Pisa, ottobre 2011
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Nel ricevere il premio Galileo Galilei e dopo i dovuti ringraziamenti (dovuti, sinceri e sentiti), si deve tradizionalmente manifestare la propria sorpresa e il sentimento di essere in qualche maniera indegno. Ho anch’io presente tutti questi pensieri e lo dico senza nessun effetto retorico. Trovarsi su un elenco dopo Boethius (premiato nel 1962), Trendall (nel 1971), Vallet (nel ’81), Andreae (nel ’91) e Rix (nel 2001), lascerebbe chiunque perplesso, anche se lusingato. La presenza tra i vincitori di due altri storici francesi ai quali mi sento molto vicino come Toubert (1975) e Nicolet (1994) – uno dei miei precessori alla direzione dell’Ecole e scomparso l’anno scorso – mi conforta in questo senso.
Non nascondo che il riferimento a Vallet mi tocca particolarmente. Sono venuto in Italia dopo la lettura del suo libro su la storia delle città greche dello Stretto di Messina (libro del 1958), e questo modo di fare una “storia archeologica” come diceva Ettore Lepore mi ha sedotto. Ho incontrato Vallet a Palazzo Farnese, nello studio che ho appena lasciato, nei primi giorni dell’ ottobre del ’73 e direi che da allora c’è stato fra noi un filo rosso che non si è spezzato fino alla sua scomparsa nel ’94.
Succede assai raramente in una vita di trovare una persona molto diversa da te ma con la quale ci si capisce al volo. Il suo ricordo basterebbe a rendermi speciale questa giornata. Ci troviamo a Pisa e con Vallet ho tanti ricordi di questa città. E’ lui che mi ha introdotto alla Scuola Normale Superiore, tramite Giuseppe Nenci. Per me era la prima esperienza di collaborazione scientifica con degli studiosi italiani, allievi di Nenci. Non cito nessuno per paura di dimenticare qualcuno. Insieme siamo stati al Palazzone di Cortona per definire i criteri della “Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche” ; qualche settimana fa ho firmato col direttore della Scuola Normale Superiore una convenzione che consentirà alla Scuola e all’Ecole française di portare avanti la messa on line di quest’opera monumentale conclusa col grande sapere e col grande impegno dell’amico Carmine Ampolo ed del gruppo efficiente della Scuola Normale.
Questo riferimento pisano non è eccessivo. Ho vissuto vent’anni a Roma ma Pisa è stata fondamentale per me all’inizio della mia carriera. Senza dimenticare che tramite Pisa ho stabilito legami col Salento e con Lecce.
La mia relazione con l’Italia ha tuttavia seguita altre strade. Prima di Vallet devo molto a due uomini che hanno creduto in me. L’egittologo François Daumas, troppo presto scomparso, il quale mi ha spinto a lasciare la mia Linguadoca per Parigi con lo scopo di entrare all’Ecole française. Rottura difficile per me ma che ha reso in seguito tutto possibile. E a Parigi sulla strada di Roma ho incontrato mia moglie… Poi c’è stato Jacques Heurgon – e qui entriamo in etruscologia – il quale in accordo con Raymond Bloch mi ha dato un argomento di dottorato sul commercio etrusco arcaico un giorno dell’estate del ’70 nella biblioteca della Sorbona prima di andare in pensione. Quel giorno sono uscito dalla Sorbona un po’ stordito, con la sensazione di avere imboccato una strada impegnativa. Heurgon mi ha spinto verso la Sardegna, dandomi l’indirizzo di un giovane archeologo sardo Giovanni Tore incontrato l’anno precedente. Cosi sono arrivato a Cagliari e poi a Tharros col permesso di pubblicare il bucchero dell’Antiquarium arborense di Oristano, cosa che, all’inizio, ha sorpreso Pallottino. Devo molto all’amico Gianni, anche lui scomparso troppo presto.
Dopo sono arrivato in Sicilia. Nel ‘74 ho fatto lo scavo più impegnativo della mia vita, scavo di emergenza, di salvataggio come si diceva allora: non c’erano ancora i tempi dell’archeologia preventiva. Si trattava di salvare la necropoli meridionale della città greca arcaica di Megara Hyblaea a km 20 a Nord di Siracusa. Necropoli minacciata dalla crescita della zona industriale di Priolo/Augusta. Quasi 6 mesi sul posto, nella polvere di un cementificio (che bloccava le macchine fotografiche), di cui 4 con 40 operai e 2 assistenti. L’abbondanza delle tombe scoperte e la ricchezza dalla progetto ma c’era anche l’inizio della crisi delle economie occidentali in cui siamo immersi sempre di più. Da allora Megara è stata nel mio cuore e ho ancora dei debiti a saldare rispetto a questo sito magnifico anche se immerso tra le ciminiere. Si tratta di una città coetanea di Siracusa più o meno e abbandonata dopo due secoli: cosi è possibile studiare un impianto urbanistico facilmente raggiungibile. Siamo cosi alle origini della nascita della città occidentale. E lavorare su un sito dove Paolo Orsi si è impegnato tanto dal 1878 alla sua morte aggiunge al fascino.
