Pisa, ottobre 1972
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Con grandissima soddisfazione ricevo il premio internazionale Galileo Galilei dei Rotary Italiani sotto gli auspici dell’Università degli Studi di Pisa, e porgo all’illustre professor Bolelli e ai membri della Commissione che mi hanno scelto, i miei più sentiti ringraziamenti. E’ questo un alto onore – del quale sarò sempre profondamente riconoscente -, per me tanto più gradito in quanto lo ricevo dall’Italia, alla quale mi sento legato non solo dai miei studi, ma da molti vincoli di affezione, e in fine perché mi è stato conferito da una commissione nominata dal Magnifico Rettore dell’Università di Pisa, che da tanti secoli occupa un posto così elevato ed importante nella storia delle scienze. Nella lettera di notifica il professor Bolelli ha scritto che la Commissione mi aveva conferito questo premio in considerazione dei miei meriti di studioso della storia della scienza italiana. Ma i meriti miei sono piuttosto quelli dei rinomati scienziati italiani le cui opere ho studiato, cioè Girolamo Fabrizi d’Acquapendente e Marcello Malpighi. Nessuno studioso della storia della scienza, infatti, potrebbe lavorare senza riconoscere ben presto che i contributi degli scienziati italiani attraverso tutti i secoli sono stati di grado elevatissimo. L’elenco è magnifico e non ha bisogno delle povere parole mie per essere illustrato; ciascuno lo conosce perfettamente. Mi sono interessato contemporaneamente alla scienza italiana e all’embriologia. Più di quarant’anni fa, in vero, ho cominciato a studiare le indagini condotte dai tre grandi, Ulisse Aldrovandi, Girolamo Fabrizi d’Acquapendente e Volcher Coiter che furono i primi dopo Aristotele ad esaminare con i propri occhi lo sviluppo del pulcino nell’uovo. Di questi, come vedete, due erano italiani, ed uno di loro era maestro del terzo, l’olandese Volcher Coiter, che nel 1572 pubblicò a Norimberga nelle sue Externarum et internarum principalium humani corporis partium tabulae le prime osservazioni giorno per giorno dello sviluppo del pulcino. Maestro del Coiter fu, ripeto, Ulisse Aldrovandi, genio universale, il quale lo spinse a cominciare le sue ricerche sul pulcino. Il Coiter stesso riconosce il debito. “A Bologna nel mese di maggio 1564”, ci dice: “…stimolato dal Dottor Ulisse Aldrovandi (eccellentissimo professore di filosofia ordinaria, uomo esimio nella conoscenza delle varie scienze ed arti e particolarmente della filosofia naturale, mio animatore e maestro sempre colendissimo) e incoraggiato da altri professori e studiosi, avevo scelto due chioccie, cioè galline pronte per la cova. Sotto ognuna avevo posto ventitré uova, e, assistenti quegli uomini, ne apersi ogni giorno uno affinché determinassimo soprattutto questi due punti, cioè, l’origine delle vene e quale cosa si forma prima nell’animale.” Non occorre testimonianza più chiara per confermare che lo stimolo per il ripristino di osservazioni embriologiche dirette fu d’origine italiana. E può darsi che le osservazioni d’Aldrovandi, benché pubblicate soltanto nel 1600, nel secondo volume della sua Ornithologia, fossero fatte prima di quelle del Coiter. Dopo aver pubblicato nel 1933 una traduzione, con annotazioni delle osservazioni del Coiter mi sono rivolto ai trattati embriologici del grande anatomista di Padova, Girolamo Fabrizi d’Acquapendente, cioè ai suoi De formato foetu e De formatione ovi et pulli, pubblicati a Venezia rispettivamente nel 1604 e nel 1621. Non è questo il tempo per esaminare codeste meritevoli opere; basti dire che contengono una quantità sostanziale di osservazioni perspicaci che purtroppo soffrono sotto il peso di una sovrastruttura filosofica forse troppo elaborata e complicata. La ragione è che il Fabrizi voleva ordinariamente sapere lo “Perché” di un fenomeno, non lo “Che” o lo “Come”. La mia edizione, con annotazioni, dei due trattati embriologici del Fabrizi è uscita nel 1942, e poi per quasi vent’anni sono vissuto con quel celeberrimo embriologo italiano e mondiale che è Marcello Malpighi. Nel 1966 videro la luce i cinque volumi del mio Marcello Malpighi and the Evolution of Embryology. Il libro comprende quattro parti. Il fulcro, che riempie quattro volumi, è una traduzione delle sue due dissertazioni embriologiche accompagnata da annotazioni particolareggiate. Le altre tre parti comprendono un panorama di Bologna e della sua Università nel Seicento; un sunto delle idee principali premalpighiane di embriologia; e una biografia del Malpighi basata su fonti originali conservate principalmente a Bologna. Nelle sue ricerche embriologiche il Malpighi fu il primo ad usare il microscopio sistematicamente