Pisa, ottobre 1988
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
[Il presente discorso è stato letto dal Prof. Vittorio Mathieu, membro della Giuria, in luogo del Prof. Verene, assente per malattia] Signore e Signori, ritornando ancora una volta in Italia, in questo caso nell’occasione particolarmente gradita del conferimento del Premio Galilei, ho avuto modo di ripensare al senso del mio lavoro, al significato che per me ha la filosofia e all’insegnamento che nella mia ricerca ho tratto in particolare da alcuni studiosi, antichi e moderni. Mi sono accorto che i debiti sono tanti e desidero farne partecipe l’autorevole pubblico che ha avuto la gentilezza di venire ad ascoltarmi. In fondo, oltre che per l’onore del premio in se stesso, sono grato alla Commissione e ai Rotary italiani anche per la possibilità che con questa circostanza ho avuto di fare un po’ più di luce in me stesso, di conoscere meglio i miei ideali e gli studi di una vita. Alcuni anni fa apparve sul settimanale d’informazione Time un articolo intitolato “What (If Anything) to Expect from Today’s Philosophers?” – che cosa ci si deve aspettare dai filosofi di oggi (ammesso che ci sia qualcosa da aspettarsi)? -. La formula assomiglia molto a quella di una fortunata serie di conferenze che si tengono in Italia, nella cittadina di Cattolica, dove ogni anno chi vi partecipa si chiede “Cosa fanno oggi i filosofi?”. Nel caso americano però il discorso non era in realtà molto problematico. Nella parentesi del titolo di Time era forse già contenuta la risposta, perché il giornalista che aveva scritto l’articolo, esprimendo l’opinione più diffusa tra il pubblico americano, concluse che dai filosofi di oggi c’era da aspettarsi poco o niente. L’autore divideva la filosofia contemporanea in due parti: quella professata dai filosofi angloamericani, interessati in primo luogo ai problemi di logica, alle strutture cognitive del linguaggio e alla validità degli argomenti etici, e quella professata dai filosofi europei, soprattutto francesi e tedeschi, rivolti alla descrizione dei fenomeni della percezione umana, alla relazione del corpo e del pensiero, e alla semiotica. Il primo gruppo veniva chiamato gruppo dei logici, il secondo dei mangiatori di loto o lotofagi. Naturalmente si trattava di generalizzazioni, ma non erano del tutto infedeli alla situazione reale. Il punto di vista del giornalista era che qualunque fosse la direzione presa dalla filosofia nelle due articolazioni, essa era comunque diventata un’attività di pensiero completamente tecnica, imbozzolata nel suo stesso mondo accademico dove poneva i problemi per se stessa e per se stessa ne ricercava le soluzioni. E’ una situazione che oggi non sembra molto cambiata. La filosofia anglo-americana ha continuato sulla stessa strada, anche se si illude di essere meno chiusa in se stessa, credendo che qualcosa di quello che fa possa collegarsi alla società sotto forma di etica applicata, etica medica, ecc. Qualcuno dei filosofi europei si è convertito ai metodi propri della critica letteraria, e su giornali e riviste si possono incontrare termini quali “postmoderno” e “decostruzione”. Sono parole diventate di moda, ma sono anche vaghe e generiche. Che ne è dell’antico significato etimologico di “filosofia”, “l’amore per la sapienza?” Che ne è dell’obiettivo di Socrate, consistente nell’impegnare i cittadini a vivere in modo consapevole, a capire che cosa è la virtù, e a perseguire la conoscenza di se stessi? Socrate pose le sue domande ed espresse il proprio pensiero non certo rivolgendosi agli altri filosofi ma a chiunque avesse avuto voglia di ascoltare, e non fece uso di una terminologia tecnica ma parlò della sapienza umana con lo stesso linguaggio impiegato dagli ateniesi al mercato. Come può oggi la filosofia riappropriarsi dello spirito originario di Socrate, scolpito sul tempio di Apollo a Delfi come la forma più antica di sapienza nella cultura occidentale, riassunto nelle formule lapidarie: “Conosci te stesso” e “Nulla che sia eccessivo”, ossia, moderazione in tutte le cose? E’ questa la domanda cui è rivolta la mia ricerca. Possiamo rimpossessarci in filosofia dello spirito socratico e riformarla come ricerca della conoscenza