Pisa, ottobre 1996
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Signor Presidente, Colleghi, Signore e Signori. La mia prima e duratura reazione all’assegnazione di questo importante premio, questa bella statuetta di Stefania Guidi, è stata di grande gioia, poiché questo mi lega anzitutto all’Italia, che tante volte ho visitato con piacere, e in secondo luogo direttamente a Galileo, i cui predecessori nella meccanica hanno impegnato tanta della mia iniziale attività di studioso. E infine mi associa ad un gruppo insigne di vincitori, molti dei quali sono o furono miei amici. Ricordo in particolare Paul Oscar Kristeller, il cui ricco Iter Italicum è stato il mio vade mecum come lo è stato per tanti curatori e lettori di testi manoscritti medievali e rinascimentali. E non posso passare sotto silenzio quel grande studioso di Dante e della letteratura medievale, Charles Singleton, che in molte occasioni non solo stimolò la mia mente, ma anche il mio palato col vino fatto con la sua uva. Né posso infine dimenticare il mio caro amico Stillman Drake, uno dei principali esperti nell’interpretazione delle opere di Galileo. Debbo certamente ringraziare l’illustre Giuria che mi ha ritenuto degno di entrare a far parte di questo gruppo e naturalmente i Rotary Club italiani per aver dato vita alla Fondazione, e, come direbbe Aristotele, per essere la “Causa Finale” della mia presenza qui. Fu un caso che il mio primissimo libro, Giovanni Marliani and Late Medieval Physics (1941), fosse accentrato sulla filosofia naturale di un medico milanese del XV secolo. Il mio relatore e maestro, Lynn Thorndike della Columbia University, aveva dapprima pensato che intendessi approfittare della mia conoscenza del greco per lavorare ad uno studio del pensiero dello studioso bizantino Georgios Scolarios. Ma ad una lettura attenta, le sue opere mi sembrarono pedestri e pedanti, in una parola tediose. Così mi rivolsi ad una raccolta di fotografie di alcuni manoscritti di Giovanni Marliani che Thorndike aveva portato da un recente viaggio in Europa. Mi resi immediatamente conto che Marliani si concentrava su problemi che mi interessavano, problemi riguardanti il calore e la meccanica, e dunque più vicini ai miei studi di fisica e matematica. Fu evidente che lo studio di Marliani mi avrebbe condotto alle opere dei suoi predecessori e contemporanei non solo in Italia (come Giovanni Casali, Pietro di Mantova, e moltissimi altri), ma anche ad opere di un brillante quadrumvirato della prima metà del XIV secolo al Merton College di Oxford: Thomas Bradwardine, William Heytesbury, Richard Swineshead e John Dumbleton, e agli scritti degli studiosi della generazione successiva presenti a Parigi, i quali leggevano e spesso gettavano luce sui loro predecessori inglesi: Jean Buridan e, soprattutto, Nicole Oresme. Ma la guerra interruppe questi studi nel 1941. Alla fine della guerra, quasi cinque anni dopo, ritornai dalla Marina all’Accademia, prima alla Columbia University per un anno, poi all’University of Wisconsin per diciassette anni, e infine all’Institute for Advanced Study a Princeton, New Jersey, un ambiente ideale per proseguire la ricerca. Avrei dovuto passare molti anni nel tentativo di rintracciare trattazioni matematiche di statica, dinamica e cinematica da Oxford a Parigi all’Italia e allo stesso Galileo. Per prima cosa mi unii a Ernest Moody, compianto amico e interprete brillante di Guglielmo di Ockham, per produrre una raccolta di testi di statica: The Medieval Science of Weights (1952), essendo questa una delle poche aree della meccanica medievale ad essere formulata nei termini della geometria greca. Frutto di tutto questo ed anche di articoli dettagliati sulla dinamica e sulla cinematica è stata la mia The Science of Mechanics in the Middle Ages (1959), abilmente tradotta in italiano tredici anni dopo da Libero Sosio, ed anche il mio Nicole Oresme and the Medieval Geometry of Qualities and Motions (1968). A distanza di tempo è questa