Pisa, ottobre 2021
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Non nasconderò la profonda emozione che ho provato quando ho appreso dalla comunicazione inviatami dal Professor Saverio Sani, Segretario del Premio, a nome del Presidente della Fondazione, il Professor Marco Mancini, che il mio nome era stato proposto per il prestigioso Premio Internazionale Galileo Galilei e che la ricerca sugli Etruschi alla quale mi dedico ormai da anni – devo confessare che ho adesso settantacinque anni e che il mio primo articolo in materia di etruscologia risale al già lontano 1971 – era stata giudicata degna di meritare una tale riconoscimento da parte dei colleghi e amici italiani che componevano la Commissione nominata dal Magnifico Rettore dell’Università di Pisa.
Non voglio nominarli, ma tutti loro sanno quanto profonda sia la mia gratitudine per questo inatteso segno di stima che mi fa succedere a tante figure che hanno illustrato la nostra scienza, compresi coloro che ora non sono più, come Georges Vallet che era direttore della Scuola Francese di Roma quando sono entrato a farne parte come membro nel 1971, e la cui direzione ha veramente rappresentato un apprezzato rinnovamento per l’emblematica istituzione del Palazzo Farnese, oppure Helmut Rix, che ha aperto nuove strade per l’approccio alla lingua etrusca e del quale ricordo di avere tradotto in francese l’ultimo articolo, apparso nei Mélanges de l’École Française nel 2006, due anni dopo la sua scomparsa.
È per me una grande emozione venire a Pisa per ricevere questo Premio.
Sarebbe un luogo comune dire che Pisa è una città famosissima in tutto il mondo – benché devo confessare che, quando ho parlato a chi mi sta a fianco dell’onore che mi avete fatto conferendomi il Premio Galileo Galilei, molti non sapevano che egli fosse nato a Pisa.
Ma ci sono per me ben altri motivi oltre alla Torre di essere attaccato alla vostra città: la sua Università, che è certo uno dei centri attivi della ricerca nel nostro settore e che ho avuto l’occasione frequentare parecchie volte, e ovviamente la sorella italiana della Scuola Normale Superiore parigina, nella quale fui allievo dal 1964 al 1969 e poi insegnante di latino dal 1974 al 1984, prima di ritornarvi come Direttore del laboratorio di Archeologia, e che resta uno dei ricordi più positivi del periodo napoleonico nel vostro paese.
Questo mi rende ancora più sensibile all’onore che l’Università di Pisa mi fa oggi, insieme ai Rotary Club italiani.
Non vorrei dimenticare i Rotary Club: mi permetterò di richiamare qui un piccolo ricordo personale.
Non avrei mai pensato che i Rotary Club potessero avere un ruolo attivo per l’etruscologia, ma, quando ero ancora studente presso l’École Normale Supérieure di Parigi e avevo avuto l’occasione di venire lavorare a Roma nella biblioteca del Palazzo Farnese, vi avevo incontrato un giovane Giapponese, che lavorava sugli Etruschi nel suo paese, che era sordomuto ma aveva potuto venire in Italia grazie a una borsa dei Rotary Club del suo paese. Scoprii così, in quegli anni, l’importanza del Rotary per la ricerca sugli Etruschi.
Ma la mia emozione è ancora più forte se rileggo la definizione del Premio: esso viene definito come, cito, “un riconoscimento per quei grandi studiosi stranieri che, ad altissimo livello, hanno onorato l’Italia con opere fondamentali, dedicando la loro esistenza alla civiltà italiana e che hanno assunto l’Italia quasi come loro seconda patria.”
Al di là della commovente impressione che mi fa il giudizio che la Commissione ha espresso sull’apporto scientifico che ho cercato dare alla nostra comune disciplina, non posso fare altro che approvare l’esattezza di quel che significa rispetto al mio attaccamento al vostro paese e alla sua cultura.