di se e come ricerca della sapienza civile? Nei suoi Ricordi Francesco Guicciardini, lo storico fiorentino del Rinascimento, afferma: “Tutto quello che è stato per il passato e è al presente, sarà ancora in futuro; ma si mutano e nomi e la superficie delle cose in modo che chi non ha buon occhio non le riconosce, né sa pigliare regola o fare giudizio per mezzo di quella osservazione”. La filosofia dovrebbe coltivare in noi le risorse native della memoria, della fantasia e dell’ingegno, con le quali siamo messi in grado di osservare con acume la natura degli eventi umani e cogliere in essi ciò che è evidente e perfino ciò che non lo è in quanto opera come causa dietro di loro. Esaminare la vita dell’uomo o la vita di una società significa vedere come le cose si ripetono. Ogni norma di condotta guidata dalla virtù deve fondarsi su questo modo di comprendere le cose. La filosofia contemporanea ha dimenticato Socrate e gli antichi obiettivi dell’amore per la sapienza, che è poi l’impiego della filosofia come modo di pensare per scoprire l’arte della vita più confacente agli esseri umani. Il poeta Giuseppe Ungaretti sosteneva, cogliendo nel vero, che “Tutto, tutto tutto è memoria”. La filosofia si è estenuata nel dilemma tra la propensione alla logica degli angloamericani e la tendenza degli europei al postmoderno. La filosofia, al pari di chi soffre di amnesia, il cui unico mezzo di salvezza è quello di scoprire il suo luogo di nascita e il suo nome, la filosofia, dicevo, deve riscoprire le sue origini e i vincoli che l’etimologia del suo nome ha con il perseguimento della sapienza dell’uomo. Cicerone a questo proposito afferma che fu Socrate a fare discendere la filosofia dai cieli alle città e alle dimore degli uomini. Esistono diversi modi per attivare la memoria filosofica e per ripristinare il metodo dell’indagine socratica. Personalmente, posso dire che la mia attività si è concentrata su quattro pensatori: Ernst Cassirer, il filosofo della cultura di origine tedesca emigrato negli Stati Uniti nei primi anni Quaranta; G.W.F. Hegel, il grande filosofo dell’ottocento; Giambattista Vico, il sommo umanista italiano; James Joyce, il famoso romanziere irlandese del ventesimo secolo che trascorse molta della sua carriera letteraria in Italia, dove visse e scrisse le opere più importanti. Nel suo Saggio sull’uomo, scritto in inglese negli Stati Uniti a un anno appena dalla sua morte, Cassirer dichiara che la conoscenza di sé è la meta più alta della filosofia, anzi la sola, autentica meta. Cassirer chiama la sua opera “filosofia delle forme simboliche” e considera l’uomo quale animal symbolicum, l’animale che si serve dei simboli per creare un mondo della cultura per uscire dal mero mondo della natura in cui si trova. Si tratta della versione moderna della mirabile dottrina rinascimentale di cui discorre Leonardo; che l’uomo vive in seno a un mondo della natura e a un mondo dell’arte. Cassirer, seguendo la biologia di Jacob Von Uexkul, sostiene che ogni organismo è dotato di un sistema ricettivo con cui risponde agli stimoli e alle forze del mondo e di un sistema attivo con cui influenza a sua volta il mondo stesso. Secondo Cassirer però l’organismo umano a questi due sistemi ne aggiunge un terzo, il sistema simbolico. Peculiare e distintiva degli esseri umani è la possibilità di ricorrere ai simboli per trasformare l’esperienza in ordini dotati di significato, che possono essere i simboli plastici del mito, della religione o dell’arte, i mondi dei linguaggi naturali, i numeri e i simboli delle equazioni matematiche o delle formule scientifiche. Tutta l’attività umana coinvolge questa facoltà di ricorrere ai simboli. Il nostro potere di rendere simbolici gli oggetti ci permette di dare vita alla cultura e alla conoscenza e di vivere in un mondo che è in parte una creazione nostra. Ciascuna delle aree della cultura umana è una forma di autoconoscenza dell’uomo, il quale in realtà cerca di conoscere se stesso e il suo posto nel mondo attraverso i miti, la religione, l’arte, il linguaggio, la storia, l’economia, la scienza, ecc. Ciascuna di queste aree gli consente di agire con atti pratici nel mondo, ma al tempo stesso ciascuna di esse è uno specchio di