Pisa, ottobre 1986
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Non ho parole per esprimere la sorpresa e la gratitudine che ho provato quando il Professor Bolelli mi ha annunciato la mia designazione per questo premio tanto insigne. La fama del Premio Internazionale Galileo Galilei va ben oltre i confini italiani – ed io stesso lo considero il più alto riconoscimento che nella mia qualità di studioso potesse venirmi attribuito. Mi sento onorato sia dal prestigio del premio in quanto tale sia dalla presenza all’interno del comitato di tanti illustri studiosi di Storia dell’Arte, il cui lavoro è oggetto della mia più incondizionata ammirazione e con cui io, non diversamente da tanti altri studiosi stranieri, ho contratto un enorme debito di gratitudine che non esito a riconoscere. Il Professor Bolelli mi ha chiesto di spiegare perché mi sia avvicinato al mio attuale campo di studio e di illustrare la strada che ho in esso seguita. Mi ci sono avvicinato perché, sin da giovanissimo, non ho visto alternative di sorta. Ma nella vita moderna ci sono vocazioni e per me, fin dai miei più verdi anni, lo studio dell’Arte italiana ha costituito una vocazione cui non ho saputo resistere. Ho abbracciato tale vocazione negli Stati Uniti all’età di tredici anni e mi ci sono dedicato in Inghilterra alla Benedictine School dove ho studiato. Nel contesto culturale di quei tempi si trattava di una vocazione non priva di eccentricità – in inglese non si conosceva neppure il termine ‘art historian’, bensì solo la parola tedesca Kunst-forscher – tuttavia nessuno cercò seriamente di farmi desistere. A quell’epoca non c’erano in Inghilterra neppure le ‘attrezzature’ accademiche per studiare Storia dell’Arte (non v’era alcun setaccio accademico attraverso cui dover passare) ed ero quindi (e sono tuttora) un autodidatta in base agli standard vigenti in Germania e negli Stati Uniti. Ma fin, dall’inizio sono sempre stato convinto che la Storia dell’Arte fosse un tipo di Storia e che una formazione storica fosse tra le due quella più seria e rigorosa. Per questo studiai Storia a Oxford (cosa che si è in seguito sempre rivelata di prezioso ausilio) e contemporaneamente iniziai a lavorare al mio primo libro. Non poteva non essere una monografia (era quella la forma in cui venivano di solito scritti i libri sull’arte italiana in quei tempi) e trattava del pittore senese Giovanni di Paolo. Ad essa fece seguito, due anni più tardi, un volume sul Sassetta. Lavorando al catalogo della Collezione Lehmann di New York non ancora dato alle stampe, ho avuto recentemente modo di riaccostarmi allo stesso campo e rileggendo quei due libri a distanza di cinquanta anni è stata soprattutto la loro sicurezza a stupirmi. Essi si basavano sul convincimento che ad ogni domanda si potesse trovare una risposta e che i fatti si potessero sempre accertare. Vedevo allora la verità come un traguardo cui si poteva arrivare valendosi ad un tempo di diligenza ed intuizione. Oggi sono più consapevole della disparità esistente fra le domande che ci si pongono e le prove documentarie che si possono presentare come pertinenti. C’è una cosa che devo riconoscere senza indugi: non ho mai dovuto lottare. Fin dai primi inizi ho potuto avvicinare studiosi più anziani (studiosi di tutta Europa e in special modo italiani) e il personale direttivo dei musei ed ho potuto inoltre valermi di un piccolo capitale. Negli affreschi e nei riquadri di predelle italiani chi ha una vocazione dà il suo denaro ai poveri: io non l’ho fatto. Investii il mio capitale nel sapere e questo mi consentì per i tre anni successivi alla mia partenza da Oxford di insegnare a me stesso come guardare i dipinti. Soggiornai a Vienna e a Berlino, imparai a conoscere i pezzi di ogni museo tedesco di qualche importanza e, quel che più conta, gettai le basi della mia conoscenza dell’Italia, concentrandomi in special modo sulla provincia di Siena. In Inghilterra gli anni trenta furono tormentati dall’incombere della guerra, ma grazie all’emigrazione tedesca il clima intellettuale della Storia dell’Arte (così come quello di altre discipline) subì un cambiamento con l’arrivo di quello che fu un vero e proprio fenomeno, il Warburg Institute, e di quella costellazione di studiosi che annoverava Fritz Saxl, Rudolph Wittkower, Edgar Wind, Wilde Buchthal, Demus e Otto Paecht. E’ grazie al peso del bagaglio che si portarono dietro, bagaglio intellettuale intendo, e non solo le conoscenze in sé ma il peso dei loro principi e della loro pura intelligenza, che Londra diventò ed è sempre rimasta quel vivace Centro di ricerca di Storia dell’Arte che è ancor oggi. Nel 1938 cominciai a lavorare per il Victoria and Albert Museum, presso cui restai, tolti gli anni di guerra, fino al momento in cui, in qualità di Direttore, nel 1973 andai in pensione. Dal momento che sono stato in seguito per tre anni Direttore del British Museum e per dieci anni responsabile del Dipartimento di Pittura Europea presso il Metropolitan Museum di New York, la maggior parte del lavoro di studioso da me compiuto