, delle biblioteche, dei musei romani che del resto non illuminano solamente, come è naturale, la storia di Roma e dell’Italia, ma molto spesso anche quella del mondo. Perché attraverso la Roma antica, attraverso la Chiesa cattolica, attraverso il Rinascimento ma anche al tempo dell’Illuminismo o in tempi più vicini a noi, il mondo è stato molte volte italiano. Ma questi giovani vengono a Roma anche per trovare tutto ciò che permetterà loro – è la nostra speranza – di uscire dallo stretto ambito dei loro libri e dalla loro torre d’avorio: paesaggi di luci, visi o anzi “mani amiche” (come dice ne Le bonheur fou di Jean Giono, la Duchessa Pardi); per farla breve, ciò che consentirà loro di diventare dei veri uomini… tale era e tale è ancora la virtù della Scuola francese. Nel 1957, quando arrivai alla Scuola francese di Roma, la dirigeva Jean Bayet. Questo grande filologo, storico della letteratura e della religione romana, era stato a Parigi un professore severo che incuteva timore. A Roma fu, per i miei colleghi e per me, il più amabile e il più benevolo dei Direttori. Fu, come doveva essere, l’intermediario per conoscere a Roma i maestri italiani e stranieri che dovevamo consultare per le nostre ricerche. In quegli anni, grazie a lui, ho potuto essere accolto nel migliore dei modi da Attilio Stazio, Francesco Panvini Rosati o Claudio Sestieri, da Lily Ross Taylor o J. B. Ward-Perkins. Ma soprattutto, grazie a questo primo soggiorno romano, mi fu possibile allacciare i primi legami di lavoro e di amicizia con Ettore Lepore e Gianfranco Tibiletti, sodalizio che doveva durare fino alla loro morte, purtroppo prematura… Il primo, di cui mi aveva colpito la riabilitazione del pensiero politico e filosofico di Cicerone, mi ricevette in campagna presso Salerno e fu un incanto. Il secondo rispose alla mia lettera, mi fissò un appuntamento, chiamandomi Egregio professore, cosa che mi turbò non poco. La giovinezza e la precocità di questi maestri mi stupì. Ce n’era un terzo che conoscevo solo attraverso la sua opera già impressionante e che mi fece l’onore di inviarmi tutti i suoi estratti. L’ammiravo talmente, i suoi libri erano una guida così sicura e preziosa per il mio lavoro quotidiano che io immaginavo un professore carico tanto di anni che di scienza. Quando ho fatto la tua conoscenza qualche tempo dopo, caro Gabba, ho avuto la sorpresa di incontrare un “giovanotto” press’a poco della mia età, ma un giovanotto che era in anticipo di ben 3 lunghezze. Vorrete scusarmi, spero, di non aver saputo resistere al piacere nostalgico di evocare gli anni del mio apprendistato, i miei approcci successivi a Roma e all’Italia. Eccomi ora, a mia volta, a Palazzo Farnese come direttore con le gioie e le inquietudini che questo comporta e che potete immaginare. Perché nel posto che occupo mi è necessario, per prima cosa, continuare degnamente l’opera di coloro che, maestri e amici – Jean Bayet, Pierre Boyancé, Georges Vallet (al quale avete fatto prima di me l’onore meritato di questo premio), Charles Pietri – mi hanno preceduto. E’ necessario che io cerchi di dare alla scienza e prima di tutto ai giovani studiosi che si affidano a noi, gli stessi servigi che i nostri predecessori ci hanno dato a loro volta. Ho parlato poco fa di tutti quelli che, scrittori del passato o maestri del presente, da Stendhal a Giono, da Cicerone a Mommsen o W. Seston, erano stati per me gli intermediari verso un’Italia immaginaria e ideale prima che l’ascesi del viaggio (posso dire pellegrinaggio?) mettesse i colori – e le complessità – della vita su queste immagini. Le mie due Italie sono ormai riunite. Ma a mia volta devo sforzarmi di essere l’intermediario, se possibile efficace e discreto, tra i miei allievi e l’Italia che essi studiano e nella quale anch’essi devono immergersi. Molti di loro ormai, già borsisti o membri della Scuola francese di Roma, si trovano attorno a me. Qualcuno vi esercita importanti funzioni. Quello che vedo mi rassicura: le loro relazioni di lavoro e di amicizia con gli studiosi e colleghi italiani sono eccezionalmente intense e proficue. Meglio ancora: quante pubblicazioni collettive, collaborazioni incrociate che testimoniano della conoscenza reciproca che abbiamo dei nostri lavori comuni! Ecco l’impegno futuro dei nostri studi che, al tramonto della mia vita, mi rassicura pienamente. Il computer, il minitel, la televisione possono rendere più facili, quasi istantanei, gli scambi di informazione: non rifiutiamone i vantaggi. Ma tutto questo è niente se non si può, in un giorno d’ottobre, come Stendhal, sedersi “sul monte Gianicolo”, sui gradini di S. Pietro in Montorio e fare la “scoperta imprevista” di avere quasi cinquant’anni – o sessantaquattro!… – consolarsene “immaginando Annibale e i Romani”: “uomini più grandi di me sono morti…” …ed esserne perfettamente appagato.