Pisa, ottobre 1990
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Desidero innanzitutto rivolgere parole di riconoscenza e gratitudine al professor Bolelli, alla Fondazione Premio Galileo Galilei e ai Rotary Club Italiani per l’alto onore conferitomi oggi. Mi è stato chiesto di esporre brevemente la ragione per cui scelsi di occuparmi della storia economica e sociale dell’Italia medievale. Oggi – guardando indietro ai miei oltre trentacinque anni di ricerca – credo di poter facilmente fornire risposte. E’ invece meno facile spiegare perché, da giovane studente, io intrapresi la via che ho poi seguito. Quattro sono le ragioni per le quali oggi faccio quel che faccio: l’abbagliante ricchezza della tradizione storica italiana; l’importanza del Medioevo all’interno di questa tradizione; lo speciale interesse rappresentato dalla storia economica e sociale; e la straordinaria abbondanza di documenti degli archivi. Non c’è assolutamente bisogno che io sottolinei al pubblico che ho davanti la ricchezza dell’esperienza storica italiana. Si tratta del paese culla di due istituzioni che hanno plasmato l’intera civiltà occidentale: l’antico impero romano e la chiesa cristiana latina. L’arte rinascimentale italiana rieducò e guidò il gusto estetico di tutta l’Europa, mentre il pensiero e la filosofia di questo stesso periodo insegnarono a tutti gli europei a guardare se stessi, le proprie società e strutture sociali, in modi sconosciuti prima di allora. Questo elenco di conquiste potrebbe con facilità continuare all’infinito. Mi sono spesso soffermato a pensare sui motivi per cui questa penisola venne ad avere una parte così grande nella storia culturale europea. A tale proposito, vi riferisco alcuni miei pensieri, così come mi sono venuti alla mente. L’Italia era una terra poco favorita dalla natura. La povertà naturale di questa terra può tuttavia esser stata l’origine e la causa di quegli stimoli psicologici che portarono gli abitanti a coltivare il loro talento e le loro doti spirituali, la loro cultura intellettuale e artistica per compensare le privazioni materiali. Nelle biografie di molti grandi uomini è stato spesso notato come condizioni apparentemente svantaggiate di nascita e di carattere materiale si siano poi tramutate in vantaggi. Lo stesso può essere accaduto per un’intera nazione. Lo sviluppo di una ricca cultura intellettuale può anche avere indirizzato gli italiani a far buon uso di ciò che è indubbiamente la loro principale risorsa naturale: la posizione geografica del paese. Situata nel mezzo del Mediterraneo, la penisola gode delle possibilità di agevoli contatti con i tre continenti europeo, africano e asiatico. Storicamente, l’Italia ha fatto da ponte tra le regioni poste ad occidente e a settentrione di essa, e quelle situate a meridione ed oriente. Questa posizione costituì la base concreta per l’espansione dell’antico impero romano e, allo stesso modo nel Medioevo, per l’impero commerciale dei mercanti italiani. In campo economico, gli italiani hanno tradizionalmente importate dall’estero materie prime e, grazie alla loro manodopera specializzata, le trasformavano in prodotti finiti esportati poi all’estero. Il commercio e il mestiere di cui erano capaci hanno così compensato la povertà dell’ambiente naturale. E dove le merci viaggiano con facilità, le idee fanno altrettanto. L’Italia ha spesso fatto da intermediario culturale accogliendo flussi d’idee originatisi altrove per irradiarli in seguito in altre direzioni. Basta soltanto pensare alla filosofia greca o al cristianesimo, che l’Europa conobbe grazie alla mediazione italiana. Similmente, nel tardo Quattrocento, l’Italia accolse e tramandò studiosi e testi greci provenienti da Bisanzio. Per l’Italia sono stati perciò migliori i tempi delle frontiere aperte e della libera circolazione di merci e di idee, vale a dire l’antichità, il Medioevo, il Rinascimento e i tempi odierni. L’Italia ci appare, dunque, anche come ponte di un altro tipo: un ponte nel passato. Al pari di un’ampia autostrada, la storia italiana può portare coloro che desiderano conoscere le origini della civiltà occidentale indietro attraverso i secoli passati, fin dentro quelle grandi età di formazione che sono l’antichità classica, il Medioevo e il Rinascimento. Della lunga storia d’Italia, il Medioevo è segmento di primaria importanza. In America, l’interesse verso il Medioevo italiano è stato sempre di gran lunga inferiore a quello suscitato invece dall’antico impero o dal Rinascimento. Lo studio della civiltà occidentale, in America, procede tradizionalmente secondo quest’ordine: dapprima si prende in considerazione la Roma Antica, poi le invasioni barbariche, l’impero