ciò che l’uomo è, dal momento che la cultura nella sua totalità è simile a uno specchio. La visione che nel ventesimo secolo ha Cassirer dell’uomo e della cultura consente di arretrare alla filosofia ottocentesca di Hegel. Uno dei principi che Cassirer attinge da Hegel è quello, di primaria importanza, per cui Das Wahre is das Ganze – il Vero è il tutto. E uno dei grandi errori della filosofia contemporanea è stato quello di avere abbandonato il principio per cui la filosofia dovrebbe cercare di abbracciare la totalità, nel senso che la filosofia nell’interrogare l’esperienza dovrebbe sempre aspirare a un racconto della totalità dell’esperienza umana. La Fenomenologia dello spirito di Hegel è un grande racconto della ricerca della conoscenza di sé. Con molta ragione quest’opera è stata definita un Bildungsroman filosofico, un romanzo di come l’essere umano acquista una cultura. Da Hegel si apprende che nella realtà sperimentale tutte le cose stanno tra loro in opposizione reciproca e che nulla si può capire isolatamente. Di conseguenza il filosofo deve costruire il suo racconto della totalità attraverso una dialettica di queste opposizioni. Anche il modo di procedere di Socrate è sempre una forma di pensiero dialettico con cui si sollevano domande che oppongono una cosa ad un’altra. L’opera di Hegel è per parte sua un grande teatro della memoria in cui la totalità della storia e tutte le forme di cultura sono tenute insieme in un sistema di opposizioni dialettiche. Dalla visione della totalità che aveva Hegel si può arretrare ancora alla filosofia protosettecentesca di Vico. Vico è il fondatore della moderna filosofia della storia, e per questo afferma che “la totalità è davvero il fiore del sapere”. Vico crede che la conoscenza di sé sia il fine di ogni forma di educazione umana e che ciò richieda il possesso dell’intera esperienza e conoscenza dell’uomo. Per Vico questo dominio della totalità si riscontra dapprima nei miti che sono all’origine di ogni cultura umana, al principio di ogni nazione. Vico chiama questa sapienza originaria “sapienza poetica”. Prima di psicologi del profondo come Jung o di antropologi come Lévi-Strauss, Vico si è reso conto che il mito si pone a fondamento dell’esperienza umana. E per ogni atto umano, per la stessa cultura dell’uomo, viene richiesta la fantasia. Per tutta la vita Vico fu professore di retorica all’Università di Napoli. Non fu professore di filosofia. Egli ha creato la sua dottrina della storia attraverso le competenze di retorica e di giurisprudenza. E’ questo un aspetto spesso trascurato da molti degli interpreti anglosassoni di oggi. La mia lettura di Vico è stata influenzata, arricchendosene enormemente, da Ernesto Grassi, il filosofo e studioso del Rinascimento oggi scomparso. Grassi aveva compreso, al pari di Vico, che il ragionamento filosofico richiede la retorica, non per comunicare semplicemente i suoi risultati a un pubblico, ma per scoprire le idee. Perfino per poter cominciare la sua analisi razionale dell’esperienza la filosofia richiede forme di linguaggio che sono di competenza della retorica. Orazio afferma che il discorso poetico deve istruire, dilettare e suscitare emozioni; Cicerone da parte sua identifica queste funzioni con i compiti della retorica. Retorica e poetica sono connesse al potere del linguaggio di formare metafore. Per Aristotele l’impresa più grande e difficile è proprio quella di formare un maestro di metafore, perché si tratta di un’attività che non si può imparare dagli altri e costituisce il segno di un genio. Grassi aveva compreso che ogni manifestazione di pensiero richiede delle metafore con le quali stabilire i suoi punti di partenza, arrivando a identificare la metafora con l’idea vichiana di “universali fantastici”. Secondo Vico i primi esseri umani, i giganti, diedero vita al loro mondo non con la conoscenza razionale ma con il potere della fantasia. Simili a fanciulli, essi svilupparono l’immagine che avevano del mondo attraverso la fantasia. Nella Scienza nuova risulta che tutte le nazioni sono passate attraverso tre età; l’età degli dei, in cui tutto ciò che era in natura veniva immaginato pieno di divinità; l’età degli eroi, in cui l’intera società è governata