Pisa, ottobre 2000
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Passato e Presente della “Questione meridionale” italiana Vorrei cominciare esprimendo la mia profonda gratitudine alla Fondazione Premio Internazionale Galileo Galilei per l’onore che mi è stato fatto con l’onorificenza del Premio Galileo Galilei per la storia economica. Poiché il punto focale della mia ricerca è stato negli ultimi trenta anni la “Questione Meridionale” italiana, mi sembra appropriato prenderla come oggetto dei brevi commenti che seguiranno. Forse la prima cosa da notare è che molti, forse persino la maggioranza degli storici stranieri dell’Italia contemporanea sono stati attirati dal Meridione. Questo è in assoluto contrasto con i periodi primo moderno e moderno, dove gli studiosi stranieri hanno, fino ad un periodo molto recente, completamente ignorato il Meridione – sebbene David Abulafia e John Marino siano eccezioni degne di nota a questa regola. L’interesse mostrato dagli storici stranieri per il Meridione e il suo ruolo nella storia politica ed economica dell’Italia dopo l’Unificazione è semplice da comprendere e data essenzialmente dal decennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale. C’erano naturalmente molti importanti studi precedenti, come l’ “Old Calabria” di Norman Douglas scritto all’inizio del secolo. Ma fu dopo gli anni cinquanta e forse anche gli anni Sessanta che il Mezzogiorno, la Sicilia e la Sardegna divennero il soggetto degli economisti, sociologi, antropologi e storici internazionali. La ragione per questo era ovviamente che i progetti che avevano seguito la “riforma agraria” e la creazione della Cassa per il Mezzogiorno negli ultimi anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta rappresentavano uno dei progetti più ampi e più ambiziosi nell’Europa post-bellica. Questo fu certamente il punto di vista dei personaggi al comando nell’amministrazione degli US e nella World Bank, che avevano risposto con gran favore alle argomentazioni portate avanti nel 1947 da Alcide De Gasperi durante la sua visita a Washington al fine di assicurarsi l’aiuto finanziario americano. Il conflitto sociale nel Meridione post-bellico fece intensificare le paure della Guerra Fredda sulla possibilità di infiltrazione comunista, e resero il programma di sviluppo per il Meridione simile a una bandiera del libero mercato. Da quel momento la tendenza dello sviluppo fu accuratamente monitorata, culminando nel primo gruppo di studi da parte di economisti, sociologi ed antropologi inglesi ed americani. A questo punto la “Questione Meridionale” era considerata da questi osservatori stranieri quasi esclusivamente come uno sbocco di “economia di sviluppo”. Sebbene essi mostrassero poco interesse per la storia di più a lungo periodo del Mezzogiorno, al di là dei pochi obbligatori cenni nella direzione dei “meridionalisti” del volgere del secolo (ancora ci sono alcune eccezioni degne di nota, cioè Shepherd Clough e Patrick Chorley), molti di loro accettarono troppo velocemente che l’arretratezza economica e sociale del Sud fosse causata dalla combinazione di valori culturali storicamente condizionati – e particolarmente quelli di una società contadina, ritenuta resistente a tutte le forme di cambiamento. Questo punto di vista trovò la sua formulazione tipica nel lavoro dell’antropologo americano Edward Banfield che coniò l’infelice termine “amoral familism” per spiegare l’arretratezza del Meridione rurale. Sorprendentemente quel concetto – che collocava le ragioni per la persistente arretratezza economica del Sud nei valori prevalenti nella società del Meridione – ottenne allora notorietà molto maggiore fuori d’Italia di quanto non fosse per il lavoro di un altro scienziato politico americano, Sidney Tarrow. Molto più vicino all’analisi di economisti e teorici politici italiani, il lavoro di Tarrow si concentrò sugli ostacoli politici allo sviluppo economico e al cambiamento sociale nel Sud. La conclusione principale del suo lavoro fu che lo sviluppo delle nuove forme di clientelismo politico di massa nel Sud negli anni Sessanta e Settanta aveva bloccato forme più spontanee di sviluppo economico e reso impossibile da applicare ogni strategia di coerente sviluppo. Queste argomentazioni sono state successivamente riprese e sviluppate sull’analisi dell’organizzazione politica di Napoli e Palermo rispettivamente dallo scienziato politico inglese Percy Allum e dall’americana Judith Chubb. Mentre gli studiosi economici e sociali stranieri guardavano al programma di sviluppo post-bellico del Sud come un esempio classico a livello internazionale delle dottrine economiche dello sviluppo, anche gli storici economici stranieri si erano interessati alle dimensioni storiche del divario nello sviluppo economico e sociale tra Nord e Sud. L’intervento più precoce e più importante fu quello dello storico economico americano, nato in Russia, Alexander Gerschenkron, che identificò nel “dualismo” fra Nord e Sud d’Italia il tipico dilemma di un “tardo angolo industriale”. Gerschenkron comprese che l’Italia, come la Germania e la Russia Zarista, aveva raffinato il livello di industrializzazione alla fine del 19° secolo non attraverso un processo di crescita economica spontanea