l’opera che più ho gradito scrivere per la chiarezza di pensiero e di espressione di Oresme e soprattutto per l’originalità del suo sistema di conversione in termini geometrici degli enunciati funzionali, in effetti una sorta di geometria proto-analitica. Uno dei problemi più interessanti da me affrontati in queste due opere è stato tracciare il destino del cosiddetto teorema della velocità media di Merton College per esprimere l’accelerazione uniforme in termini di moto uniforme, dalla sua invenzione da parte di William Heytesbury, ad Oxford, al suo pieno sviluppo in “Il terzo giorno” dei Discorsi di Galileo. E sebbene la mia dettagliata trattazione di questo teorema appaia nella The Science of Mechanics e in Nicole Oresme, vorrei richiamare la vostra attenzione su uno studio a parte dal titolo “Some Novel Trends in the Science of the Fourteenth Century”, pubblicato in un’opera a cura di Charles Singleton, Art, Science, and History in the Renaissance, (1968) dove è stato presentato materiale nuovo concernente lo sviluppo del teorema dell’accelerazione. In tale studio ho dimostrato che le tre forme del teorema presentate da Galileo sono pressappoco le stesse, per linguaggio e significato, delle forme presentate da Nicole Oresme nel suo Quesiti sulla geometria di Euclide e nel suo Geometria medievale delle Qualità. Ci sono ovviamente differenze fra la trattazione di Galileo e quella di Oresme, poiché Galileo ha sempre tenuto ben presente il problema del moto locale, e in fatto dell’accelerazione naturale dei corpi in caduta, mentre i resoconti medievali riguardavano tutte le forme di “moto uniformemente difforme” (cioè non-uniforme) incluse nelle categorie aristoteliche del moto. Vale a dire, non si concentravano soltanto sul moto locale. Senza dubbio, alcuni studiosi prima di Galileo credettero davvero che il moto di gravi in caduta fosse un esempio in natura di moto uniformemente accelerato. In questo breve intervento non mi è possibile discutere i dettagli di questi sviluppi nella cinematica, salvo dire che mentre non vi è prova alcuna che Galileo abbia letto le opere manoscritte di Oresme direttamente, la stessa legge medievale dell’accelerazione apparve in stampa (e non solo in manoscritto) almeno diciassette volte ed alcuni di questi esemplari includevano la dimostrazione di tipo geometrico dapprima adottata da Oresme e da Galileo tre secoli dopo. Devo ora dire una parola sui fondamentali problemi testuali che hanno guidato la mia opera sin dall’inizio. Sebbene sintesi e analisi siano componenti essenziali di ogni studio che presuma essere storico, ed io non intendo sottovalutarle, il processo di preparazione e inclusione di testi accurati è un sine qua non per ogni opera nella storia della scienza. A dir la verità, la maggior parte di noi ha trovato che la preparazione di un testo è un buon argomento di tesi per i nostri candidati al dottorato o almeno è un buon allenamento per il lavoro futuro, dato che certamente un gran numero di opere scientifiche scritte nel Medioevo esiste solo o principalmente in manoscritto. Per inciso, questo è vero anche per un numero inferiore, ma nondimeno significativo, di opere scritte nel Rinascimento, come attestano alcuni dei manoscritti o taccuini di Francesco Maurolico. Se vogliamo meglio individuare, in breve, cosa intendiamo per problemi testuali, possiamo dire che per ricavare il pieno significato dai testi medievali (e talora dai testi rinascimentali), c’è spesso bisogno, primo, di una scelta oculata di manoscritti per produrre un testo coerente, secondo, di una traduzione accurata del testo in una lingua moderna, terzo, di un buon Index verborum, e quarto, di un commento storico il più possibile esauriente. Per inciso, sottolineo il bisogno di dare una buona traduzione come aiuto non solo per il lettore del testo, ma anche per lo stesso curatore. Chi non è rimasto profondamente deluso nel constatare che il testo da lui ricostruito sulla base di buoni manoscritti non