Pisa, ottobre 1992
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
La formula linguistica della sorpresa è l’esclamativo oppure l’interrogativo? Una risposta istintiva, soggetta a quei moti dell’anima che gli scolastici chiamavano le prime di un primo, si volge all’esclamativo; che di fatto ha ragione d’essere come categoria linguistica soprattutto in rapporto alla meraviglia. Alla quale non per nulla la grammatica ha riservato un posto rilevante in quella parte del discorso che è l’interiezione, respinta all’ultimo posto proprio perché la più sconcertante. Tuttavia c’indirizza all’altra parte del dilemma il Grande Libro di tutti noi, dal “manhu” degli itineranti nel deserto che hanno consacrato con un interrogativo di sorpresa il nome del nutrimento per eccellenza celeste, al “quomodo fiet istud” che ha tracciato il nuovo cammino dell’umanità verso la Parola e la Luce. “Si licet magnis componere parva”, l’interrogativo ha prevalso quando l’egregio professore Tristano Bolelli mi ha comunicato che il premio Galileo Galilei veniva assegnato a me. Anzi gli interrogativi. A quelli che si formulano in un “quomodo fiet istud” di fronte agli inevitabili paragoni con gli illustri predecessori e con i titoli ben maggiori di molti miei colleghi sui quali si potevano fermare gli occhi della commissione aggiudicatrice, si aggiunge quello di un “manhu” che sorge nell’animo di ogni svizzero-italiano quando da parte italiana la sua attività viene definita sotto l’etichetta di estero. E’ l’interrogarsi su “da che parte mi trovo”, connaturato ad una situazione ibrida, anomala da un punto di vista della geografica etnico-culturale, ma rispondente appieno all’evolversi d’una storia. La Svizzera italiana, se considerata nella sua parte più compatta composta dal canton Ticino e dalle due valli grigionesi adiacenti, è un cuneo che si infila verticalmente, in direzione nord-sud, in un sistema linguistico, etnico e culturale che si distende orizzontalmente lungo l’arco alpino in direzione est-ovest. Procedendo sull’asse orizzontale, l’identità si fa sensibilmente percepibile all’orecchio nella continuità del dialetto che sento uguale di qua e di là dei due confini politici, e altrettanto percepibile all’occhio nell’architettura rustica che trovo uguale a Domodossola e a Porlezza; procedendo sull’asse verticale, rispondono a nord una lingua di ceppo germanico e un aspetto assolutamente diverso delle abitazioni contadine. Sempre, da Goethe a Butler a Mardersteig, travalicare il versante sud del Gottardo ha significato l’aprirsi d’uno scenario diverso: l’Italia. Questa situazione si è fissata nella storia col concorso di due forze contrastanti; l’una, la conquista militare da parte dei cantoni tedeschi spingeva verso sud; l’altra, per via dell’immutata appartenenza delle terre ora ticinesi alla diocesi di Como e Milano, in senso contrario. La prima delimitò secondo una logica estranea alla sua configurazione, sebben conseguente agli interessi del conquistatore, un territorio i cui confini da quasi cinque secoli in qua non furono più spostati. La seconda, attraverso una solida organizzazione ecclesiastica, specialmente viva nella parte ambrosiana, e l’azione potente di san Carlo Borromeo in concomitanza con gli eventi più cruciali, ha conservato a queste terre un’inequivocabile fisionomia lombarda, nonostante il distacco politico amministrativo. E’ così che alla definizione ormai ufficiale di Svizzera italiana (noi rifiutiamo quella ora di moda di Südschweiz) si può allineare quella di Lombardia elvetica. E’ in questa situazione che io mi sono mosso come studioso di lingua e letteratura italiana, indottovi non da libere scelte, ma dal fatto di essere quello che sono e che non ho scelto di essere nascendo svizzero-italiano. La Svizzera, quella moderna, non l’Elvezia di Giulio Cesare, anzi gli Svizzeri, entrano in letteratura italiana con la gioiosa descrizione dei bagni di Baden, dove la nudità e la promiscuità sono viste dall’occhio meridionale di Poggio Bracciolini come segno di intatta innocenza. Nasce di lì il mito dello svizzero primitivo, quasi un buon selvaggio ante litteram che sarà alla base dell’idillismo caro ai romantici. Poco dopo Poggio, Enea Silvio Piccolomini in viaggio verso Basilea vedrà nelle mura di Bellinzona il punto che separa la civiltà dalla barbarie; ne sarà emblema il linguaggio piuttosto belluino che umano. Un motivo che ferirà ancora le ben tornite orecchie napoletane di De Sanctis, quando descriverà “i terribili suoni che escono da quelle terribili bocche con certe formidabili aspirazioni che pare, quando parlano, ti vogliano sputare in faccia”. E’ lo svizzero rude e barbaro, deprecato dall’Ariosto e guardato con rispetto dall’occhio acuto di Machiavelli. C’è anche una terza siluetta, quella dello svizzero pignolo, orologiaio, di cui è infastidito sperimentatore