Già Cicerone sapeva che un uomo poteva avere due patrie, e nel mio caso non è certo sbagliato dire che considero l’Italia come una mia seconda patria e mi sento pieno di gioia quando passo le Alpi e arrivo nella penisola. Mi ricordo la prima volta che sono venuto nel vostro paese, per un viaggio in famiglia a Roma; ero adolescente, e non tanto giovane – avevo già 16 anni – ed ero veramente come Goethe quando scoprì “das Land wo die Zitronen blühen” –: anche io feci il mio viaggio in Italia, non direi come il mio connazionale Brenno e i suoi selvaggi compagni, anche loro attirati dai prodotti dell’agricoltura mediterranea, ma che intrapresero il loro viaggio per saccheggiare Roma e non per ammirare le sue bellezze. Avevo l’impressione di potere finalmente accostarmi alla sorgente di tutto ciò che avevo appreso negli anni di liceo nei miei corsi di latino o di storia e di poter vedere con i miei occhi tutti questi luoghi che avevo incontrato, facendo i compiti, nelle versioni latine. E fu per me indubbiamente una grandissima gioia quando il proseguimento dei miei studi fece sì che, da quando entrai come allievo nel 1964 nell’École Normale Supérieure di Parigi, ebbi spesso l’occasione di venire in Italia, ancora di più quando ebbi la fortuna, dal 1971 al 1974, di passare tre anni a Roma come membro dell’École Française.
Devo confessare che non avevo mai studiato l’italiano, benché la musicalità della vostra lingua, per questo tanto diversa della monotonia della nostra, mi fosse sempre piaciuta. Ma in Francia non si imparava molto l’italiano: a scuola questa lingua aveva cattiva fama, i professori ci dicevano che soltanto i cattivi allievi lo studiavano, perché erano troppo pigri per studiare lingue più difficili come il tedesco o l’inglese. Io però avevo già potuto acquistare una certa familiarità con l’italiano: nell’Est della Francia, dove ero nato, nella Lorena, che era allora una zona industriale che attirava molti immigranti, mi accadeva a volte la domenica di assistere alla Messa in italiano, dato che la forte presenza di operai italiani faceva che a seconda dell’orario la Messa si dicesse ora in francese, ora in tedesco per coloro che tra i Francesi della regione lo utilizzavano ancora, ora in italiano, oppure ancora in polacco per le famiglie venute dalla Polonia (ma, per ovvi motivi, la Messa in lingua polacca non mi ha mai attirato come quella in italiano…).
Vi racconto ricordi personali, e così cado nella critica dei miei professori di allora, che ci insegnavano che, secondo l’aforismo di Blaise Pascal, “le moi est haïssable” (“l’io è odioso”), e non si doveva parlare di se in pubblico. Ma credo anche che un’opera scientifica non si possa compiere senza una certa passione e ho sempre ritenuto una grande fortuna del mestiere di ricercatore il fatto di potere mettere insieme il suo lavoro e le sue passioni. Virgilio diceva o fortunatos nimium agricolas; io potrei a buon diritto dire o fortunatos nimium ricercatores, se mi è concesso questo orribile barbarismo pseudo-latino! E ho la grande soddisfazione di rendermi conto che la mia giovanile passione per l’Italia e la sua cultura ha sempre guidato la mia carriera e che essa spiega la mia presenza davanti a voi oggi.
Però il mio interesse per l’Italia e per la sua cultura non si è concretizzato attraverso una focalizzazione su Roma, la sua storia, la sua lingua, la sua letteratura – anche se, durante la mia carriera universitaria, ho sempre insegnato la lingua e la letteratura latine, prima a Parigi, presso l’École Normale, dal 1974 al 1984, poi con una cattedra di professore all’Università di Digione, fino al 1997, finalmente alla Sorbona, fino a quando sono andato in pensione nel 2014. Ma nella stesso tempo, ho potuto, dal 1992 in poi, disporre di una seconda cattedra accademica, come Direttore di Studi presso l’École Pratique des Hautes Études, nella quale potevo insegnare Etruscologia.