e fruttuosamente; prova ne è che le sue descrizioni di ciò che aveva visto riguardo lo sviluppo del pulcino per più di un secolo e mezzo non furono migliorate da embriologi che pur lavoravano con strumenti molto più precisi che i suoi. Mentre studiavo i documenti per l’opera testé citata mi sono convinto che sarebbe stata una cosa benemerita fornire a tutti gli studiosi, malpighiani o non, la pubblicazione completa del corpo di lettere scritte dal ed al Malpighi, perché queste sono non soltanto una miniera di notizie sul Malpighi e sulla sua opera ma anche un quadro vivido del pensiero della sua epoca. Da dieci anni, dunque, sto preparando un’edizione dell’epistolario del Malpighi, e sono felicissimo di poter dire che il mio manoscritto è ora nelle mani della Cornell University Press. Contiene circa millecento lettere, delle quali circa quattrocento furono scritte dal Malpighi stesso e più di seicento indirizzate a lui da oltre centocinquanta personaggi, fra i quali molti scienziati italiani e stranieri ora conosciuti per tutto il mondo. Sono rimaste finora inedite circa la terza parte delle lettere scritte dal Malpighi, e i due terzi di quelle scritte a lui. Non si può raccontare qui tutta l’opera embriologica del Malpighi, e neppure la sua teoria dello sviluppo. Non posso neanche parlare dei suoi contributi all’anatomia microscopica, tema già trattato da altri e con una lucidità scintillante dal professore Luigi Belloni nella sua edizione delle Opere Scelte del Malpighi. Qui a Pisa, invece, conviene assolutamente ch’io parli, purtroppo succintamente, dei tre anni pisani del mio autore, anni vissuti come professore di medicina in questa Università, e della influenza profonda e durevole che esercitavano su di lui e sulle sue opere i grandi che insegnavano qua. Non c’è il minimo dubbio che l’Italia sia la culla della metodica fisico-matematica e sperimentale e che questa fosse per la prima volta sistematicamente e rigorosamente applicata in Italia alla soluzione dei problemi della scienza. E Malpighi ebbe la buona fortuna di vivere ancor giovane sotto l’influenza di uomini che simpatizzavano con la così detta scienza nuova e che partecipavano alla rinascita del metodo sperimentale. Nato a Crevalcore nel 1628 andò a Bologna quando aveva diciassette anni. I suoi primi maestri nello studio della medicina furono Bartolommeo Massari e Andrea Mariani, ambedue uomini dottissimi e aderenti alla scuola neoterica. Da loro, come ci dice il Malpighi stesso, “Imparai a conoscere i libri più scielti, ed a suo tempo il metodo di medicare; e perché all’hora incominciò a rendersi famosa la circolatione del sangue, e le nascenti nove cognitioni anatomiche, il Signor Dottor Massari incuriosito formò una radunanza in casa sua d’un Coro anatomico di 9 soggetti, fra’ quali hebbi l’honore d’esser arolato. Questi facevano privatamente una lettione anatomica a sua elettione, in oltre si facevano frequenti settioni… in varij animali vivi, e con l’opportunità de i giustitiati, ne i cadaveri humani, onde m’incuriosij di molto in questa Professione”. Così veniva istradato il Malpighi nelle nuove teorie, nei metodi dei neoterici. Nel 1633 ricevé la laurea e nell’anno 1656, avendo ottenuto finalmente una pubblica lettura di filosofia nello Studio di Bologna, cominciò a leggere lì. Nello stesso anno, però, onorato dal Granduca Ferdinando II d’una cattedra di medicina teorica straordinaria, si recò subito a Pisa. Era ancora vivissimo lo spirito del Galilei, e dopo poco venne costituita a Firenze da Ferdinando II e da suo fratello il principe Leopoldo, la famosa Accademia del Cimento. Come ci dice il Malpighi, “In quel tempo nei Serenissimi Gran Duca e Principe Leopoldo s’eccitò un’ardente curiosità delle cose anatomiche e fisiche, onde si resero in Corte familiari e frequenti le settioni di varij animali, framezate con gl’affari politici, che diedero poi motivo a quella famosa radunanza dell’Accademia del Cimento”. Il Malpighi conosceva a Pisa alcuni soci dell’Accademia ed altri uomini dotti. Ma fu specialmente la sua amicizia con Giovanni Alfonso Borelli, l’ingegnosissimo professore di matematica a Pisa che divenne di gran lunga la più preziosa e proficua, ed esercitò il più grande influsso sulla sua formazione mentale. “Indubbia”, dice il professor Luigi Belloni, “…è l’ascendenza Galileana del Borelli. Trasferitosi in giovane età dalla nativa Napoli a Roma, fu quivi allievo del matematico Benedetto Castelli…, a sua volta allievo diretto del Galilei”. E come del Borelli, aggiungo io, l’ascendenza galileana del Malpighi è altrettanto chiara. Anche allora il Borelli aveva già cominciato i suoi lavori sulla sua opera De