e di libera impresa, ma come risultato dell’intervento statale e delle strategie di investimento delle banche miste nate negli anni intorno al 1890. Il risultato, per Gerschenkron, fu che l’Italia, come la Germania e la Russia, aveva raggiunto il livello di industrializzazione con una modernizzazione più ampia della sua economia e società – un dualismo che fu incarnato dal rapporto Nord-Sud e che in ogni tardo-angolo industriale minacciò la stabilità delle moderne istituzioni democratiche. L’intervento di Gerschenkron, e la sua critica sia all’interpretazione di Rosario Romeo di una crescita economica italiana sulla fine del 19° secolo, sia alla denuncia elaborata da Antonio Gramsci sul fallimento del Risorgimento nel portare avanti la riforma agraria, il dualismo economico d’Italia arrivò a giocare un ruolo importante nel dibattito internazionale sulle origini economiche delle democrazie contemporanee e le dittature negli anni Sessanta. Osservate dall’inizio del nuovo Millennio, queste argomentazioni ora appaiono astratte e deterministiche. Per più di due decenni gli storici economici hanno messo in discussione il concetto che la precoce rivoluzione industriale della Gran Bretagna nel 18° secolo avesse imposto un modello di crescita economica che tutte le altre società in via di ammodernamento dovettero emulare. E’ ora riconosciuto che c’erano state molte differenti e svariate strade verso il ventesimo secolo, e che la sopravvivenza o la crisi delle istituzioni democratiche non può essere spiegata in termini di modelli normativi di buona e cattiva modernizzazione. Queste intuizioni mobili riflettono non solo i cambiamenti concettuali ma anche le realtà mutate. Quando le dispute post-belliche sulla “Questione Meridionale” presero una dimensione internazionale, il fascismo era ancora, in alcuni giudizi, se non la “fine della storia italiana” almeno il punto principale dell’analisi storica. Quaranta anni dopo questo non è più vero. L’Italia è divenuta una delle società dei consumi più espansive e dinamiche in Europa, una protagonista di primo piano nell’integrazione e democrazia europea. Non ha, perciò, più senso avvicinarsi al passato economico dell’Italia, in termini negativi – per analizzare perché l’Italia fu un “angolo industriale ritardatario” o un caso di “modernizzazione fallita”. La notevole espansione dell’economia e della società dell’Italia post-bellica ha invece incoraggiato gli storici economici a riconsiderare i termini negativi delle passate interpretazioni e a guardare piuttosto a processi di crescita più a lungo termine che hanno dimostrato i propri frutti nella diffusione di piccole e medie imprese per esempio in molte differenti zone dell’Italia Centrale negli anni Settanta ed Ottanta. Anche il Sud è nel frattempo mutato, al di là di ogni riconoscimento, al punto che molti hanno sostenuto che il “problema Meridionale” non esiste più ed sempre stato forse sempre un termine improprio e una esagerazione. Certamente i problemi che le strategie di sviluppo post-belliche cercarono di risolvere – la disperata povertà rurale, la sovrappopolazione, la sottoccupazione, gli standards inferiori di vita e di cultura, l’alta mortalità e la disoccupazione – sono scomparsi. Fino dagli anni Settanta i livelli di consumo sono cresciuti nel Sud, la carenza nell’istruzione si è ridotta, gli standards di salute e di vita sono notevolmente migliorati in molte aree. Le differenze reali che erano nascoste nei più antichi stereotipi del Sud sono diventate più evidenti, in particolare in quelle regioni come gli Abruzzi, il Molise, la Puglia, il Salentino e alcune parti della Calabria dove nuove piccole imprese dinamiche hanno piantato radici. La recente emergenza di Gioia Tauro come uno dei più grandi cantieri di spedizioni in Europa, insieme con la FIAT di Melfi in Basilicata, sembrano esempi capaci di proclamare un nuovo e differente futuro per il Mezzogiorno. Queste aspettative sono state intensificate dai cambiamenti politici che si sono verificati fin dagli inizi degli anni Novanta. Il collasso delle fazioni politiche che avevano dominato la vita politica del Sud e i suoi maggiori centri metropolitani fin dagli anni Cinquanta sembrava confermare la validità degli studi di Percy Allum e Judith Chubb, che avevano sostenuto la precedente analisi di Tarrow dell’impatto del clientelismo politico degli anni Settanta ed Ottanta. Tangentopoli e la reazione contro il crimine organizzato, che seguirono gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino, indicano l’emergenza di una nuova classe politica nel Sud, che ha rifiutato non solo la corruzione politica del passato ma anche le politiche dell’”intervento straordinario” che è visto come la causa principale della sopravvivenza di una “cultura di dipendenza” nel Sud. Tutto questo significa che la “questione meridionale” del passato non esiste più, e che è divenuta un anacronismo? Forse si tratta di una domanda alla quale a uno storico non si può chiedere di dare una risposta, perché il nostro lavoro è quello di cercare di spiegare il passato, non il futuro. Ma una analisi storica tuttavia rimane importante, perché senza di essa noi non possiamo spiegare in quale senso il Sud ponga problemi oggi o li abbia posti