il Foscolo come lo sarà l’esuberante Faldella, salvo poi a mutarsi anch’essa in positivo allo sguardo benevolo di Morselli. E’ quanto ci narra il bel libro sulla Svizzera vista dai letterati italiani dell’800 e ’900 a cura di uno studioso ticinese, Fabio Soldini; lì, tra un centinaio di testimonianze, in questo trittico si riassume l’immagine che dello svizzero è consegnata nella letteratura italiana. Salvo poi scarti pittoreschi ed acuti, come quello di Contini che definì la Svizzera periferica ed esotica, seguito da Montale, la cui visione della Stimmung elvetica si concentrò in un meraviglioso elzeviro intitolato a Friburgo sotto l’etichetta: Due preti negri seduti al caffè. Anche questa immagine sta per uscire presso un editore milanese di origine svizzera, Scheiwiller, a cura dello stesso Soldini. De Sanctis, il cui monito ai giovani troneggia (in italiano!) in cima alle scale del Politecnico di Zurigo ed è inciso sulla medaglia del Rettore di quell’istituto, richiama a un altro nodo dei legami italo-svizzeri, agli studi letterari e filologici dell’italiano sviluppatisi in Svizzera. La chiamata di De Sanctis a Zurigo ha una portata esemplare che supera l’impatto reale del suo insegnamento effettivo. E’ il primo anello d’una lunga catena di studiosi di cose letterarie italiane che hanno operato in Svizzera. S’iscrive come fatto esemplare in una serie di appelli sulle cattedre universitarie elvetiche di personalità italiane di primo piano. Chiamate quasi tutte in giovane età, hanno fortemente caratterizzato gli studi letterari presso la patria d’origine, traendo beneficio dal contatto con le aree culturali tedesca e francese che compongono con quella italiana la Svizzera. Prendendo congedo da Friburgo dopo ventotto anni d’insegnamento, Contini confessava che in quel longum aevi spatium dans la vie d’un homme et (si je puis m’appliquer ce terme) d’un savant vi aveva parachevé sa maturité scientitque et sa formation protessionelle. E’ in sintesi la storia di molti docenti italiani in Svizzera. Il caso di Contini è accanto a quello di De Sanctis il più clamoroso. Chiamato giovanissimo, appena ventiseienne, a coprire la cattedra di filologia romanza a Friburgo, ha allargato lì, tra il 1938 e il ’52, la sua azione di critico militante, inglobandovi scrittori francesi e tedeschi come Proust, Mallarmé e Hölderlin e diffondendovi la conoscenza di Montale, Ungaretti, Gadda; ha congiunto la filologia d’un Pasquali con quella di un Bédier, suo predecessore a Friburgo; ha applicato alla filologia delle varianti d’autore, inaugurata in Italia da Debenedetti e De Robertis, le teorie della scuola ginevrina di De Saussure e Sechehaye. Qui si misura perfettamente il dare e l’avere, proprio a molti altri. Per esempio a Giulio Bertoni, pure insegnante a Friburgo, che con un gesto di grande portata morale e politica ha fondato durante la guerra del ’14 l’Archivum romanicum, superando acerbissime polemiche nazionalistiche: egli vi proponeva le letterature volgari del medioevo nel pieno della guerra come luogo d’incontro di popoli nemici sul campo. Raramente alla letteratura fu affidato un ruolo così alto. La costellazione di persone implicate in quell’impresa è significativa del ruolo di mediazione culturale assegnata alla Svizzera e solo possibile in Svizzera: vi partecipava un cattedratico italiano residente nella storica Friburgo, sorretto da un ebreo tedesco, Leo S. Olschki, nella sede della francese e calvinista Ginevra. In questa linea vanno ricordati anche Migliorini, che pure a Friburgo per primo traduceva Jakobson e recensiva i linguisti ginevrini; Monteverdi che tanto ha mediato fra medievistica francese e italiana; Billanovich che ha riannodato in Svizzera gli studi umanistici italiani con la tradizione del grande Burckhart. Burckhart ci richiama gli studiosi svizzeri, di lingua tedesca e francese, che hanno contribuito agli studi italiani, dagli eredi suoi di Basilea ai zurighesi e bernesi Jud e Jaberg che hanno regalato l’Atlante linguistico all’Italia, all’italianisant de Ziegler di Ginevra. In questa linea operano oggi studiosi di italianistica in Svizzera, dove in tutte le università esistono cattedre di lingua e letteratura italiana, non come cattedre di letterature straniere, ma come cattedre di letteratura patria. Gli studi di italianistica in Svizzera hanno lì e da sempre una caratteristica loro: sono elvetici per questi incroci, ma sono italiani per i problemi che vi sono dibattuti. Ciò è stato vero per i maestri di collaudata autorità, siano essi cittadini elvetici o italiani, ma si è fatto vero anche per le nuove leve che stanno affacciandosi alla ribalta degli studi di italianistica con un vigore ignoto alla mia generazione. Ciò risponde alla struttura stessa della Svizzera, al fatto, ormai unico (se si eccettui San Marino e, per così dire, la Città del