ha subito lo stimolo del clima dei musei. Si sostiene talvolta (specialmente negli Stati Uniti) che un serio lavoro di ricerca possa essere svolto soltanto nelle Università, ma io non credo che sia così. Uno dei pregi del contatto con i musei è che si evita così il rischio di trattare le singole opere d’arte come concetti. Si considerano invece i manufatti come cose fatte, appunto, e i vantaggi pratici derivanti da una tale impostazione sono davvero enormi. Nella propria mente predomina il costante interrogativo “Perché questo dipinto o questa scultura ha assunto questa forma e non un’altra?” Un altro pregio dell’ambiente dei musei è lo stimolo che favorisce la comunicazione. C’è un rapporto diretto fra la tecnica che ispira l’esposizione delle opere d’arte e quella che sta alla base della loro presentazione e discussione per iscritto. Se si scrive, si scrive per essere capiti. Furono quelli alcuni dei motivi che mi portarono nel 1943 a cominciare a lavorare ad un catalogo dei disegni di Domenichino nella Biblioteca Reale del Castello di Windsor. C’erano naturalmente altre ragioni per farlo. La prima era la spaventevole ampiezza della collezione – c’erano più di millesettecento disegni – la seconda ragione era il fatto che la collezione rappresentava (se si eccettuano alcuni cartoni) tutto quanto si trovava nello studio di Domenichino al momento della sua morte; e la terza (e a mio avviso più importante) era che il giudizio su Domenichino come artista si era nei secoli modificato più ampiamente di quello su qualsiasi altro pittore importante. Quello che era stato una volta considerato il Raffaello dei suoi tempi, veniva poi, ancora negli anni trenta del novecento, scartato come puro e semplice eclettico. E la verità dove stava? Ero dell’idea che si potesse stabilirla solo a patto di ricostruire con precisione i processi creativi del pittore; e ciò si poteva fare soltanto a partire dai disegni di Windsor. E quando oggi vedo che i dipinti di Domenichino raggiungono prezzi considerevoli nelle aste, mi piace pensare che la prima rivalutazione dei suoi pregi e della sua importanza sia stata proposta in quel libro. Quindici anni dopo la pubblicazione di questo catalogo, quando mi si chiese di tenere la serie di conferenze Wrightsman a New York, scelsi come argomento un altro ancora più grande esponente della tradizione classica, Raffaello. E anche in questo caso ci si trovava di fronte a problemi critici, a giudizi di valore. Una delle fortune che mi favorirono negli anni del dopoguerra e nel corso degli anni cinquanta fu la collaborazione che mi legò ad un editore pieno di fantasia: Bela Horovitz, fondatore della Phaidon Press; e fu per tale casa editrice che preparai due monografie, una su Paolo Uccello e l’altra su Fra Angelico. La convenzionale forma monografica si era ormai ridotta ad una relativamente breve introduzione che verteva in generale sulla formazione e sulla personalità dell’artista, più un complesso di note minuziose e una serie completa di tavole. Mi auguro che si sia trattato di libri utili – si distinguevano più per la chiarezza di idee che non per la qualità dell’interpretazione – ma fortuna volle che uscissero entrambi in due edizioni, cosicché ci fu la possibilità di apportare modifiche ai testi. Devo tuttavia ammettere che mi sentivo soffocato per così dire da questa forma monografica, e non mi ci riaccosterei più di buon grado. Con le conferenze, d’altra parte, è consentita una più ampia e feconda sintesi e fu proprio questo che tentai di fare nel 1963 nel corso delle Conferenze Mellon alla National Gallery of Art di Washington e nel libro che ne trassi The Potrait in the Renaissance. Le intenzioni sono meglio espresse nel titolo originario delle conferenze che non nel titolo del libro. Esso diceva infatti ‘L’Artista e l’Individuo: alcuni aspetti della Ritrattistica Rinascimentale’. C’è una sorta di magia nel fatto stesso del ritrarre, nel suo sforzo di eternare i tratti di un individuo nella dissimulata analisi dei caratteri che venne molto prima di qualsiasi sistematica nozione psicologica; e spero che almeno un po’ di quel senso di magia traspaia da questo libro. Fra i musei non italiani il Victoria and Albert Museum è quello che raccoglie gli esemplari più belli e più rappresentativi della Scultura italiana; e dal 1945 al 1966 la cura e lo studio di essi costituirono l’oggetto principale della mia attenzione professionale. Per più di venti anni vissi ogni giorno a contatto diretto con opere di Donatello, di Desiderio da Settignano e di Antonio Rossellino e vicino ad un’ampia raccolta di calchi. Il mio lavoro offriva possibilità non accessibili in nessun altro museo del mondo, e le lezioni che ne trassi furono di inestimabile valore. In quei tempi gli studi sulla Scultura del Rinascimento erano meno sviluppati di quelli sulla Pittura del Rinascimento. Non potevano vantare né un Berenson né un Roberto Longhi ed erano stati svolti ad un livello di seria competenza soprattutto a Berlino e a Vienna. All’inizio mi ci accostai con ogni sorta di titubante