nel passato. E’ scoraggiante a questo riguardo che il recente studio di Robert Putnam “Making Democracy Work. Civic Traditions in Modern Italy (Princeton 1994) riecheggi le vecchie generalizzazioni sociologiche degli anni Sessanta e non tenga potenzialmente conto della spinta revisionista della più recente ricerca storica. Ampiamente acclamata come una proposta di rottura di percorso della teoria della “path dependence”, le tendenze di Putnam spiegano le differenze del passato e di oggi fra Nord e Sud in termini di differenze culturali storicamente radicate: la persistenza nel Nord fin dal medioevo di una forte “cultura civica” e la sua assenza nel Sud. Una buona teoria politica non va necessariamente verso una buona storia, e lo schematico punto di vista generale di Putnam evidenzia il controsenso della storia dell’Italia del Nord come di quella del Sud, sostituendo una critica ricostruzione storica con una selettiva generalizzazione sociologica. Ciò nondimeno questa ha profondamente influenzato i modi in cui il contemporaneo Problema del Meridione viene visto al di fuori d’Italia e rende eterni dei sorpassati stereotipi culturali. Gli storici stranieri sono stati meno attivamente occupati nell’esplorare la storia del Sud contemporaneo, ma la notevole espansione della ricerca in Italia negli ultimi due decenni ha di fatto indebolito molti dei presupposti sui quali si basavano le conclusioni di Putnam. Questo ha anche mostrato più chiaramente come le relazioni fra Nord e Sud che si sono sviluppate dopo l’Unificazione, abbiano costituito il meccanismo critico attorno al quale l’Italia raggiunse una modernizzazione economica ma anche una unificazione nazionale. Questo non significa approvare la vecchia idea che il Nord abbia colonizzato il Sud dopo l’Unificazione: non fosse stato per il collasso interno del Regno dei Borboni a causa della sua incapacità di contrastare le minacce della modernizzazione, l’Italia probabilmente non sarebbe mai stata unificata. Ma una volta unificata il Sud sostenne il fardello più pesante in termini economici ed umani. Se questo fu il caso nel diciannovesimo secolo, è stato il caso anche nel ventesimo -l’emigrazione prima del 1914, la devastazione dell’economia agraria del Meridione come risultato della Depressione e delle linee di condotta economica dei fascisti; il rinnovato esodo dal Sud rurale che fornì la forza lavoro per il miracolo economico del secondo dopoguerra dell’Italia. Finché questi meccanismi continuarono ad esistere, le opportunità di un reale cambiamento economico nel Sud erano sempre limitate. Il problema per il presente è perciò: questi meccanismi sono cambiati? Può lo sviluppo economico delle regioni più prospere d’Italia essere mantenuto senza sacrificare gli interessi del Sud? Le risposte a queste domande fornite dalla storia della “Questione Meridionale” sono nel migliore dei casi ambigue. E’ probabilmente vero che il Sud ha sostenuto il peso delle misure di austerità che ha permesso all’Italia di entrare in Eurolandia in modo più pesante di qualsiasi altra regione italiana in termini di declino nell’investimento e nell’occupazione. I livelli di disoccupazione fra i giovani rimangono notoriamente alti, e come il periodico Economist ha recentemente sottolineato, i giovani meridionali sono restii a lasciare il Sud a causa dei più alti costi della vita nell’Italia del Nord, del Centro ed altrove in Europa, anche se le opportunità di lavoro fossero migliori. Forse più malauguratamente non ci sono stati significativi investimenti stranieri nell’Italia Meridionale, considerato che questo è stato il fattore critico nello sviluppo di altre regioni Europee tradizionalmente sottosviluppate – per esempio il Galles e la Repubblica Irlandese. Ma il futuro del Sud italiano sarà ora necessariamente determinato almeno altrettanto dalle decisioni prese a Brussels e a Roma. Se questo diverrà una realtà, provocherà un importante e decisivo cambiamento in quella che fino alla fine del 20° secolo è stata la caratteristica storica principale del “Problema Meridionale”. Come se la caverà il Sud? E’ impossibile rispondere, ma sembra ragionevole supporre da ciò che è accaduto nel secolo e mezzo passato che la diversità e l’eterogeneità del Sud, e la sua frammentazione in molte realtà regionali differenti, si intensificherà probabilmente perché ciò che nel passato ha tenuto insieme il Sud è stata la relazione politica che è emersa dal Risorgimento. Quali vantaggi questa frammentazione possa portare rimane da vedersi – sebbene sembri inverosimile che possa colpire solamente le regioni più meridionali d’Italia. Ma la mia ipotesi è che le regioni meridionali continueranno ad attrarre l’attenzione degli economisti, i sociologi e gli storici Europei per molto tempo a venire. La “Questione Meridionale” d’Italia è dopo tutto unica nella storia Europea. Non c’è un altro esempio di una “questione regionale” europea che non sia distinta da specifiche caratteristiche religiose, etniche o linguistiche: a dire il vero il senso in cui il Sud italiano può essere descritto come una “regione” è ancora problematico e siccome non può essere adeguatamente definito in termini geografici o economici deve essere spiegato in termini storici e politici.