Pisa, ottobre 2015
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Il Premio Galilei è davvero un grande onore che nonostante tutto quello che è stato detto di me non credo di meritare. L’onore è ancora più grande se penso che sono soltanto la seconda donna a riceverlo, e mi da ancora più piacere sapere che il mio predecessore è la mia compianta collega al Warburg Institute, Dame Frances Yates. E’ vero che come ogni accademico ho pubblicato molti libri e articoli, ma non sono né più numerosi né migliori di quelli di tanti colleghi che mi vengono in mente. Però, in ogni caso, un omaggio dall’Italia ha un sapore speciale per me. Venni in Italia per la prima volta nell’anno tra la fine del Liceo e l’inizio dell’Università. Oggi i giovani se ne vanno a fare trekking nell’Estremo Oriente, ma in quei tempi antichi noi eravamo meno avventurosi e venni mandata ad abitare con una famiglia a Firenze, con il progetto di farmi imparare l’italiano (progetto fallito, come potete sentire) e di farmi guardare opere d’arte (cosa che feci davvero). Arrivai a Firenze di notte e con un taxi raggiunsi San Domenico. Non dimenticherò mai il risveglio, la prima mattina: i cipressi sulle colline e la cupola del Duomo che si erge nella foschia. Da quel momento fui stregata, dall’Italia e da Firenze, anche se poi è cambiata tanto. Sono soltanto uno degli innumerevoli Britannici innamorati dell’Italia, un fenomeno che nasce ben prima dello studiatissimo Grand Tour e che continua nei nostri giorni con chi ha colonizzato prima la Toscana, poi l’Umbria e oggi (grazie a Ryanair) le Marche. Siamo stati attirati dal paesaggio, dal cibo, e dal clima, anche se quest’anno ho incontrato vittime della calura estiva che sono scappate dall’Italia per trovare rifugio in Inghilterra. Ma soprattutto siamo stati affascinati, e formati, dalla cultura di questo Paese. Qualunque scolaro in Inghilterra sa quanto Shakespeare abbia imparato dalla letteratura italiana, e qualunque visitatore delle nostre country houses e musei può vedere con quanta diligenza i nostri antenati hanno collezionato dipinti e sculture italiane e imitato l’architettura di Palladio. In quella prima visita imparai, ad esempio, che Botticelli dipinse la Primavera. Non ero molto acuta e dunque non mi venne in mente di chiedere come mai lo sapessimo. Al ritorno a Londra andai a vedere due grandi mostre, una di dipinti da Monaco e l’altra di arte di ogni genere da Vienna. Tutte e due avevano un catalogo e per la prima volta vidi che gli studiosi spesso non vanno d’accordo sulle attribuzioni e che se ne può discutere. Per una che ama avere discussioni, fu una rivelazione: la storia dell’arte era molto di più che imparare fatti e basta. Ma i fatti sono importanti. A Oxford, dove avrei dovuto studiare scienze politiche, filosofia e economia, passai molto più tempo di quanto avrei dovuto nella biblioteca dell’ Ashmolean Museum, leggendo soprattutto la Storia dell’Arte Italiana di Adolfo Venturi, gli studi di Leo Planiscig sulla scultura italiana e altri libri e articoli a cui quei due testi mi condussero. Di almeno uguale importanza sono le opere d’arte, e avendo io deciso di voler studiare i bronzetti italiani, fui felicissima quando il curatore dell’Ashmolean mi affidò le chiavi delle vetrine e mi disse che potevo aprirle e maneggiare la splendida collezione di piccoli bronzi. Credevo ancora che la storia dell’arte fosse sapere chi ha fatto che cosa, ma nel mio ultimo anno a Oxford Ernst Gombrich fu lo Slade Professor e le sue lezioni (che più avanti divennero A cavallo di un manico di scopa) insieme all’invito a usare la biblioteca del Warburg Institute a Londra mi aprirono gli occhi su un modo del tutto diverso di interpretare la disciplina. Quando ero una dottoranda mi venne chiesto di scrivere per uno dei tanti dizionari dell’arte che allora proliferavano. Quell’esperienza mi insegnò una cosa importante: scrivere in maniera concisa. Certo, è una capacità che può trasformarsi in un incubo quando si deve scrivere un testo lungo. Però ricordo con un sorriso lo choc di alcuni dei miei colleghi italiani quando chiesi loro di limitarsi al massimo a una pagina per le schede del catalogo della mostra su Alessandro Algardi, eliminando aggettivi inutili e tagliando lunghe