esitazione – le sculture si assimilano con maggior difficoltà dei dipinti – e ci vollero alcuni anni perché gli obbiettivi si delineassero con chiarezza. Ne sarebbero scaturite due grosse opere, prima un dettagliato catalogo delle sculture a South Kensington e poi una Storia della Scultura Italiana. Ma le mie intenzioni erano di natura più specifica di quanto possa far pensare quella descrizione. Era essenziale che il catalogo, dal punto di vista metodologico, non si occupasse semplicemente di attribuzioni e di questioni che interessano il conoscitore: esso doveva tenere nel debito conto anche il contesto storico in cui si inquadravano le sculture. Di conseguenza la collezione assunse, almeno per me, un nuovo significato, in quanto non le era affatto estranea la storia di tanti grandi monumenti italiani, il Tempio Malatestiano e il Palazzo Ducale di Gubbio, Palazzo Medici e Santa Maria Novella, la Certosa di Pavia e la Scuola della Misericordia e San Francesco della Vigna. Uno dei principi su cui implicitamente si basava il catalogo era costituito dal fatto che i giudizi in esso espressi dovevano fondarsi esclusivamente sullo studio degli originali e non sulle fotografie. Non so se tali giudizi siano per questo più validi, ma ricordo bene i viaggi in lungo e in largo per l’Italia che si resero necessari, e anche il piacere di affrontare così da vicino i problemi locali delle sculture su tutto il territorio di questo paese. “Il dovere di chi compila un catalogo”, scrivevo nella introduzione, “è quello di definire con chiarezza i diversi gradi di dubbio. Non mancano alcune congetture in questo catalogo – le congetture costituiscono dopotutto uno degli elementi propulsori senza i quali lo studio della Storia dell’Arte non può fare passi avanti – ma ci si è sempre sforzati in tutto il catalogo di distinguere fra quello che è possibile, quello che è probabile e quello che è indubbiamente un fatto. Non c’è quasi nessun caso in cui una scheda – per quanto ampia sia la sua elaborazione – costituisca la verità definitiva sull’opera trattata”. Questa opera sulla scultura non mancò naturalmente di produrre una messe di articoli specializzati, alcuni dei quali vennero poi raccolti in due volumi, Essays on Italian Sculpture e The Study and Criticism of Italian Sculpture, e più significativamente una monografia sul terzo della grande trinità degli scultori fiorentini del primo Rinascimento, Luca della Robbia. Agli studiosi di grosso calibro tedeschi e tedesco-americani del dopoguerra, che si erano occupati di Donatello e di Ghiberti, Luca era apparso molto meno rilevante di quanto lo avessero considerato studiosi di una precedente generazione, quali Bode per esempio. Ero io stesso più che convinto che quell’opinione fosse sbagliata, che egli fosse non soltanto uno dei più influenti ma anche uno dei più grandi artisti italiani e che all’origine dell’errore ci fosse la tendenza a considerare la scultura del Rinascimento in termini esclusivamente intellettuali e quindi non storici. Nel mio libro mi sforzai in un certo senso di ridefinire i fattori storici e sociali che determinano lo sviluppo dello stile. Il libro, come la maggior parte dei libri, uscì da una gestazione di lunga durata, così come accadde per l’opera successiva. Quaranta anni fa la casa editrice Phaidon mi chiese di scrivere una introduzione per l’edizione riveduta della traduzione inglese standard della Vita di Benvenuto Cellini; nella prefazione espressi ciò di cui ero fermamente convinto, e cioè che Cellini era un artista molto più grande e molto più originale di quanto in genere non si pensasse. Fu allora che decisi che prima o poi avrei fatto una dettagliata trattazione dell’opera di Cellini. L’argomento è arduo non perché non sappiamo abbastanza, ma proprio perché sappiamo tanto. Il libro che ne uscì fu qualcosa di diverso da qualsiasi cosa che avessi scritto prima – si trattava di un misto di biografia, storia e critica stilistica – ma mi auguro che renda almeno in parte giustizia ad uno dei più sottovalutati scultori del tardo Rinascimento. Ho parlato oggi come se la Storia e la Storia dell’Arte costituissero studi paralleli. In occasione di questo premio e nell’ambito di questa Università mi è parso opportuno fare così. Ma come sanno tutti gli storici dell’arte tale affermazione non risponde a verità. I processi creativi possono essere ricostruiti solo con una certa approssimazione, e senza l’ausilio concomitante di un po’ di intuizione, nessuno di quei fattori che perentoriamente esigono una spiegazione possono ottenerla. Sono diventato storico dell’arte perché ho avvertito il mistero che avvolgeva l’intera materia, ed è proprio quel senso di mistero che mi ha indotto a insistere in studi per cui non è neppure concepibile di arrivare a risultati pienamente soddisfacenti. Per usare le parole del grande romanziere Henry James “Lavoriamo nel buio. Facciamo quello che possiamo. Diamo quello che abbiamo. Il nostro dubbio è la nostra passione, e la nostra passione è il nostro compito. Il resto è la follia dell’Arte”.