Vaticano) per cui la lingua e la cultura italiana sono ufficialmente parte integrante di uno stato diverso da quello che prende il nome di Italia. Agli studi di storia letteraria risponde d’altronde per questo aspetto la letteratura creativa, quella di chi è italiano per lingua materna, come Giorgio Orelli, e di chi non lo è, ma in italiano scrive, come Adolfo Jenni, italiano di Berna, o Fleur Jäggy. Io nei miei studi mi sono mosso entro questo alveo, né potevo altrimenti. Ho trattato temi italiani in prospettiva italiana, allontanandomi appositamente da ogni specifico aspetto letterario che rinviasse al Ticino, ma insieme ho avuto presente cosa potevano offrire le altre due componenti della realtà svizzera. Il richiamo italiano, di un’Italia unita anche se per noi solo sul piano linguistico e culturale, mi ha spinto a vagare fra i veneziani Francesco Colonna ed Ermolao Barbaro, i fiorentini Brunetto Latini e Giovanni Dominici, il napoletano Marino evitando i lombardi (d’altronde già eccellentemente frequentati da un nostro confinante, Dante Isella). Quando agli inizi dei miei studi ho studiato l’opera di un comasco, il padre Orchi, l’ho trattata a guisa di un universale barocco e non di una scrittura lombarda. Tenendomi ugualmente lontano dal barocco di marca francese, quale veniva elaborato nella Ginevra di Jean Rousset e dalla definizione crociana, trovavo in un fatto svizzero, la scuola linguistica ginevrina, un punto di riferimento per la strategia da adottare sul campo. Dietro l’insegnamento di Regamey e le suggestioni di Contini, che allora applicava alla variantistica il concetto di sistema, mi venne naturalmente, per puro processo consequenziale, l’idea che si potesse applicare a un testo letterario così eccessivo l’opposizione di langue e parole; un tentativo che apparve rischioso anche a chi sarebbe stato di lì a poco promotore del verbo strutturalista. L’insegnamento friburghese che ho allora vissuto (ai due nomi ora evocati di Regamey e Contini vanno aggiunti quelli di Billanovich e, sugli inizi, di de Menasce) non solo ci introduceva nel vivo dei dibattiti allora in corso su orientamenti e metodi, ma ci proiettava in prima persona in una specie di sistema di contrasti. Essi emergono con una crudezza che oggi addolcirei in un contributo del ’58 che ho riesumato quando ho chiuso con l’insegnamento: Per Guido e Beatrice. I carmi e il pane, Friburgo S. 1988. La parola magica era filologia. Filologia, certo. Ma cosa stava ad indicare quel nome se non un dedalo nel quale ad ogni passo si aprivano uscite alterne? Filologia metteva in primo piano la lingua. Ma questa, se concepita come tramite all’ermeneutica letteraria, invitava da una parte all’attenzione sulla lingua poetica (la Stilkritik di Spitzer), dall’altra alla grammatica dell’espressività (la stylistique di Bally, e, dietro, in un certo senso, la vecchia retorica da vestire a nuovo). Lingua italiana sì, ma anche il latino degli umanisti il cui onore veniva allora rivendicato a livello mondiale (era vicina attraverso Italia medievale e umanistica l’America di Ullmann e Kristeller). Ecdotica in senso neolachmanniano sì, ma anche la ricerca sul documento concreto, sul codice nella sua realtà fisica di libro segnato in correzioni e postille, da lettori la cui identità doveva esser scovata. Se da un lato era forte nella scuola continia il richiamo alla lingua individuale, punto di riferimento Spitzer, dall’altro era bilanciato da un’attenzione alle costanti di forme e contenuti, allettata dal fondamentale Europäische Literatur giunto allora a Berna sul tavolo di lavoro di noi neofiti. Vi si aggiunga il magistero extra muros di Carlo Dionisotti che incontravo regolarmente nelle sue vacanze ticinesi fin dagli anni cinquanta, che richiamava, dietro continuità e scarti, a una storia scandita per generazioni e a una geografia ritagliata per province. Non poteva d’altra parte sfuggire, a me ecclesiastico, un’altra frattura, quella che divide culturalmente i chierici dal resto del mondo, e che si presenta in modo tanto diverso nella cattolica Italia che non nel mio paese a religione mista (basti pensare all’uso particolarissimo, inapplicabile lassù, che hanno qui in terra italiana gli epiteti di cattolico e di laico). Sul filo di queste tensioni il mio lavoro ha proseguito interamente circoscritto in una realtà elvetica (eccetto un quinquennio milanese). Nell’assegnare a me il Premio Galilei, la Fondazione ha dato risalto al contesto culturale cui appartengo. Io non sono che il tramite che rinvia oltre confine, oltre i monti questo riconoscimento. Ricevendo questa mirabile opera d’arte, unisco al mio personale, profondo e commosso, il grazie di quanti lassù lavorano per tenere viva questa singolarità storica, di una letteratura che è ugualmente, per svizzeri e italiani, nella sigla di De Sanctis, letteratura patria.