Pisa, ottobre 2001
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Chi consegna un premio ha il diritto di sapere come il premiato è arrivato all’oggetto per cui il premio è stato consegnato. Perciò abbozzerò in poche linee la strada che mi ha condotto all’Etruscologia, l’aspetto della cultura italiana a cui ho dedicato una buona parte della mia attività scientifica. Un tale rapporto non solo permette di conoscere la personalità del premiato a quelli che hanno assegnato il premio, ma può anche insegnare qualcosa circa l’attrazione che la cultura italiana esercita sugli studiosi stranieri.
Comincio da un evento che ha cambiato la mia relazione verso l’Italia e la sua cultura facendo di me invece di un partecipante passivo un collaboratore attivo. Nel 1947, nel buio del dopoguerra, Hans Krahe, allora professore di glottologia all’Università di Würzburg, stabilì l’oggetto della mia dissertazione di dottorato. Dovevo studiare i nomi antichi dei fiumi dell’Italia, per stabilire se avessero potuto fornire indizi circa la presenza degli Illirici in Italia; allora studiosi tedeschi cercavano mediante nomi di località gli antenati preistorici degli Illirici balcanici dall’Irlanda fino alla Palestina e da Mosca fino a Lisbona. Nel corso dei miei studi scoprii che studiosi italiani dimostravano, con lo stesso metodo e con gli stessi nomi la presenza di una popolazione mediterranea preindoeuropea in Italia. Conclusi: i miei predecessori di ambedue i lati hanno adottato il metodo correttamente; dunque il metodo stesso era insufficiente; non forniva risultati su lingue e popoli del secondo millennio avanti Cristo. Non ho trovato dunque, nella mia tesi di laurea, nuovi Illirici in Italia, ma ho imparato la geografia italiana ed ho sviluppato un profondo interesse per l’epoca in cui l’Italia era passata dalla Preistoria all’alba della Storia, un interesse che ha guidato una grande parte dei miei studi fino ad oggi.
Ma non è stato puro caso che il mio professore mi abbia attribuito come materia della tesi appunto un oggetto che aveva a che fare con l’Italia. Nei primi anni del dopoguerra, in una città quasi completamente distrutta, noi eravamo un gruppo di studenti molto uniti tra di loro compreso il professore. Ognuno sapeva che io ero interessato all’Italia e che capivo un poco l’italiano, ciò che era utile, anzi necessario per trattare la materia attribuitami. Questa mia relazione con l’Italia aveva uno sfondo biografico.
Mia madre è nata a Merano, nell’anno 1903, quando questa città apparteneva ancora all’impero austriaco-ungherese. Non era neanche una tirolese; mio nonno era prussiano anche lui, ma prussiano del nord, dei dintorni di Berlino, immigrato a Merano come negoziante. Ancora prima della fine della prima guerra mondiale, mia madre, diventata orfana, tornò in Germania, come la maggioranza dei suoi fratelli. Solo uno rimase, diventò italiano e lavorò come dentista a Roma. Questo zio Carli, come noi lo chiamavamo, era un fantasma per noi figli. Non l’abbiamo mai visto; appariva solo nelle sue lettere. Ma queste lettere portavano dei francobolli, che erano molto più concreti del mittente, ed erano molto belli; era quello che mi interessava. Mi ricordo bene di uno della serie per il bimillenario oraziano, che portava il testo non omnis moriar ‘non scomparirò del tutto’, cosa che capii, essendo al secondo anno di latino. Ho tenuto a memoria anche mare pacavi ‘ho pacificato il mare’, scritto su un esemplare della serie del bimillenario augusteo; così conobbi l’autobiografia di Augusto conservata nell’iscrizione chiamata Monumentum Ancyranum perché trovata ad Ankara in Turchia.
Ma non erano solo le belle riproduzioni dei monumenti antichi e i testi traducibili per una recluta del latino che mi attraevano, ma erano anche i ritratti di uomini ovviamente celebri. Chi era Marconi me l’ha insegnato mio padre, professore di Fisica in una scuola superiore; ma Giotto, Pergolesi e Leopardi non erano conosciuti in una famiglia tedesca della media borghesia negli anni trenta del secolo scorso; dovetti rivolgermi al catalogo di francobolli per delle informazioni, che però erano abbastanza magre. Me ne ricordai volentieri quando, venti anni più tardi i professori dell’Università per Stranieri di Perugia, durante un’escursione a Recanati, ci hanno mostrato il Colle dell’Infinito e la strada, per la quale, il sabato, la donzelletta veniva dalla campagna recando un mazzolino di rose e di viole.