Perché mi sono orientato verso l’etruscologia? Non posso dire che ho ceduto al fascino del famoso mistero etrusco, che faceva sì che Massimo Pallottino potesse lamentarsi che troppo spesso l’etruscologia appariva come il settore dilettantesco della ricerca. Al contrario direi che, da un punto di vista scientifico, il lavoro sugli etruschi offre un interesse del tutto particolare, che non esiste per la ricerca su Roma o sulla Grecia antica.
Non direi che si tratta di una cosa soltanto positiva, ma per gli Etruschi abbiamo la fortuna di non disporre di una documentazione così ricca come quella su Roma o sulla Grecia. Si tratta, si potrebbe dire, di un puzzle al quale mancano moltissime tessere e che dobbiamo tentare di ricostruire con pazienza, sapendo che non potremo mai arrivare ad una ricostruzione completa. Ma proprio perciò non si deve trascurare nessun elemento, anzi è necessario sfruttare tutti i dati, sia archeologici, sia linguistici, sia letterari. L’interdisciplinarità, che è divenuto ormai un concetto à la mode in tutti i settori della ricerca, si impone fin dall’inizio per chi vuole lavorare sugli Etruschi, presentandosi come l’unico modo di procedere – conferendo all’etruscologia una ricchezza metodologica ed ermeneutica che non esiste altrove.
Però, naturalmente, la mia scelta di quel settore di ricerca non si spiega soltanto in astratto per il suo eccezionale interesse intellettuale. Come ogni percorso scientifico, il mio fu legato a incontri personali, a contatti con maestri, che mi hanno fatto scoprire l’interesse per questo settore, e anche ad esigenze ben al di là della semplicità del solito discorso sul mistero etrusco.
Citerò anzitutto Jacques Heurgon, due anni dopo la morte del quale ho occupato la cattedra alla Sorbona, nel 1995; Michel Lejeune, che durante i suoi corsi presso l’École Pratique des Hautes Études mi fece scoprire il mondo delle lingue e delle scritture dell’Italia preromana; Raymond Bloch, che ci presentava tutti gli aspetti della civiltà etrusca, compreso la joie de vivre che, per lui come già per il nostro Stendhal, caratterizzava questo popolo.
Ma, ancora più importante, tutti e tre mi comunicarono il loro amore per l’Italia. Era certo un aspetto significativo della loro personalità.
Ricorderò soltanto il ruolo che Jacques Heurgon ebbe nell’Italia appena liberata dall’occupazione tedesca, quando, dopo avere fatto parte delle truppe francesi che combatterono in Abruzzo, fu nominato addetto culturale presso l’ambasciata di Francia, e incaricato di ripristinare i legami tra intellettuali francesi e italiani che il triste periodo precedente aveva purtroppo ridotto a ben poco.
Ma non posso citare soltanto nomi francesi. È ovvio che, per uno che lavora sugli Etruschi, il contatto con i lavori italiani e con i maestri italiani è fondamentale: mi stupisce sempre che, nella nostra piccola cerchia di specialisti, l’italiano, e non l’inglese come negli altri settori, funga sempre da lingua di lavoro. E nel mio specifico caso, devo constatare che i miei primi libri procedevano direttamente dalla lettura dei lavori di Massimo Pallottino, in primis di quella specie di rivoluzione Copernicana che rappresentò il suo studio L’origine degli Etruschi, quando uscì nel 1947.
La lettura di questo libro dimostrò che era inutile continuare a discutere senza fine di ciò che egli nominava “l’annosa questione delle origini”, a domandarsi se dovevamo seguire Erodoto e la sua tesi sull’origine lidia, o piuttosto Dionigi d’Alicarnasso e quella dell’autoctonia, oppure ancora il nostro connazionale Nicolas Fréret, che inventò nelle sue Recherches sur l’origine et l’ancienne histoire des différents Peuples de l’Italie, apparse nel 1753, quella dell’origine settentrionale, che fu poi cara, non si stupirà, alla scienza tedesca, dal Niebhur al Mommsen.
L’origine di un popolo, sia quello etrusco sia quello francese che Pallottino amava citare, non si riduce ad un elemento unico, perché ogni popolo è il frutto di una combinazione di apporti diversi, di un processo di costruzione piuttosto che di derivazione.