dalle imprese di eroi, simili a quelle che Omero attribuisce ad Achille e a Ulisse; infine l’età degli uomini, dove la religione è rimpiazzata dalla comprensione scientifica e la virtù dall’osservanza delle leggi. Questa terza età è caratterizzata dalla barbarie dell’intelletto, e quando una nazione arriva a questo estremo, crolla. Storicamente si possono rinvenire i corsi e i ricorsi di questi cicli delle tre età. Nessuna civiltà sopravvive alla storia, nel cui ambito tutto si ripete. Vico vede in questi cicli storici la guida della Provvidenza. Karl-Otto Apel, lo studioso che alcuni anni fa vinse il Premio Galilei, sostiene nel suo lavoro sull’Idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico che Vico è l’uccello di Minerva dell’umanesimo rinascimentale italiano. Egli si è qui richiamato alla memorabile immagine di Hegel secondo cui la filosofia, o Minerva, simile alla civetta, spicca il suo tardo volo al tramonto per avere una visione d’insieme del giorno. Da Vico la memoria filosofica può retrocedere fino agli umanisti del Rinascimento italiano, i quali considerarono tema primario della filosofia la natura dell’uomo e la sua dignità, mantenendo insieme, come ha sottolineato Grassi, la poesia, la retorica e la filosofia. L’Umanesimo ha significato la rinascita delle dottrine degli antichi; di conseguenza, attraverso gli umanisti, siamo condotti a ritroso fino ai Latini e ai Greci. Socrate è spesso considerato l’avversario della retorica e dei poeti, ma Socrate è una figura paradossale perché se tiene la filosofia separata dalla retorica e dalla poesia, è al tempo stesso presentato da Platone mentre racconta molte “storie verisimili”, ricorrendo a parecchie metafore. D’altro canto lo stesso Platone è il più poetico tra tutti i filosofi. Socrate si batte contro i falsi ideali dei sofisti ma, come ci dice Cicerone, Socrate è in Atene il pensatore che parla meglio, vero maestro di retorica. La sua ricerca della conoscenza di sé esige sia la logica sia quei tropi linguistici che consentono al pensiero di insegnare, dilettare e provare emozioni. Un’ultima parola, per concludere, sul mio quarto autore, James Joyce. Per quanto Benedetto Croce abbia fatto molto per fare rivivere la filosofia di Vico nella prima parte del ventesimo secolo, la maggior parte dei lettori del mondo anglosassone sono giunti a Vico attraverso Joyce. Mentre era a Trieste, nei primi anni della sua carriera letteraria, Joyce arrivò ad affermare: “quando leggo Vico la mia immaginazione si accresce in misura superiore a quando leggo Freud o Jung”, e quando cominciò a scrivere Finnegans Wake, il suo lavoro più tardo e al tempo stesso più grande, egli si mise a cercare un’opera su cui fondare la struttura della sua, finendo per scegliere la Scienza nuova di Vico, di cui adottò le idee dei corsi e ricorsi e i fondamenti mitico-poetici del linguaggio. Lungo l’intera opera di Joyce il nome di Vico e le sue idee diventano protagonisti di diverse forme di giochi di parole. Non per nulla il primo saggio scritto su Finnegans Wake, intitolato Dante……Bruno. Vico……Joyce, di cui fu autore Samuel Beckett, esaminava tra gli altri proprio i rapporti di Joyce con Vico. L’opera di Joyce, al pari di quella di Hegel e di Vico, è un grande teatro della memoria dove il lettore, in questo caso non filosoficamente ma poeticamente, è condotto attraverso tutti i vari aspetti dell’esperienza umana. Anche per Joyce il vero è il tutto o, secondo quanto afferma in uno dei suoi giochi di parole ispirati dal nome di Vico, “our wholemole millwheeling vicociclometer”. Joyce ci indica come mettere a confronto il linguaggio, la storia e la totalità della cultura umana in una forma nuova e originale. La filosofia deve sempre andare a scuola dai poeti se vuole scoprire le metafore e le prospettive di cui ha bisogno per venire a conoscenza dei punti di partenza necessari al suo ragionare. Lo spirito socratico esige che la filosofia instauri un dialogo con i poeti. Questi ci aiutano fornendo le immagini di noi stessi e i filosofi dal canto loro ci dotano delle domande con cui cerchiamo di dare un senso alle immagini. La ragione deve essere guidata dalla fantasia e la fantasia deve essere temperata alla ragione.