Quando avevo 15 anni, l’interesse per i francobolli è stato sostituito da un contatto più diretto con la cultura italiana: imparai la lingua di questa cultura, o meglio: alcuni vocaboli e le regole dell’italiano in un corso di materia facoltativa nel nostro liceo classico a Würzburg, ed imparai, soprattutto, alcune canzoni italiane: la ‘giovinezza’ inevitabile nel 1941, ma anche quella napoletana dell’astro d’argento che luccica sul mare. Ho constatato allora ed anche più tardi che il modo migliore di imparare la pronuncia delle vocali italiane è ascoltare un italiano che canta, non necessariamente appunto Pavarotti; basta un giovane dottore come Corrado Grassi più tardi professore di Dialettologia italiana, che passò l’anno 1953 all’Università di Tubinga e ha completato il mio repertorio insegnandomi le canzoni degli Alpini.
Un contatto diretto con l’Italia, però, mi fu negato durante la mia gioventù. Come sedicenne allora tentai di persuadere i miei amici a andare assieme in bicicletta dal Brennero almeno fino a Verona, se non fino a Firenze; dal Brennero in giù la bicicletta sarebbe andata da sé; avremmo dormito in tenda e ci saremmo nutriti di frutta che sarebbe costata poco. Gli amici esitavano, giustamente come posso dire oggi; le mie idee erano un po’ ingenue. Finalmente il progetto naufragò di fronte all’economia: nel 1942 era impossibile per un tedesco normale ricevere lire italiane, alle quali, malgrado tutta la parsimonia, non avremmo potuto rinunciare. Per la prima visita all’Italia dovetti aspettare fino al 1951, e allora ero già dottore.
Con ciò il mio racconto biografico è arrivato al punto in cui ho cominciato a contribuire in modo attivo ad una più profonda conoscenza della cultura italiana. Vi prego di accompagnarmi in alcuni passi che feci su questa strada. Il primo di questi passi mi condusse dagli Illirici agli Etruschi, da un popolo preistorico e difficilmente tangibile in Italia al di fuori della Puglia, ad un popolo presentissimo nell’Italia antica, ma di un’aria misteriosa, della cui lingua non si sapeva molto e della cui provenienza si discuteva – e si discute finora e si discuterà nel futuro. Il presupposto di questo mio passaggio era il fatto che nel nostro seminario a Tubinga esisteva il Corpus inscriptionum etruscarum, la collezione delle iscrizioni etrusche, una rarità, che ho sfogliato con piacere. Per comprendere il motivo generale bisogna immaginarsi lo stato d’animo di uno studioso che si occupa delle lingue indoeuropee dell’Italia antica e che incontra ogni terzo giorno il reale o presunto influsso dell’etrusco su di esse, l’influsso di una lingua non-indoeuropea (o non dimostrabile indoeuropea), di cui non è padrone. Mi diventava sempre più chiaro: bisogna prendere questo toro per le corna. Il motivo finalmente decisivo fu che, durante lo studio di un problema dell’illirico, ho costatato in un esempio concreto lo stato deplorevole della Glottologia etrusca. Ovviamente essa rinunciava in larga misura a rispettare il punto di vista storico, e ciò nonostante il fatto che le diecimila iscrizioni etrusche si estendano dall’ottavo secolo a. C. al primo secolo d. C. e da Mantova fino a Salerno.
Ancora nello stesso anno decisi di frequentare il corso di Etruscologia all’Università per Stranieri di Perugia -benevolmente aiutato da una borsa di studio data dalla RAI. Ho seguito con massimo piacere le lezioni di Massimo Pallottino e di Giacomo Devoto, le due personalità che per più di mezzo secolo hanno dominato gli studi dell’Italia antica sul piano internazionale non meno che su quello nazionale. Ho imparato molti particolari in queste lezioni; ma la cosa che mi fece l’impressione più profonda era un nuovo ed inconsueto atteggiamento dello studioso verso la sua materia e verso la società. Ero abituato a lezioni che presentano i dettagli corretti ed in un buon ordine.