Ma restava da spiegare perché il dibattito ebbe una tale importanza nella ricerca anche moderna sugli Etruschi: questa questione, che il maestro italiano aveva giustamente formulata nel suo libro, restava ancora da indagare. Essa ha orientato già la mia tesi di dottorato – compiuta secondo la formula francese di allora, che richiedeva anni di lavoro e sboccava in pesanti volumi di centinaia di pagine – che sfociò nella pubblicazione del mio primo libro, Les Pélages en Italie. Recherches sur l’histoire de la légende, edito dall’École Française nel 1984. Il testo fu seguito da due altri libri, sempre editi dall’École Française, nel 1991 L’origine lydienne des Étrusques. Histoire du thème dans la littérature antique e nel 1997 Les Tyrrhènes, peuple des tours. L’autochtonie des Étrusques chez Denys d’Halicarnasse. Questi libri hanno formato una trilogia sulle tre tesi che esistettero nell’Antichità sull’origine degli Etruschi, che è stata ripubblicata due anni fa nella collezione dei Classici della Scuola Francese sotto il titolo generale L’origine des Étrusques, un débat antique.
In questi studi, ho cercato di mostrare che l’“annosa questione” sulla quale hanno litigato generazioni di etruscologi moderni non faceva altro che prolungare, senza veramente cambiare la sua impostazione, un dibattito nato nell’Antichità, in ambiente greco, il cui scopo non aveva niente di scientifico, ma serviva ad esprimere un giudizio, sia favorevole, sia spregiativo sul quel popolo – da parte dei Greci, che furono sia loro nemici, come i Siracusani, sia loro partners commerciali e a volte loro alleati, come accadde per gli Ateniesi durante la spedizione di Sicilia.
Si trattava di presentare gli Etruschi sia come un popolo barbaro, estraneo alla cultura ellenica e ai suoi valori, sia come un popolo che parlava una lingua certo non greca, e perciò era tecnicamente “barbaro”, o almeno “barbarofono”, ma era però vicino ai Greci, e poteva essere considerato come quasi-ellenico – secondo una polarità della quale Domenico Musti aveva ben visto il significato nel suo libro del 1970 sull’atteggiamento di Livio e di Dionigi d’Alicarnasso sulla storia di Roma antiqua. La dimostrazione è facile nel caso della tesi dell’origine pelasgica: i Pelasgi erano un popolo mitico, la cui presenza sul suolo della Grecia in remoti tempi era affermata da molte tradizioni locali, e affermare che essi erano gli antenati degli Etruschi ne faceva una specie di parenti dei Greci: non si deve stupire se tale tesi fu sviluppata attorno a due città etrusche con fortissimi legami commerciali con la Grecia, Spina e Caere, che ebbero il loro tesoro a Delfi esattamente come se fossero vere città elleniche.
È altrettanto facile attribuire ai Greci la tesi dell’autoctonia, in questo caso a Greci ostili agli Etruschi: i Siracusani, attraverso la propaganda svolta dal loro tiranno Dionigi quando combatté contro loro per la talassocrazia, cioè il controllo dei mari che bagnavano l’Italia.
Per la tesi sull’origine lidia, è meno facile determinare in quale ambiente essa sia nata – ma almeno è ovvio che il testo di base, quello che si legge in Erodoto, non ha niente di un racconto storico, ma è un connubio di motivi leggendari comuni nel mondo greco, come il sorteggio per mandare via una parte della popolazione, o l’invenzione dei giochi per fare dimenticare una carestia. E’ su questa debole base che fu costruita la problematica che occupò tanto spazio negli studi etruscologici.