carolingio, l’impero germanico. L’Italia medievale e tutta l’Europa del sud sono praticamente assenti, vengono cioè saltate, e l’attenzione degli studiosi si rivolge nuovamente all’Italia soltanto col periodo del Rinascimento. Ma il Rinascimento stesso è da sempre presentato in America quasi esclusivamente come movimento artistico ed intellettuale. Il mio curriculum di studi inferiori non annovera quasi nulla del Medioevo italiano. Esso era per me come per la maggior parte degli americani della mia generazione terra incognita. Proprio per questa ragione l’età di mezzo rappresentava per me un’area di interesse speciale: tutti gli studiosi sperano di scorgere qualcosa di nuovo e le possibilità sono ovviamente maggiori di fronte a un territorio ancora non esplorato a fondo. La storia economica e sociale allettava per una ragione simile. Gli storici che hanno preceduto quelli dell’attuale generazione si sono occupati estesamente dei grandi eventi e delle grandi figure che in essi presero parte. Essi hanno pressoché ignorato la vita quotidiana e senza eventi della gente comune. Essi hanno anche negletto i processi secondo i quali uomini e donne si guadagnavano il pane, si sposavano, mettevano su casa, allevavano i figli, e si preparavano alla morte. Un cambiamento cruciale nell’orientamento delle discipline storiche si è poi verificato ed ha investito tutte le epoche e i campi della storia. Attualmente molti storici indagano proprio i processi riguardanti la vita comune e quotidiana. Senza tralasciare quello che di grande e di potente è avvenuto nel passato, gli storici cercano tuttavia di studiare questi aspetti all’interno di un contesto, quello dell’intera società. Con lo studio di ciò che concerne sia il popolo minuto, sia il popolo grasso e i magnati, essi aspirano a tracciare un quadro del passato dell’umanità che risulti più equilibrato e più umano. Le documentazioni risalenti al periodo medievale italiano si prestano in maniera particolare all’indagine della vita della gente comune e della loro quotidianità. Disponiamo di una enorme quantità di atti privati pervenutaci dal settimo secolo. Si tratta, per lo più, di contratti di vario tipo: la maggior parte riguarda la compra-vendita di terra, contratti d’affitto, scambi e simili; in altri casi gli atti registrano eventi della vita privata – matrimoni, emancipazioni, testamenti e inventari. A cominciare dal dodicesimo secolo appaiono in numero sempre crescente i documenti commerciali. Riceviamo, in tal modo, una prima completa idea di quello che oggi si suole chiamare “la rivoluzione commerciale del Medioevo”. Vi sono poi i censimenti. A partire dalla metà del tredicesimo secolo, il governo delle varie città-stato italiane condusse censimenti sempre più dettagliati della popolazione. Nell’epoca attuale, in cui l’interesse degli storici si rivolge prioritariamente alla gente comune del passato, la popolazione dell’Italia medievale gode di un’attenzione privilegiata, probabilmente unica rispetto alle altre d’Europa. Di queste che ho elencato come buone ragioni per la scelta di studiare l’economia e le società medievali italiane, non ero affatto consapevole trentacinque anni fa. Soltanto oggi sono in grado di vederle nitidamente come tali. Trentacinque anni fa mi sono trovato a fare quello che tutt’oggi faccio, in larga parte per un colpo di fortuna e grazie all’influenza di alcuni memorabili maestri. Sono nato in California, a San Francisco, città – ho notato molti anni più tardi – battezzata con il nome di un santo italiano del medioevo. Vivendo in California gli anni in cui non conoscevo ancora l’Italia, non potevo accorgermi che il paesaggio californiano – col suo clima mediterraneo – ricorda quello italiano. Persino i nomi delle località californiane, sebbene dati dagli spagnoli, echeggiano quelli italiani. Di queste cose mi resi conto quando venni in Italia per la prima volta, nel Cinquantaquattro. E riscontrando questi parallelismi, queste somiglianze, nella mia prima visita all’Italia, ebbi la piacevole sensazione di un ritorno a casa. Ho studiato a San Francisco in scuole di Gesuiti sino al 1951, anno in cui ho conseguito il primo grado universitario americano, il baccalaureato, come si suole ancora – da noi, in America – indicare questo primo titolo accademico. Il programma di studi delle scuole gesuite era allora molto tradizionalistico e seguiva praticamente la stessa ratio studiorum che l’Ordine – fondato nel Rinascimento – aveva definito già allora ispirandosi ai valori di quell’opera. Il curriculum privilegiava perciò gli studi classici latini e greci. L’istruzione qui ricevuta mi fruttò una buona conoscenza tecnica di quelle lingue