motu animalium, e poiché era un dissettore poco esperto dovette valersi dei servizi d’altri. Con lui, ci dice Malpighi, “…contrassi stretta servitù, et amicitia, e doppo le lettioni publiche seco giornalmente trattenendomi discorrevo di cose anatomiche. Egli adunque si compiaque instradarmi nello studio della filosofia libera e democritea, e da esso riconosco ciò che d’avanzamento io hò fatto filosofando. All’incontro tagliando in animali vivi et osservando le loro parti in casa sua, m’affaticavo sodisfare la somma sua curiosità…”. Da ciò che ci racconta il Malpighi stesso e dalle lettere borelliane è chiarissimo che il periodo Pisano fu di somma importanza sia per il suo lavoro come anatomico-microscopista sia per la sua concezione della pratica della medicina. Ho dimostrato altrove, tramite le sue lettere, che fu proprio il Borelli a incoraggiarlo (potrei dire in verità “spingerlo”) a studiare la struttura dei polmoni. Ma il Malpighi voleva applicare il metodo sperimentale anche alla pratica della medicina, convinto com’era che la medicina del suo tempo fosse irrazionale e che avesse poco di scientifico. La medicina, scrisse verso la fine del 1687 al dottor Angelo Modio di Roma, “…è oscura e nella mia mente è tutta tenebre senza un raggio di luce”. Ed ad Antonio Ferrarini di Modena scrisse nell’agosto del 1689: “…La prattica oggi resta in mano di persone, che hanno per massima, e fine d’alterare la medicina presente, facendo risorgere quella de i Barbari e degli Arabi”. E a Bernardino Ramazzini nel novembre dello stesso anno e dopo la morte del Ferrarini, notificò “…che questa morte era una perdita… grandissima, poiché cuore più aperto e sincero non ho praticato, oltre le qualità, e talento, che possedeva nell’Arte nostra, nella quale per lo più s’impiegano que’ Cervelli torbidi, o inetti, che non possono riuscire in altro”. Per il Malpighi, dunque, praticare la medicina significava cercare continuatamente e ripetutamente le basi anatomiche e fisiopatologiche delle malattie; queste, per lui, furono l’unico fondamento solido per la diagnosi e la cura. Lo dice spesso nelle sue opere, basta citare due brani della Risposta al suo nemico inflessibile Girolamo Sbaraglia, capo degli Antichi nella battaglia contro i Moderni. Lo Sbaraglia aveva scritto il trattato polemico De recentiorum medicorum studio, e Malpighi risponde che la natura “…per esercitare le mirabili operazioni negli animali e nei vegetabili, si è compiaciuta comporre il loro corpo organico con moltissime macchine, le quali, per necessità, sono fatte di parti minutissime, in tal maniera configurate e situate, che formano un mirabile organo, la di cui struttura e composizione con gli occhi nudi, e senza aiuto del microscopio, per lo più non si arriva: anzi, molte e molte di grande importanza sfuggono. Onde non è da sprezzarsi la diligenza dell’arte nel procurar instrumenti, e praticarli, per arrivare all’artificio mirabile delle parti che sono principio dell’operazione sana e morbosa. Ma questa calamità è da piangersi che, per la fiacchezza e debolezza dei nostri sensi, restiamo privi di poter ammirare tutte le belle opere di Dio, quale gli Antichi stessi confessano più meraviglioso nell’organizzazione degli animali piccioli, che dei grandi”. E continua: “…Se l’anatomia porta vantaggio alla più soda medicina, mostrando l’origine e la sede dei mali, le loro cause e il modo di generarsi, dalle quali si cavano le indicazioni per scegliere li rimedi; quanto più sarà veridica ed esatta, tanto più sarà utile… Atteso che la medicina, anche pratica, non consiste nell’esibizione del rimedio, ma nella considerazione dei segni, nel ricercamento delle cause e nelle indicazioni da cavarsi a priori: le quali cose ricercano la cognizione dell’economia dell’animale, e conseguentemente un’esatta perizia, per quanto si può, della struttura meccanica delle parti solide e della natura de’ fluidi che si elaborano nelle viscere nello stato sano. E perché il medico, non solo conserva lo stato naturale, ma anche leva gli impedimenti e i prodotti delle cause morbose; quindi ne nasce che il pratico deve saper l’organizzazione naturale, mediante l’anatomia; e i prodotti morbosi, mediante l’apertura dei cadaveri”. Il professor Sotgiu l’ha detto molto bene. “Il senso vero e profondo di tutta l’opera di Malpighi fu questo, dare delle basi scientifiche alla conoscenza della vita ed alla medicina”. Insomma, non c’è dubbio, mi pare, che questo concetto di una medicina scientifica imparato da Marcello Malpighi prima a Bologna, è stato in lui corroborato a Pisa dall’esempio del Borelli, a Pisa dove esso ancora anima ed inspira la Facoltà Medica in tutto il suo lavoro.