Pisa, ottobre 2017
Vorrei ringraziare di cuore tutti voi, che oggi siete riuniti in questi ambienti così legati all’immagine dello scienziato pisano il cui nome è ancor sinonimo di moderna ricerca sistematica e soprattutto di quei metodi di ricerca basati sull’esperienza diretta. In questo senso Galileo era un uomo del tutto moderno, che procedeva nella convinzione che le capacità umane unite alla grazia divina ci permettono di distinguere i fatti reali da quelli illusori. Ma allo stesso tempo, il metodo sperimentale della sua epoca creò un nuovo mondo in cui i giudizi non sono più definitivi, ma possono essere tenuti in sospeso. Invece del vecchio binomio semplice falso–vero, si cominciava a ipotizzare l’espressione “puodarsi questo” e “puodarsi quello” e “puodarsi qualcos’altro,” muovendo i primi passi verso una verità sempre in espansione e multiforme.
Dunque, il premio Galileo Galilei porta il nome della persona chiave non solo per le scoperte, dopo di lui, di miliardi di oggetti che oggi comprendono il nostro universo, da quasar giganti alle più piccole molecole; ma anche per poterli conoscere con strumenti nuovi con le loro ottiche diverse. A proposito, proprio quest’anno abbiamo celebrato il quarantennio delle “Voyager” – due sonde spaziali statunitensi lanciate nel 1977 per esplorare i pianeti al di là di Marte, ma che continuano a passare per l’eliosfera, e che probabilmente finiranno nelle regioni interstellari.
Non mi riferisco alle Voyager solo in omaggio a Galileo. Le due sonde fanno osservazioni per noi, ma sono anche attrezzate per presentare il nostra pianeta agli altri. Trasportano il cosiddetto “Golden Record,” un disco di rame dorato, su cui sono stati incisi saluti in cinquantacinque lingue terrestri; un campionario di suoni “della natura” (tra i quali il frusciare del vento, il canto di una balena, il frinire dei grilli, il rumore di un trattore, lo schioccare di un bacio); e infine ventinove brani musicali in circa 87 minuti, presi da ogni parte del globo,1 registrati ovviamente prima del 1977. (Dobbiamo tener conto che le due Voyager precedono l’epoca dei video musicali che cominciarono a diffondersi solo negli anni ’80.) Tutti i brani trasporti nella Voyager sono ascoltabili su YouTube. Possiamo sentire, per esempio, il Blues americano2; una melodia australiana sul didgeridoo3; una parte della Quinta Sinfonia di Beethoven; una melodia mistica sul shakuhachi (flauto giapponese di bambù)4; e tre minuti dell’aria della Regina della Notte di Mozart, cantata da Edda Moser. I destinatari del disco—immaginiamo alieni di qualsiasi tipo, ma dotati di orecchie—dovrebbero percepire le registrazioni con competenze di un linguista, di un antropologo, e anche di un musicologo.
Direi che per almeno due motivi l’incisione del disco è comunque lodevole, perché
(1) rappresenta l’importanza della musica in sé, e per l’effetto che produce, come un attributo dell’umanità, che è al tempo stesso capace di produrre sonde interstellari; mentre
(2) si presume che, anche quando si riduce solo a pura sensazione uditiva, la musica comunichi qualcosa, sia quella degli indigeni australiani sia il Rock inglese, come ha accennato stamattina il vice-sindaco Paolo Ghezzi. Un essere umano forse chiamerebbe questa “comunicazione” mood, emotion, o semplicemente feeling (atmosfera, emozione, o sentimento …); un fenomeno, in poche parole, che il disco vuole trasmettere come testimonianza di alto valore.
Nondimeno, sono rimasta colpita dal fatto che sul disco c’è pochissima musica sacra, di qualsiasi rito, mentre ogni cultura umana parla ai suoi dei e li supplica con suoni speciali. Un esemplare sul Golden Record è un brano tolto da un canto notturno dei Navajo (i Diné), un popolo del sudovest degli Stati Uniti; va cantato per chiamare i yéʼii, spiriti che prestano cure ai malati in una cerimonia che dura nove giorni.5 Ma se un extraterrestre avrà difficoltà a capire i ritmi dei sonagli di zucca e il canto teso degli uomini in falsetto, dobbiamo riconoscere che anche qui sulla terra esistono esseri umani che non li capiscono affatto: tra i commenti pubblicati sulla pagina web del Golden Record presente su YouTube, alcuni hanno dovuto difendere il richiamo dei Navajo come musica per contrastare i giudizi critici di alcune persone ignoranti. È un bell’esempio di come la comprensione della musica non possa essere ricavata dai puri suoni, suoni “sotto vuoto.”