antiche assieme ad una profonda ammirazione per la cultura antica e mediterranea. Per intraprendere poi gli studi universitari superiori, di specializzazione, lasciai la mia città natale per recarmi sulla costa orientale dell’America, che rimane tuttora il cuore culturale del paese. Inizialmente avevo intenzione di darmi allo studio della storia bizantina e a questo scopo mi iscrissi all’Università cattolica nella città di Washington. Benché l’Ellade antica mi interessasse, l’Ellade medievale e Bisanzio mi sembravano campi trascurati, ed io ero desideroso di avviarmi su quelli che avevo inteso essere territori non ancora battuti. Mi occupai degli studi bizantini per un anno conseguendo il titolo accademico di “master of arts”. Sebbene non abbia poi continuato su quella strada per diventare bizantinista, attribuisco oggi a quel mio viaggio ad est il valore di un salutare ampliamento di orizzonte. Non continuai su quella strada perché fui messo in guardia dal fatto che i posti di lavoro nel campo della storia bizantina erano pochi. Avrei dunque fatto bene a rivolgermi ad altri studi se speravo di trovare un impiego. Riluttante ad abbandonare il Medioevo, decisi di studiare la storia di quello stato successore di Bisanzio che è la Russia. Con questa prospettiva mi iscrissi alla Yale University dove scoprii che le fonti russe medievali rimasteci erano scarsissime e difficilissime. E i requisiti ideali dello studente che si accingeva a questa impresa avrebbero dovuto includere la conoscenza non soltanto del greco e del russo, ma anche dello slavo ecclesiastico, dell’arabo e del turco. Inoltre, l’archeologia, più che la filologia, si presentava come territorio promettente e ricco di scoperte, ma l’archeologia era allora preclusa agli americani. Nel 1952 conobbi a Yale un professore venuto dall’Italia, Roberto Sabatino Lopez. Lopez, come molti di voi certamente sapranno, aveva lasciato l’Italia nel 1939 a causa delle leggi razziali. Dopo aver ottenuto un titolo accademico americano (di cui non aveva certo bisogno uno studioso affermato come lui), Lopez aveva trovato lavoro negli Stati Uniti e gli era stato infine offerto d’insegnare alla Yale University, dove trascorse l’ultima parte della sua lunga e produttiva esistenza. Egli portò con sé in America e a Yale quello che allora era un nuovo interesse verso l’economia medievale, verso il commercio e le città del Medioevo. E portò anche un contagioso entusiasmo per quelle cose di cui si occupava. Mentre io, che all’epoca studiavo ancora la Russia medievale, lamentavo la scarsezza delle fonti russe, Roberto Lopez, nel corso del suo seminario, lamentava la mole insormontabile dei documenti medievali italiani. Gli studiosi non si erano ancora bene addentrati in questa massa di documenti e ancor meno in quella relativa alla storia economica. Fu soprattutto l’entusiasmo che egli irradiava, oltre al valore e al vigore di ciò che diceva, a persuadermi di abbandonare il campo di specializzazione già scelto per sostituirvi quello della storia economica dell’Italia medievale. Su consiglio di Lopez, venni a Pisa nel 1954 come borsista Fulbright per studiare gli atti notarili di questa città, che egli aveva per primo esaminati. Io, mia moglie Patricia, e mio figlio Maurizio – che ha festeggiato qui il suo primo compleanno – passammo un anno a Pisa. Eravamo i soli americani ad abitare nella città ed eravamo perciò identificati come “gli americani”. L’esperienza ha insegnato a noi tutti che l’Italia era una terra da tesaurizzare per il suo presente quanto per il suo passato. La ricerca svolta a Pisa costituì la base della mia tesi di dottorato, grado che conseguii a Yale nel 1956. La mia tesi fu più tardi pubblicata in inglese e in italiano. L’esperienza fatta in Italia mi aveva convinto della ricchezza delle fonti medievali ma anche della necessità di ideare metodi efficienti per l’interpretazione delle loro informazioni. Doveva essere possibile individuare determinati cambiamenti nel corso del tempo nell’ampia successione di atti privati del periodo centrale del Medioevo. Tabulando una serie di risposte concernenti le operazioni di pagamento – cioè se effettuate in moneta o con sostituti di questa – concernenti gli affitti – se fissati in danaro, natura o manodopera – riguardanti la vendita di terre – se procedeva per appezzamenti o per interi terreni – o, ancora, informazioni sui firmatari dei contratti – se si trattava di uomini o di donne e se si identificavano per mezzo del patronimico o matronimico, o, infine, sui proprietari terrieri menzionati negli atti – se uomini, donne o ecclesiastici – era possibile gettare luce su tendenze verificatesi nel corso di lunghi periodi