perifrasi. Sono un poco imbarazzata dall’ignoranza che ho messo in bella mostra in quelle voci per il dizionario, ma mi consolo sapendo che mi obbligarono a osservare con più attenzione cammei e medaglie, argomenti a cui ero già interessata ma che non avevo studiato con profondità. Le gemme incise non mi avevano colpita all’inizio, ma quando dovetti integrare nella collezione fotografica del Warburg le immagini donate da Ernst Kris, compresi il loro fascino. Dovetti poi fare lo stesso lavoro di integrazione per le foto lasciate da Heinrich Bodmer. Si trattava soprattutto di dipinti bolognesi, dei quali egli era un esperto, e di altre opere, alcune con le sue autentiche scritte sul retro. Ero sbigottita dalla loro palese falsità e da allora non mi fido di nulla che arrivi accompagnato da un’autentica, anche quando firmata da qualcuno che ammiro. Sovente è chiaro che il denaro conta di più della verità. Chiaramente non fu durante la mia prima visita a Firenze, ma più tardi, che conobbi alcuni dei miei colleghi italiani. Il primo era, appunto, Carlo Bertelli, uno dei giudici di questo Premio, ma a quel tempo un giovane studente dell’Università. Ma devo nominare Italo Faldi, un uomo che mi ha aperto molte porte e che sapeva essere generoso non solo, come spesso accade, con chi è importante e famoso, ma anche con i giovani studiosi. Sono diventata amica di molte persone delle Soprintendenze e dei curatori dei musei che frequentavo e voglio qui menzionare Maria Giulia Barberini, che si è fatta carico di tutto il duro lavoro di organizzare la mostra su Algardi, e Gabriele Barucca, che mi ha insegnato come guardare gli argenti e che si è dedicato a tutta la preparazione della nostra mostra sugli argenti settecenteschi nelle Marche. Ho anche avuto l’onore di diventare amica di due restauratori come Giovanni Morigi e Sante Guido. A quest’ultimo devo l’esperienza indimenticabile di salire sulle impalcature ed esaminare da vicino alcuni capolavori della scultura per capire come vennero realizzati, cosa che sarebbe stata impossibile restando a terra, e anche senza le sue dotte osservazioni. Potrei ovviamente nominare molti altri colleghi italiani che ho incontrato e ai quali sono legata, ma non sono mai stata veramente parte di quella che si potrebbe descrivere come la scena della storia dell’arte accademica in Italia. Se scorro la lista dei miei illustri predecessori nel ricevere questo premio, mi accorgo che sono una persona che come Sir John Pope-Hennessy non ha mai studiato storia dell’arte. A differenza di lui, ho scritto una tesi di dottorato, ma mi viene il dubbio che me l’abbiano lasciato fare solo perché era una tesi di teoria (l’espressione delle passioni) e non dell’arte, e richiedeva una preparazione in filosofia, la materia che si presumeva che avessi studiato a Oxford, e in psicologia, disciplina che tentai di imparare nonostante la maggior parte dei libri fossero in tedesco, una lingua che non ho mai veramente padroneggiato. Non posso parlare per Pope-Hennessy, ma per quanto riguarda me posso dire che il fatto che nessuno mi abbia mai insegnato come scrivere di storia dell’arte è stato in un certo senso un vantaggio, e che se ho portato qualche contributo agli studi è stato in parte perché nessuno mi ha detto che cosa dovevo scrivere: ho soltanto cercato di rispondere ad alcune domande che mi intrigavano. Sotto un altro punto di vista, ha lasciato zone d’ombra nella mia conoscenza, visto che ho studiato soltanto quello che mi interessava, per cui ci sono argomenti, come le miniature medievali, dei quali non so nulla. La metodologia è un altro tipico elemento di un percorso tradizionale, e l’ho completamente saltata. Anzi, non mi ha mai attirato e non mi sono mai occupata dei miei “metodi” o di quelli degli altri. Eppure in Inghilterra negli ultimi anni del secolo scorso non si poteva fare a meno di parlarne, e in America l’Art Bulletin giunse a chiedere che ogni articolo comprendesse una dichiarazione del metodo impiegato, il che mi fece capire che non avrei mai potuto pubblicare di nuovo in quella rivista. Mi ricordo che nel 1968 alla Hertziana gli attriti su questo argomento divennero così forti che temetti che chi scriveva il tipo “sbagliato” di storia dell’arte sarebbe stato messo al