In fin dei conti, la musica, anche se l’abbiamo in comune, resta sempre qualcosa fuori del comune, mantenendo i suoi misteri e sacralità, nonostante che oggidì siamo sempre e ovunque circondati da musica riprodotta: nelle nostre macchine, nei negozi, nei film e nella pubblicità, facendo parte della “farragine mondiale, ” per citare le parole del presidente Pieretti. 6 Inoltre, oggi la musica del globo è diventata davvero diffusa globalmente. Da una parte, questa sovrabbondanza rende assurdi gli 87 minuti sul Golden Record; ma d’altra parte, sottolinea quanto più preziosa sia la musica quando è ascoltata dal vivo. Per me, il Golden Record ha fallito, e fallirà il suo obiettivo, non a causa della scelta dei suoni presentati, ma perché privo delle immagini dei corpi sonori, del senso cinestetico, dei destinatari e luoghi originari, e, in somma, di tutto il contesto che potrebbe fornire un poco di storia.
Col permesso vostro, mi piacerebbe fare un salto a un’altra serie di viaggi—per arrivare infine qui, a Pisa. I miei antenati erano nati in Giappone. Mio nonno, essendo il quartogenito in un sistema familiare in cui solo il figlio maggiore può ereditare, s’imbarcò per la California, dov’è nata la madre mia nel 1915. Mio padre invece arrivò in California dal Giappone negli anni trenta per studiare commercio, allo scopo di ritornare a gestire le fabbriche che mio nonno possedeva in Manciuria (in seguito tutte andate perse). Prima del 1952, non tutti gli immigrati dall’Asia potevano ottenere la cittadinanza americana7; perciò durante la seconda guerra mondiale furono internati in campi —i cosiddetti “centri di spostamento”— in località lontane dalla costa del Pacifico. I miei genitori s’incontrarono in un campo nel deserto nello stato dello Utah nell’aprile di 1945, ignorando che la guerra nel Pacifico sarebbe finita dopo quattro mesi. Terminata la guerra, molti ex-internati preferirono cercare lavoro nell’est, per ricominciare una vita nuova. Così io sono nata a Chicago, nell’Illinois, in un ambiente completamente americano. Purtroppo non ho mai imparato il giapponese, ma forse in compenso ho studiato il pianoforte, che mi portava ai concorsi e vari festival. Fin da giovane, ebbi il grande desiderio di vedere, non il Giappone, ma i quadri, i palazzi, e le cattedrali d’Europa, e andare a La Scala. Non so ben spiegarmi questa passione. Molti anni dopo, mia madre mi disse che al nonno piacevano le dive dell’opera, tra le quali ricordava il nome della milanese Amelita Galli-Curci, che debuttò a Chicago nel 1916 e cantava alla Metropolitan di New York.
In ogni caso, cominciai gli studi universitari in Biologia; ma poi passai alla facoltà di musica dell’University of Chicago per studiare la storia e la teoria della musica. Mi trovai, dunque, a un nuovo punto di partenza. Sono stata organista presso i Metodisti e presso gli Unitariani; e per sei anni ho cantato in vari cori, tra cui quello della Chicago Symphony Orchestra. E qui devo esprimere la mia riconoscenza alla persona che mi ha più formato negli anni dell’università, e che mi ha indirizzato verso l’Italia. È stato Howard Brown, originario della California, mio professore e mentore, —da voi premiato in questa sede trent’anni fa, e scomparso improvvisamente a Venezia pochi anni dopo.8 La sua passione per la musica italiana del Rinascimento è nota grazie alle sue pubblicazioni; ma per me fu molto formativo il Collegium Musicum da lui diretto a Chicago, in cui cantavo, e che costituiva una sorta di laboratorio sperimentale per i suoi studi e le sue edizioni di musica antica. Fin da giovane suonava il flauto traverso e il flauto dolce; inoltre imparò la viola da gamba e studiava le intavolature per liuto e chitarra rinascimentale. Dunque, come avrete intuito, Brown poneva l’accento sulla necessità (per un musicologo) di tenere in primo piano la pratica musicale, per arrivare a una comprensione della musica antica immediata e sempre onesta.