di tempo. Incolonnando queste e simili domande con le relative risposte, si potevano stabilire oggettivamente certi andamenti ed orientamenti. E questi ultimi avrebbero fornito gli strumenti per trarre conclusioni più sicure riguardo ai cambiamenti economici. Iniziai questo lavoro semplicemente incolonnando con la matita una serie di cifre relative ai pagamenti effettuati in danaro e contrapponendoli a quelli effettuati non in danaro e così via. Negli anni Sessanta, due nuovi fatti mi incoraggiarono a proseguire questo tipo di lavoro. Il primo fu la crescente applicazione dei metodi quantitativi al materiale storico. Mentre i metodi che io stavo adottando potevano soltanto suggerire tendenze ma non stabilire risultati, i nuovi metodi andavano dimostrando che, allora come mai prima, si potevano condurre analisi statistiche su una maggiore varietà di documenti. La seconda novità degli anni sessanta fu l’avvento del computer. Ciò prometteva un notevole alleggerimento nel lavoro terribilmente noioso della tabulazione. Bisognava però convertire il materiale documentario in una forma che il computer potesse leggere e, superata questa fase, il computer avrebbe permesso di studiare i dati in modi pressoché illimitati. Computer e propensione medievale alla documentazione erano fatti l’uno per l’altra e hanno contratto un matrimonio felice. Il primo frutto nell’utilizzare la statistica per l’analisi delle documentazioni medievali fu raggiunto nel 1966, con il progetto di studiare col computer il grande Catasto fiorentino del 1427-28. Il documento era ben noto agli storici, ma la sua mole aveva sempre rappresentato un ostacolo per ogni studio proficuo. Esso contempla 60.000 famiglie e 260.000 persone di quasi tutte le terre toscane governate da Firenze, Pisa inclusa. Io avevo avuto occasione di consultare il Catasto la prima volta al tempo dei miei studi su Pistoia nel Medioevo e nel Rinascimento. Ricordo ancora lo stupore che provai nel trovare registrati in quelle pagine non soltanto il nome dei pistoiesi, bensì le loro età, i legami di parentela all’interno della famiglia e i loro averi. Terminato lo studio su Pistoia, decisi di intraprendere un’analisi dell’intero registro. Ciò avrebbe ovviamente richiesto finanziamenti e sostegni. In un incontro nel 1966, Fernand Braudel, allora presidente della Sesta Sezione della “Ecole Pratique des Hautes Etudes”, propose un’iniziativa di lavoro comune franco-americano. Quell’anno io mi trovavo con la mia famiglia a Firenze, in una casa che l’alluvione di novembre ci costrinse a lasciare. Mia moglie era in stato di gravidanza e a febbraio partorì la nostra prima bambina, l’ultimo dei sei figli che abbiamo. Le fu dato nome Fiorenza in onore della città natale. La catastrofe dell’alluvione e l’attesa del figlio avevano bloccato ogni mio lavoro per parecchi mesi. All’inizio del 1967 mi misi d’accordo con i francesi per studiare il Catasto col computer. Christiane Klapisch-Zuber dirigeva la parte francese del progetto. Il compito maggiore consisteva nel convertire la documentazione del Catasto in una forma computerizzabile. Per realizzare questa conversione e per interpretare i risultati, vennero impiegati dieci anni. Pubblicammo i risultati in francese nel 1978, in inglese nel 1985 e in italiano in 1988. Ma vorrei menzionare una cosa interessante emersa al termine di questa impresa. Le informazioni sulle persone e i beni, che i fiorentini del Quattrocento raccoglievano, erano così vaste e numerose che nessuno dei loro contemporanei – per quanto ne sappiamo – è stato capace di calcolare il totale finale. La somma totale del numero dei cittadini toscani e del valore dei loro averi ha richiesto l’ausilio di un moderno computer. E il fatto che il computer sia stato capace di calcolare i totali di un registro medievale, mentre i contemporanei non furono in grado di farlo, offre da solo prova convincente della parte che la macchina ha da svolgere persino nella storia medievale. Mi auguro, inoltre, che la nostra analisi dimostri che anche la quantificazione ha molto da offrire al campo della ricerca medievale. A chiusura, permettetemi di rivolgere i miei più sentiti ringraziamenti a coloro che mi hanno guidato soprattutto nelle fasi iniziali della mia carriera. Al compianto professor Roberto Lopez sono particolarmente riconoscente per gli strumenti tecnici che mi ha fornito, per la sua accorta guida e, specialmente, per l’entusiasmo e l’amore che egli nutriva verso il suo lavoro il quale è divenuto – nel vero senso della parola – anche il mio. Io tento di trasmettere queste qualità ai miei studenti. E mi riterrei fortunato se in ciò raggiungessi la metà di quello che lui ha realizzato.