Questi miei lavori si fondavano sullo studio di testi greci o latini. Questo corrisponde alla mia formazione, che era quella di uno studente di Lettere Classiche e non di Archeologia o di Storia Antica, secondo la troppo rigida distinzione che esiste in Francia ed è indubbiamente un ostacolo se si vuole arrivare ad una vera Altertumwissenschaft. E devo confessare che la mia personale esperienza nell’archeologia di scavo è stata limitata – anche se la mia partecipazione alle campagne sul sito di Marzabotto, intraprese dall’École Française in collaborazione con l’università di Bologna, mi hanno permesso di incontrare l’attuale presidente dell’Istituto di Studi Etruschi ed Italici, l’amico Giuseppe Sassatelli. Ma la mia specializzazione in Lettere Classiche mi ha almeno mostrato che i diversi settori ermeneutici possono e devono essere approfonditi dai relativi specialisti, come ho cercato di fare per la letteratura classica. E questo mi pare specialmente importante per noi etruscologi francesi, che tranne eccezioni – come quella della Corsica, sulla quale tornerò – non hanno nel loro paese siti sui quali possono fare scavi, dato che questi siti si trovano in Italia, dove i loro colleghi italiani fanno benissimo questo tipo di lavoro, senza che ci sia bisogno ricorrere a specialisti stranieri, se non in casi di specifica collaborazione. Invece il lavoro sugli Etruschi che si fa su tutto ciò che è disponibile nelle biblioteche, sia su testi classici, sia sulla esistente bibliografia, sia anche – tornerò anche su questo punto – sul ricco materiale archeologico presente fuori dall’Italia, mi pare essere un settore prioritario per gli etruscologi non Italiani.
Ho concepito come tale il ruolo che è stato il mio da quando ebbi la responsabilità della Sezione Francese dell’Istituto di Studi Etruschi, che fu fondata dai miei maestri Jacques Heurgon, Raymond Bloch e Michel Lejeune sulla proposta di Massimo Pallottino, poco prima della grande occasione che fu, per gli etruscologi di tutto il mondo, il Secondo Congresso Internazionale Etrusco, che si svolse a Firenze nel 1985, in quell’anno che fu chiamato “anno etrusco” e diede luogo a molte mostre in tutto l’antico paese etrusco, e rappresentò una specie di rinnovo della nostra disciplina, come lo era già stato il Primo Congresso Internazionale Etrusco nel 1928, tre anni dopo la fondazione dell’Istituto. L’Istituto è chiaramente il polo di riferimento per tutti gli etruscologi, e, con le sue sezioni straniere, un indispensabile strumento di informazione e di coordinamento per le iniziative che possono essere prese nei diversi paesi – e devo dire, per noi non Italiani, ha sempre avuto un ruolo di efficace, e direi necessario stimolo per una disciplina che non può avere lo stesso tipo di presenza accademica che ha in Italia.
Naturalmente, come ho cercato di svilupparla, l’attività della Sezione francese ha avuto un componente archeologico, compresi gli scavi in Italia che abbiamo fatto sul sito di Castellina di Marangone, presso Civitavecchia, in collaborazione con la Sezione tedesca e il suo presidente Friedhelm Prayon, e sotto la responsabilità, per la parte francese, di Jean Gran Aymerich. Ma forse più caratteristico, perché rispondente direttamente al ruolo atteso da una sezione straniera dell’Istituto, è stato il lavoro sui ritrovamenti di materiale etrusco nel nostro paese, in linea con ciò che faceva parallelamente la sezione austriaca dell’Istituto con Luciana Aigner-Foresti e ora Petra Amann sul tema Etruskische Präsenz nördlich der Alpen und ihre Einflüße auf die einheimischen Kulturen. Si è tradotto nella pubblicazione della serie Répertoire des importations étrusques et italiques en Gaule, sotto la direzione di Richard Adam, e soprattutto nella partecipazione attiva della nostra sezione, insieme con quella tedesca, alla grande mostra Gli Etruschi e l’Europa, che si è svolta a Parigi e poi a Berlino negli anni 1992-1993, con l’appoggio della Fiat, e ha fatto conoscere al grande pubblico il ruolo importantissimo che ebbero gli Etruschi nello sviluppo delle civiltà del Nord Europa, secoli prima dei Romani. Nel caso della Francia si deve anzi parlare di una presenza anche fisica per niente trascurabile, di certi siti del Sud del paese, come apparve nei due convegni dell’Istituto di Studi Etruschi che furono dedicati nel 2002 al tema Gli Etruschi da Genova ad Ampurias e nel 2011 a quello La Corsica e Populonia, e che sono stati gli unici che si sono tenuti finora, almeno parzialmente, fuori dall’Italia. Ovviamente la partecipazione della Sezione francese è stata importante, ma ora è forse ancora più significativo il fatto che, da tre anni, e grazie all’appoggio sia della direzione locale delle antichità, inizialmente con Joseph Cesari, che della presidenza della regione, il lavoro su Aleria in Corsica, questa vera città coloniale etrusca edificata su territorio ora francese, abbia potuto essere ripreso, dopo un’interruzione di vent’anni, sotto la direzione di Vincent Jolivet.