Oggi, grazie alla disponibilità di un numero immenso di vecchie registrazioni riversate in file audio su CD o in streaming nella rete, il grande pubblico corre il rischio di restare ancorato a vecchie incisioni di molti decenni fa. Io credo, però, seguendo Brown, che ogni generazione meriti l’opportunità di scoprire da sé come ricreare e ricevere le idee musicali del passato nella realtà presente. Per chiarire il mio pensiero, mi sposto sulla “mia epoca,” cioè la Roma barocca del pieno Seicento. Dagli anni ’60 del secolo scorso, abbiamo assistito a un’esplosione di ricerche, sia in campo organologico, filologico e documentario sia nel campo della “performance practice,” grazie alle quali sono state recuperate e riproposte al pubblico un numero incredibile di composizioni dell’epoca, in esecuzioni “storicamente informate,” sperimentali, e convincenti.
Personalmente, ho avuto la grande fortuna di poter collaborare con validi costruttori di strumenti, bravi musicisti, colleghi esperti e giovani studiosi di alto livello—alcuni qui presenti—fin dal mio primo viaggio in Italia nel 1971 e nel 1972 il mio primo giro delle biblioteche d’Italia—prima tappa Roma, poi i pianeti e satelliti Pesaro Bologna Firenze Pistoia Milano Torino Venezia, utilizzando sempre un biglietto da 3.000 chilometri sui treni delle “Ferrovie dello Stato.” Facevo sondaggi nell’universo semi-inesplorato (allora) dei manoscritti e dei documenti d’archivio, naturalmente senza l’aiuto di Internet e dei motori di ricerca. Negli ’80 cominciai a seguire i viaggi della musica italiana barocca stessa al di là delle Alpi, individuando le strade che portarono alla formazione del repertorio che diventò le arie antiche dell’Ottocento. Benché questo fenomeno riguardi perlopiù musiche nate in Italia, esso non ha origini italiane ma inglesi, danesi e tedesche, dato che venne diffuso essenzialmente da case editrici con sede a Londra, Copenhagen e Lipsia, con accompagnamenti per pianoforte scritti , per esempio, da ripetitori dei teatri di Londra, da una chitarrista francese, e da compositori di Lieder tedeschi.9
Questi adattamenti della “musica antica” dal Settecento al primo Novecento mi resero consapevole che ogni epoca proietta qualcosa di sé nei diversi modi di eseguire gli stessi pezzi—in cambiamenti dell’accompagnamento, ai tempi, nelle tecniche di espressione vocale. Il mio viaggio nella storia non si fermò dunque al recupero della cosiddetta ”opera originale,” ma proseguì alla scoperta di come la cambiava la storia e del perché, tenendo conto anche degli “adattamenti” oggi in voga.
Così arriviamo ai nostri tempi, in cui sono fioriti numerosi festival di musica antica, che presentano gruppi dedicati alla musica europea del Seicento. Nel 2006, a Utrecht si tenne un simposio musicologico di tre giorni dedicato ai viaggiatori che sono scesi in Italia nel Seicento, lasciandoci descrizioni delle esecuzioni di cantate, concerti, messe concertate, sonate e sinfonie, e naturalmente di drammi in musica nei teatri—assolutamente tutti generi italiani nuovissimi, nati in quel secolo. I relatori del convegno hanno esaminato le impressioni che ogni viaggiatore riportò al suo paese —Inghilterra Francia Olanda Spagna.10 Provate a immaginare il gentiluomo inglese John Evelyn che nel 1645 assisté a una circoncisione nel ghetto di Roma, e che rimase, nondimeno, fortemente impressionato dalla musica sentita nel corso del rito. Benché da un altro mondo, ed essendo un estraneo, Evelyn aveva ben capito il contesto culturale e antico in cui si trovava. Io penso che questo gentiluomo, se trasportato a New Mexico ai tempi nostri, avrebbe ascoltato il rito Yebichai dei Navajo, di cui ho parlato, in un modo simile, cioè con le orecchie aperte. A pensarci bene, la musica rassomiglia a una macchina del tempo, sempre messa in moto dai suoni che ci consente di intraprendere un viaggio. (E sappiamo dagli studi psicologici che musica sentita è collegata a un livello profondo con le memorie di momenti vissuti.) Grazie alle parole poi, la storia della musica potrebbe disegnare le rotte seguite e i paesaggi attraversati.