muro e fucilato. Questa determinazione di cambiare il modo di scrivere la storia dell’arte fu mai altrettanto diffusa in Italia? So che c’erano anche intense motivazioni politiche, al punto da scoraggiare, o proibire, gli studenti dal leggere le opere di autori considerati politicamente inaccettabili, ma questo fenomeno si estese, al di là della politica e delle persone, al modo in cui la storia dell’arte doveva essere studiata e raccontata? Queste divisioni metodologiche sembrano essersi ridotte, su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma restano delle chiare differenze tra chi si occupa prima di tutto dei fatti basilari (attribuzione, cronologia, e così via) e chi è più interessato a collocare le opere d’arte nel loro contesto. Lascio da parte quelli che hanno un approccio essenzialmente a-storico, ovvero che esaminano l’arte del passato secondo varie teorie completamente moderne. Questi nuovi approcci alla nostra disciplina hanno profondamente influenzato un altro elemento: il linguaggio. In certi casi un’analisi molto complessa può richiedere un linguaggio altrettanto complesso, che non è immediatamente chiaro agli storici dell’arte di una preparazione più semplice e che dobbiamo sforzarci di capire. Ma le scuole più estreme hanno virtualmente inventato un nuovo linguaggio, per me completamente incomprensibile, addirittura con parole che non esistono nei vocabolari. Hanno anche incoraggiato a fare ampio uso di una terminologia esoterica, balzana. Lo so che in italiano come in inglese c’è uno specifico linguaggio accademico (e ho anche provato a tradurre un testo scritto in questa prosa accademica italiana in inglese, con grandissima difficoltà), ma non ho mai capito perché si debbano usare parole che non si userebbero mai in una normale conversazione o che vanno cercate nel dizionario, oppure perché si debba costruire una frase intricata che va poi letta più volte per essere capita. Io penso che se chiediamo agli altri di dedicarci del tempo per leggere quello che abbiamo scritto, dobbiamo cercare di rendere il loro sforzo almeno più leggero, se non possibilmente piacevole. Avevo un amico americano che sosteneva che se il lettore deve faticare e rileggere una frase più volte, allora la ricorderà meglio. La mia esperienza personale è che invece è più probabile che il lettore concluda che non vale la pena di soffrire e butti via il libro. Devo anche aggiungere che ho incontrato persone che ricordano cose che ho scritto soltanto perché li hanno fatti sorridere. Come ho già detto, non mi sono mai interessati i miei metodi e mi sono sempre vagamente considerata un’esponente della storia dell’arte tradizionale, con poco entusiasmo per la cosiddetta “nuova storia dell’arte”. Sono rimasta sorpresa quando un amico ha indicato la mia Scultura barocca romana come un esempio di quella scuola. Ma allo stesso modo ho provato sorpresa vedendomi in forte disaccordo con una collega italiana per al quale la nostra professione dovrebbe dedicarsi solo a fare attribuzioni. Sicuramente le attribuzioni sono importanti, ma sono soltanto le fondamenta sulle quali deve poggiare una comprensione più ampia dell’arte del passato. Ripeto che la mia consuetudine con la storia dell’arte come è praticata in Italia è scarsa, però mi chiedo: è solo un caso che ogni studente che mi chiede un consiglio sull’argomento di una tesi vuole fare una monografia? Certamente la mia impressione è che tale approccio è la norma qui, ma forse mi sbaglio. Siccome vengo dal Warburg Institute ci si può aspettare che sia profondamente coinvolta negli studi di iconografia. Certo, l’identificazione del soggetto di un opera d’arte è – o dev’essere – fondamentale per la nostra comprensione dell’opera, come l’identificazione del suo autore, o la sua data, sono forse anche più fondamentali. Però tra gli articoli che ho scritto uno dei miei preferiti è quello sugli ”enigmi” (un prodotto dell’insegnamento gesuitico) nel quale ho tentato di seppellire le interpretazioni iconologiche più fantasiose, ma non ci sono riuscita. Mi esprimo di nuovo sulla base della mia limitata esperienza, ma mi pare che gli studiosi italiani siano talvolta imprecisi nell’identificazione del soggetto di un’opera d’ arte, e conosco almeno due casi in cui