A Perugia ho visto i dettagli inseriti in contesti non solo immediati ma anche generali. Massimo Pallottino considerava l’Etruscologia come disciplina interdisciplinare, che comprendeva Archeologia, Storia Politica, Storia della Religione, Sociologia e Glottologia; per Giacomo Devoto la Glottologia italica non era che una parte della scienza dell’uomo. Personalmente ho sempre ritenuto giusto lo sforzo di presentare i dettagli con la massima precisione possibile; ma mi impegno anche di vedere i dettagli su uno sfondo più vasto, senza raggiungere mai i miei maestri italiani.
A Perugia ho ottenuto il diploma di Etruscologia, con un esame orale e con una tesi sullo sviluppo fonetico delle parole etrusche nel corso del tempo. Poi mi sono occupato del modo di designare una persona, che presso gli Etruschi era lo stesso che a Roma: all’inizio il nome individuale, chiamato prenome, poi il nome di famiglia, poi il prenome del padre, finalmente un soprannome, come in Gaius – Iulius – Luci filius – Caesar. Lo sviluppo di questo sistema di designazione era in larga misura parallelo a Roma ed in Etruria. Il nome di famiglia ereditario, la grande novità del sistema, era nato, come si lascia dimostrare, nel settimo secolo a.C. nella zona del basso Tevere come prodotto della convivenza di popoli di lingua e di struttura sociale differente: Etruschi, Latini, Umbri. Il nome di famiglia è un contributo fondamentale, che l’Italia protostorica ha conferito alla civilizzazione del mondo.
In generale, la comprensione dei testi etruschi –in numero di circa 10.000– viene reso insolitamente difficile per il fatto che la lingua etrusca è isolata, non indoeuropea e senza altri parenti ben conosciuti. Perciò per l’accesso a questa lingua il metodo comparativo, tanto fruttuoso nello studio delle lingue indoeuropee dell’Italia preromana, non è impiegabile, o, meglio, è impiegabile solo nel settore limitato delle parole date o prese in prestito. Oltre non resta che la strada dura di combinazioni. Prima dal contesto di un’iscrizione si traggono conclusioni nel suo contenuto: iscrizioni su vasi trovati nel deposito di un santuario saranno con grande probabilità dediche ad una divinità. Poi si tentano combinazioni interne; nell’esempio citato si constata quali elementi devono o possono appartenere ad una dedica, dedicante, divinità, oggetto dedicato e azione di dedicazione, e si chiede in quale misura questi elementi del contenuto possono essere correlati con gli elementi identificabili del testo scritto, e così via. Oggi comprendiamo non solo la grande maggioranza dei testi brevi, ma anche non pochi passi di quelli più lunghi, e la comprensione della struttura della lingua cresce continuamente. Anche se siamo ancora lungi dal saperne tutto, l’etrusco non è più una lingua sconosciuta, misteriosa. Il mio contributo a questo processo di conoscenza sembra sia stato ritenuto degno del Premio Galileo Galilei.
Alla fine mi permetto alcune parole personali. Nel corso della mia vita ho conosciuto l’Italia assai bene. Sono andato a piedi sul bordo della pianura pontina da Sezze Romano a Cori. Ho attraversato in una marcia di 14 ore i Monti Sibillini da Castelluccio di Norcia in Umbria a Montemonaco nelle Marche; i pastori ci hanno insegnato l’unica discesa verso il lago di Pilato. Ho provato l’ospitalità siciliana, quando, andando da Erice verso Segesta, non abbiamo trovato il minimo albergo a Buseto Palizzolo. Le città italiane non erano per me solo sedi di musei che contengono iscrizioni preromane; ho visitato anche le chiese romaniche o i palazzi rinascimentali. Lecce, capitale delle iscrizioni messapiche, mi ha entusiasmato col suo barocco, tanto differente da quello bavarese che conoscevo. Un dipinto del Caravaggio, che per me è il più grande pittore non solo d’Italia, mi poteva deviare dalla via diretta per arrivare al prossimo museo o al prossimo convegno. Questi convegni sono una roba faticosa, ma hanno indiscutibili valori: permettono lo scambio di idee e di informazioni, facilitano il contatto con giovani interessati e sono una splendida occasione di trovare e di ritrovare amici. Io stesso ho avuto la fortuna di aver trovato fra i miei colleghi italiani amici, buoni amici, buonissimi amici; sono molto riconoscente di ciò. Parimenti ringrazio tutti i presenti di aver ascoltato le mie parole, e ringrazio di nuovo dell’onore che mi è stato dimostrato con il conferimento del premio Galileo Galilei.