Ormai, una grande parte della musica italiana del Seicento è stata riportata in vita a partire degli anni ‘70 in poi, grazie ai festival, ai concerti e agli ensemble musicali specializzati in questo repertorio. Sul fronte musicologico dobbiamo ricordare che nel 1984 in Inghilterra venne avviato un convegno biennale europeo dedicato a studi di musica barocca, che si è mantenuto con grande successo. La diciottesima edizione si terrà per la prima volta in Italia, a Cremona, l’anno prossimo. Negli Stati Uniti, nel 1993, abbiamo fondato una Society for 17th-Century Music,11 che tiene un convegno annuale e pubblica una rivista, i cui articoli sono corredati da esempi audio e video.12 È forse la prima tra le riviste scientifiche dedicate alla storia della musica ad essere pubblicata soltanto online e con accesso gratuito. Nel 2003 abbiamo aggiunto una collana di edizioni di partiture, online e sempre gratis—la Web Library of 17th-Century Music.13 Quest’ultima è stata una mia idea, al ritorno da un breve soggiorno a San Pietroburgo nel 2001, quando osservai che i musicologi russi non avevano soldi per comprare le pubblicazioni stampate in occidente, ma disponevano tutti di un computer e dell’accesso a Internet. E devo dire che il pubblico per i concerti del Festival di Musica Antica a San Pietroburgo era entusiasta e numeroso. Ho dato tre conferenze pubbliche sulla musica barocca italiana nella vecchia casa di Nabokov. Questo è stato il più orientale, diciamo, dei miei viaggi: ho traversato meno distanza delle Voyager, ma sono arrivata lontano dalle isole giapponesi dei nonni.
In conclusione, i più curiosi tra voi si chiederanno che cosa mi ha spinto ad attraversare l’Atlantico tante e tante volte nella mia vita. Certamente il piacere di vivere a Roma (e in Italia) e la possibilità di ascoltarvi concerti di musica barocca.14 Ho imparato la musica molto prima di apprendere l’italiano, e credo di aver fatto la stessa esperienza dei viaggiatori del Seicento, accostandomi alla musica italiana del Seicento per poi assorbire la cultura in cui quella musica è stata concepita. La musica vocale di quell’epoca intona la poesia come un attore modula la sua declamazione. Approfondire l’arte del comporre barocco nell’età barocca equivale a riflettere sulle parole fino a che esse non diventano che movimento puro. Parlo di parole scritte da persone che, per la mia formazione di quaranta anni fa, sarebbero potute venire da un altro pianeta, quali Maffeo Barberini come poeta, e non come papa, con suo bel toscano; Giulio Rospigliosi, drammaturgo pistoiese che studiò qui a Pisa, oggi sepolto a S.ta Maria Maggiore col nome di Clemente IX; o lo spoletino Ottaviano Castelli, dottore di legge e di medicina, autore di drammi per musica in stile satirico e spassoso, che fu in corrispondenza con Giulio Mazzarino, primo ministro della corona di Francia, e con lo stesso Galileo, allora relegato a casa in Arcetri.15
Tra i musicisti ho vissuto (diciamo) per anni con Marc’Antonio Pasqualini, un castrato bello e ricco al servizio del cardinale Antonio Barberini; e con suo amico, il bon vivant Marco Marazzoli, arpista e cameriere extra a papa Alessandro VII. Nel 2012, con un soprano e un cembalista, ho presentato alcune cantate inedite da Pasqualini al Metropolitan Museum di New York, dove si trova il ritratto di grandi dimensioni del castrato dipinto da Andrea Sacchi. Sono stati loro i miei compagni di viaggio. La loro musica mi ha aiutata non poco ad entrare nel mondo di un cattolicesimo assediato, le cui indiscutibili certezze venivano messe in crisi dal progresso delle scienze nuove nel corso di quel secolo. Emblematica di quel mondo è la musica scritta sul testo di un sonetto “sopra Cristo crocifisso” di Urbano VIII, dal celebre virtuoso d’arpa Orazio Michi.16 Il musicista fa dei quattordici versi un’intensa meditazione, e riesce a mostrarci nello spazio di soli quattro minuti sia le frontiere della fede di quel tempo sia il ritirarsi nell’interiorità più intima. Grazie al sonetto di Urbano VIII e di Michi possiamo comprendere meglio le statue di Bernini sul ponte Sant’Angelo, come se rispondessero a quella musica. Devo molto a questi poeti e musicisti romani del Seicento: sono stati loro i miei compagni accanto ai colleghi italiani in quest’affascinante viaggio senza fine. Vi ringrazio molto e ringrazio la Fondazione per aver convalidato il mio passaporto.