Ma la presenza fra di noi di molti filologi fa che lo studio delle testimonianze letterarie fu fin dall’inizio un campo di studio privilegiato della nostra Sezione francese. Esiste in Francia una forte tradizione di studio di storia delle religioni, che con Raymond Boch s’è sviluppata attorno a ciò che si poteva sapere sulla religione degli Etruschi. Perciò il colloquio scientifico internazionale che accompagnò la mostra Gli Etruschi e l’Europa che fu organizzato da me e da Françoise Gaultier a Parigi s’intitolava “Les Étrusques les plus religieux des hommes” e fu l’occasione di una messa a punto generale delle nostre conoscenze sulla religione etrusca. Il fatto che essa fosse percepibile attraverso una serie di testi greci e latini mi spinse a lanciare uno studio sistematico di ciò che appariva dagli autori classici, con la pubblicazione dei dieci volumi La divination étrusco-italique apparsi tra il 1985 e il 2016. Ricorderò che, grazie all’Etrusca disciplina, la scienza religiosa degli Etruschi, che fu sistematicamente indagata in quei volumi, l’antica Etruria ha sempre conservato un posto privilegiato nel mondo romano e che gli aruspici e la loro scienza religiosa furono, ancora sotto l’Impero, un ingranaggio importante dell’apparato statale romano, avendo l’imperatore a sua disposizione il suo aruspice personale. Oltre al coordinamento generale del lavoro, il mio apporto personale si è focalizzato su un punto particolare della storia dell’Etrusca disciplina, che finora non era stato veramente indagato: il fatto che, negli ultimi tempi del paganesimo, l’antica religione etrusca, ormai integrata in quella ufficiale romana, ebbe un ruolo non trascurabile nella lotta contro l’ascensione del cristianesimo, non solo perché la posizione degli aruspici accanto al principe fece sì che alcuni di loro spinsero alla persecuzione dei discepoli di Gesù, ma anche perché permise agli “ultimi pagani” di opporla alla nuova religione arrivata dalla Giudea, e di trovare così nel fondo religioso nazionale dei Romani ciò che era una “religione del libro”, grazie ai libri dell’aruspicina, una religione rivelata, grazie alle figure di profeti etruschi, come Tagete o la ninfa Vegoia, e offriva fino ad allora prospettive sulla vita nell’aldilà, con la dottrina degli dei animales, cioè della trasformazione delle anime dei defunti in dei, dottrina che un difensore della religione tradizionale come Cornelio Labeone, nel III secolo d. C., opponeva alle credenze dei cristiani. Ho trattato di questa questione in un libro apparso nel 1997, Chrétiens et haruspices. La religion étrusque, dernier rempart du paganimse romain.