celebri storici dell’arte italiani hanno interpretato dei dipinti non avendo guardato bene le fotografie, con conseguenze ridicole. Non farò nomi. Le fotografie possono sviare, ma lo possono fare anche le opere d’arte quando sono separate dal loro contesto ed esposte in una galleria. Ho avuto la fortuna di fare molti viaggi in Italia e ho sempre cercato il più possibile di guardare la scultura per come doveva essere vista in origine. Sono grata a Oreste Ferrari perché quando era a capo del Gabinetto Fotografico Nazionale mi mise a disposizione un fotografo per riprendere da terra molti busti posti in alto sui muri delle chiese, secondo una angolatura voluta dallo scultore e dunque quasi sempre sporgenti all’infuori così che i volti si potessero vedere dal basso. La maggior parte delle foto, comprese quelle scattate da fotografi famosi come Alinari, erano state prese da impalcature innalzate apposta per trovarsi allo stesso livello dei busti, e dunque raffiguravano soprattutto la sommità della testa. Ho anche cercato di mostrare che questo principio vale anche per le sculture che si trovano in una nicchia alzata da terra, come nella navata centrale del Laterano, e che l’angolatura con la quale andavano viste va sempre tenuta in mente anche quando si guardano opere, scolpite o dipinte, montate su una parete laterale d’una cappella. Gli storici dell’arte possono imparare molto da opere esposte in musei di Paesi lontani, ma soltanto la dimestichezza con il Paese d’origine, le sue architetture e anche la sua luce ci possono permettere di capire come quelle opere dovevano essere osservate, e di leggerle correttamente. Mi hanno suggerito di discutere in questa sede di come la storia dell’arte dovrebbe progredire in futuro. Ma questo non mi va. Perfino io non sono abbastanza anziana da aver vissuto i tempi, negli anni Trenta, quando nei Paesi teutonici, e anche qui, il corretto approccio agli studi di storia veniva dettato dall’alto, ma comunque ho letto alcuni dei risultati di quella imposizione. Però mi ricordo bene la fine degli anni Sessanta. I miei colleghi tedeschi non spararono per davvero a nessuno, e non penso che gli italiani abbiano davvero bruciato alcun libro (al massimo lo avranno tolto dagli scaffali delle biblioteche universitarie), ma la stessa mentalità, la stessa convinzione che ci sia un solo metodo ammissibile di scrivere di storia dell’arte, solo una posizione politica accettabile, era evidentissima. In Gran Bretagna, come sempre, le posizioni erano un po’ più moderate. Per quanto mi riguarda, credo fermamente che ogni studioso abbia il diritto di lavorare come preferisce, a condizione ovviamente che quello che scrive sia basato sui fatti e abbia una prospettiva storica. Ci possono essere tante che cose che non ho alcuna curiosità di leggere, ma anche quelle possono indicare nuovi approcci, aprire nuove strade di interpretazione dell’arte, o porre nuove questioni. Penso che la monografia tradizionale abbia una sua validità, e sono contenta che gli editori italiani vogliano ancora stampare questo tipo di libri, che sono praticamente impossibili da produrre in inglese a meno che l’argomento non sia una donna, nera, afflitta da qualche forma di invalidità e possibilmente con una vita sessuale complicata. Magari uno studio tutto concentrato sull’analisi stilistica mi annoia, ma credo comunque che la capacità di essere conoscitori sia uno strumento che tutti gli storici dell’arte dovrebbero avere, anche se, come le scale musicali per il compositore, non va poi a fare direttamente parte delle loro opere successive. Sarò rimasta sorpresa vedendo il mio libro descritto come un esempio di “nuova” storia dell’arte, ma ammetto volentieri che i seguaci più oculati di quella metodologia mi hanno fatto vedere problematiche a cui altrimenti non avrei pensato. Una pluralità di approcci è un’opportunità di ricchezza. La scelta è fondamentale, ma lo è anche la tolleranza. Storici dell’arte di tutto il mondo possono imparare moltissimo gli uni dagli altri. Per questo è particolarmente gratificante per una storica dell’arte inglese che ha avuto tantissimo dall’Italia ricevere questo premio oggi da voi. Sono infinitamente grata al Rotary Club di Pisa e alla giuria per avermi concesso un tale onore.