1 I brani sono ascoltabili su YouTube, grazie a un rilancio della Warner Brothers nel 1992. La scelta originale della musica è stata fatta da una team composta da Carl Sagan, Linda Salzman Sagan, Frank Drake, Ann Druyan, artista; Jon Lomberg, e Timothy Ferris, allora un editore per la rivista Rolling Stone; si veda What Is on Voyager’s Golden Record?,” in Smithsonian, 22 aprile 2012 (disponibile su Smithsonian.com).
2 Per esempio, Dark was the night, cold was the ground, cantato da Willie Johnson (www.youtube.com/watch?v=V8AuYmID4wc).
3 Morning Star e probabilmente Moikoi; si veda The Atlantic, 13 Nov. 2013, che mette in dubbio l’identifica- zione del brano aboriginale chiamato “Devil’s End” su YouTube e altrove. (www.youtube.com/watch?v=lapeaVqH43g).
4 Tsuru no sugomori (Nido delle gru), eseguito da Goro Yamaguchi (www.youtube.com/watch?v=kzhVAnOO45Q).
5 Dal Rito della Notte: www.youtube.com/watch?v=BJQ17v0v4ug
6 Prof. Antonio Pieretti, presidente del Consiglio Direttivo, Premio Galileo Galilei.
7 Cambiato dall’U.S. Immigration and Nationality Act del 1952.
8 Per la vita in breve, si veda la necrologia da Iain Fenlon, in The Independent, 16 marzo 1993: www.independent.co.uk/news/people/obituary-professor-howard-mayer-brown-1498027.html
9 Si veda, per esempio, M. Murata, “Wo di Zitronen blühn: Re-Versions of Arie antiche,” in Historical Musicology: Sources, Methods, Interpretations (Festschrift per Robert L. Marshall), ed. S. Crist e R. Marvin (Rochester: University of Rochester Press, 2004), pp. 330–55; rist. in brossura Rochester 2008.
10 Formano la base per Passaggio in Italia: Music on the Grand Tour in the Seventeenth Century, ed. D. Fabris e M. Murata (Turnhout: Brepols, 2015).
11 sscm-sscm.org
12 sscm-jscm.org
13 sscm-wlscm.org
14 Segnalo qui gli importantissimi concerti di musica antica tenuti a Roma dal 1966, organizzati dall’Associa- zione Musicale Romana, sotto la direzione artistica di Miles Morgan dal 1969, con cicli dedicati all’organo, al cembalo nonché alla musica da camera e da chiesa.
15 In 1641, Castelli si rivolgeva allo scienziato per sapere qualcosa sulla funzione delle squame dei pesci col rispetto del loro movimento; si veda online il Museo Galileo, bibdig.museogalileo.it/Teca/Viewer?an=354825&pag=301&lang=en
16 Veggio nel tuo costato aspra ferita, sonetto XXIV, in Poesie toscane del card. Maffeo Barberino hoggi papa Urbano ottavo (Rome 1635), p. 24; musicato da O. Michi, “Sonetto di Papa Urbano VIII sopra Christo crocifisso,” in Rome, Bibl. Casanatense, ms. 2490, fol. 56v–58. È stato registrato sul CD Orazio Michi dell’Arpa. E che vuoi più? da Françoise Masset e l’ensemble La Gioannina (agOgique, 2013).