Un altro punto importante che ho cercato di mettere nel centro dell’attività della Sezione francese riguarda il materiale etrusco che esiste nelle collezioni del nostro paese. Stranamente questo è rimasto finora solo assai parzialmente studiato, anche se imprese internazionali come quella del Corpus Vasorum Antiquorum, o quella, più direttamente etruscologica, del Corpus Speculorum Etruscorum, affidata, per la Francia, a Denise Rebuffat, interessano certe categorie di materiali ivi presenti. Il mio orientamento verso l’epigrafia ha fatto sì che mi occupassi prevalentemente delle iscrizioni etrusche presenti nel mio paese, aiutato per questo da un gruppo dei miei allievi – con il risultato dell’apparizione di molti documenti rimasti finora inediti, o editi male, oppure altri scomparsi da tempo e per i quali non si conosceva l’ubicazione (secondo la non infrequente formula nei volumi del Corpus Inscriptionum Etruscarum “nunc ubi sit ignoratur”). La Francia possiede, dispersi nei suoi musei, a volte in piccolissime città – non avrei mai pensato che il museo di Clamecy (3500 abitanti) ospitasse un’urna etrusca iscritta)! – molte epigrafi etruschei, riportate da viaggiatori come souvenirs dopo un viaggio in Italia, o comprate sul mercato antiquario da collezionisti locali quando la presenza di qualche pezzo etrusco era quasi d’obbligo nei cabinets de curiosité. Citerei soltanto come esempio un’oenochoe di bronzo del V secolo a. C., ritrovata nel magazzino del museo di Montpellier, che apparteneva al corredo funerario di un Tetnie di Vulci – personaggio che deve essere stato il nonno del Tetnie rappresentato con sua moglie su uno dei due Sarcofagi degli Sposi ora al Museo delle Belle Arti di Boston, e che come essi deve provenire dagli scavi eseguiti da Lucien Bonaparte e sua moglie sul sito dell’antica Vulci. Persino la collezione del Louvre non era stata veramente indagata prima del catalogo che ne feci e che è apparso nel 2016, ma contiene un documento di enorme importanza storica, il vaso degli inizi del VII secolo proveniente degli scavi del marchese Campana a Cerveteri che reca il nome di un Laucie Mezentie, cioè di un Messenzio. Ora, Messenzio è il nome del crudele re etrusco di Caere nell’Eneide, uno dei più accaniti nemici del re troiano: c’era dunque un Messenzio a Caere circa nel 700 a. C.: questo è in coerenza con ciò che ci hanno mostrato gli scavi condotti dal Castagnoli sul sito dell’antica Lavinio, che hanno permesso di ritrovare l’heroon di Enea e di mostrare che si trattava inizialmente della tomba di un capo latino della stessa epoca; dunque l’iscrizione del Louvre ci aiuta a capire in quale contesto storico, di lotte tra Etruschi e Latini per il controllo della fascia costiera del Lazio, si è inserita la tradizione sull’arrivo di Enea in Italia. Questo è certo un caso eccezionale, ma fa sentire la necessità di tenere conto di tutto il materiale etrusco esistente in tutto il mondo, il che ovviamente riguarda non soltanto la Francia – come mi sono reso conto studiando, grazie a colleghi locali, epigrafi etrusche pervenuti fino nel Giappone, dalla Polonia o dalla Georgia. Questo è certo un dovere che spetta alle sezioni straniere dell’Istituto.
Ho sottolineato il ruolo dell’Istituto di Studi Etruschi ed Italici per noi Francesi, e l’importanza che ebbe, e che continua ad avere, per la mia carriera scientifica. Non si tratta di legami soltanto intellettuali, ma, e ancora di più, di legami personali, e della profonda amicizia che mi ha sempre legato a molti dei suoi membri italiani e in primis i successivi presidenti dell’Istituto, Massimo Pallottino, Guiglielmo Maetzke, Giovannangelo Camporeale e adesso Giuseppe Sassatelli. Senza questo, il nostro lavoro perderebbe certo molto del suo senso. Perciò il fatto che la dimensione personale, l’aspetto affettivo che può avere per i ricercatori che voi onorate con il Premio Galileo Galilei è per me il punto essenziale nell’onore che mi viene conferito.
Non so se la mia opera scientifica mi ha veramente reso degno di ricevere il sessantesimo Premio della Fondazione, ma almeno, il fatto che io senta l’Italia come una seconda patria, secondo la bella definizione che date del senso della premiazione, è indubbiamente vero, e vi esprimo la mia più profonda gratitudine.