può avere una buona traduzione? Questo induce a tornare ai manoscritti. Le considerazioni che mi sembravano importanti quando ero immerso nello studio della meccanica medievale mi sono state parimenti presenti quando mi sono volto allo studio della trasmissione all’Occidente latino di testi matematici in greco e arabo, un’impresa che ha occupato gran parte dei miei anni successivi. Sebbene abbia scritto alcuni articoli sulla trasmissione degli Elementi di Euclide dall’arabo e dal greco, l’opera che senza dubbio giustifica l’uso della parola “immerso” è stata il mio Archimedes in the Midle Ages (cinque volumi in dieci tomi), che ha richiesto più di venti anni per la stesura e la pubblicazione (1964-84). Nel corso di quel lavoro ho curato molte (spero la maggior parte) traduzioni latine delle opere dello stesso Archimede e di opere che ne abbracciavano aspetti cruciali. Ho fatto il possibile per presentare l’intera gamma di tali opere dall’arabo e dal greco. Nel compiere questo sforzo ho anche esaminato la conoscenza che di Archimede avevano molti autori medievali e rinascimentali, un gran numero dei quali sono italiani o almeno residenti in Italia. Tra questi Nicola di Cusa, Jacobus Cremonensis, Regiomontanus, Piero della Francesca, Luca Pacioli, Giorgio Valla, Leonardo da Vinci, Niccolò Tartaglia e Federico Commandino, per ricordare solo i più importanti. A proposito, questi sembrano un momento e un luogo adatti a ringraziare pubblicamente il Professor Maccagni per la recensione notevolmente accurata del mio Archimedes in the Middle Ages. E’ poco dire che fui, e tuttora sono, assai compiaciuto di questa acuta e generosa analisi. Vengo ora ad alcune parole conclusive sulla mia attività attuale. Alcuni anni prima di andare in pensione ho deciso di risuscitare un mio vecchio interesse per la scienza egiziana antica, un interesse che ho coltivato brevemente prima della guerra mentre mi trovavo alla Columbia University. Non so perché abbia deciso così. Ma vorrei pensare che è stato perché l’Egitto mi attrae da lungo tempo e ritenevo che avrei potuto sapere di più della sua scienza antica e al tempo stesso trasmettere le mie nuove conoscenze a studenti di storia della scienza. Ma può anche darsi che io fossi un po’ stanco di curare testi e che un argomento nuovo mi offrisse qualcosa di diverso cui guardare. Ad ogni modo, la decisione ha comportato molti anni di studio attento dei geroglifici e sette viaggi in Egitto. Ne è derivato il mio progetto di un’opera in tre volumi dal titolo Ancient Egyptian Science: A Source Book. Due volumi di quell’opera sono stati pubblicati (1989 e 1995) e spero di finire il terzo nei prossimi due o tre anni. Come è accaduto per la maggior parte delle opere precedenti, in questi ultimi volumi mi sono proposto di affiancare ai testi cruciali un’esposizione valutativa ed analitica. Ho cercato di tradurre i documenti significativi e al tempo stesso di includere fotografie ed altre riproduzioni di testi originali, sia che fossero scritti in caratteri geroglifici o ieratici o demotici. Comunque, a differenza delle opere medievali che hanno occupato i miei studi precedenti, i documenti che costituiscono questi nuovi volumi sono spesso noti da tempo, ma non sempre sono stati inseriti nel giusto contesto. La mia opera si rivolge pertanto principalmente agli storici della scienza che non conoscono la lingua originale né sanno molto degli studi connessi di religione e storia egiziana. Comunque, ho anche ritenuto importante includere i testi nella lingua originale in modo che i lettori che conoscono la lingua possano opportunamente valutare le mie traduzioni. Resta da vedere se questi volumi saranno utili a studenti interessati alla scienza egiziana antica. Spero davvero che lo siano. E così concludo questa breve relazione su quello che ho fatto nei sessant’anni passati e su come sia quindi giunto a Pisa ottant’anni dopo la mia nascita (sebbene non per la prima volta e, mi auguro, non per l’ultima).