E l’Etruria in tutto questo? L’Etruria è stata dell’inizio al centro della mia attenzione e, in partenza cercavo in Sicilia come in Sardegna le tracce di questo commercio etrusco che dovevo affrontare. Dopo il bucchero di Tharros, avevo studiato quello di Megara poi avevo osservato l’importanza delle anfore etrusche con la complicità di Paola Pelagatti, tirando fuori dai magazzini dell’Etruria meridionale un materiale che nessuno sospettava. Finalmente c’era la risposta alla domanda di Fernand Benoit, allora soprintendente di Marsiglia e degli scavatori della Francia meridionale che si chiedevano da dove venivano queste anfore presenti sul primo grande relitto scavato presso Antibes negli anni 60, appunto da Benoit. Nel ’85 nella stampa del mio dottorato, ho spiegato perché avevo abbandonato il tema del commercio etrusco, concetto troppo modernista per me (come per Lepore) per quello di “traffici tirrenici arcaici”, il quale mi consentiva di andare a spasso tra Etruschi, Greci e Fenici. Pallottino e i suoi allievi diretti mi hanno accolto bene e oggi gli amici che lavorano in Etruria o sull’Etruria mi sono sempre molto vicini. C’è ancora tanto da fare sull’Etruria e il suo rapporto, complesso, col mare. A Pisa questo si sa. Ci aspettano ancora delle nuove letture di questo territorio, anche alla luce dell’archeologia dell’ambiente. Si tratta adesso, appunto, di pensare al futuro della ricerca e non al passato di un percorso individuale. La mia generazione può oggi dare un ultimo contributo alla scienza storica e archeologica spingendo in tre direzioni : la trasmissione di un sapere erudito a dei giovani che non hanno la fortuna che abbiamo avuto noi, l’emergenza di nuovi sapere come quello pluridisciplinare legato alla conoscenza ambientale di nostri territori e infine la direzione europea.
Aggiungerei sull’ambiente che di fronte alle minacci sui territori, di fronte anche alle difficoltà dei nostri Stati che lasciano in prima linea le enti territoriali, dobbiamo superare la divisione tradizionale fra patrimonio e paesaggio. Il paesaggio, lo sappiamo per merito di Emilio Sereni, è una costruzione dell’uomo e si tratta in un certo senso di un manufatto. Le battaglie sono le stesse come Settis ci lo ricorda regolarmente con una tenacia e un talento di cui lo dobbiamo ringraziare. La scienza umana, e l’archeologia, deve essere sempre di più immersa nelle realtà territoriali per pesare sulle scelte e per aiutare gli amministratori territoriali a programmare i loro interventi e a capire cosa possono portare a un territorio la scienza e la ricerca, e non soltanto come creazione di posti di lavori e contributo alla crescita economica.
L’Europa infine. In questo momento difficile, tocca a noi dire con forza che crediamo all’Europa, all’Europa della scienza, della cultura, dello scambio intellettuale, della mobilità degli studenti. Anche se il quadro istituzionale europeo della scienza non è stato completato (funzionammo sempre con le nostre istituzioni nazionali), esiste una comunità scientifica europea. Forse Jean Monnet aveva ragione quando, nella sua vecchiaia, diceva che avrebbe dovuto cominciare dalla cultura e non dall’economia per costruire l’Europa. Io conto molto sui giovani per spingere in quella direzione.
I giovani appunto. Fra le mie grandi gioie di studioso ho avuto quella di poter aiutare dei giovani francesi a venire in Italia e dei giovani italiani a sistemarsi in Francia. Questo mi ha consentito di restituire un po’ a loro di quello che il loro paese mi ha dato. Come i miei coetanei, appartengo ad una generazione felice, nata alla fine della guerra e che, a lungo, ha creduto che la storia significava progresso e che ogni primavera consentiva di far passi avanti. Studiavamo i cicli storici del passato come se la cosa non ci riguardava, come fenomeni ormai superati. L’incubo delle guerre europee era finito, e cosi tutto era diverso. La storia era diventata per noi lineare.
In tale contesto e in tale illusione, siamo stati, noi archeologi, ambiziosi e poco realisti. Abbiamo mirato alla conoscenza totale, con la moltiplicazione degli scavi. Toccava a noi, finalmente, risolvere tutti i problemi. Non ci siamo accorti che la scienza non risolve mai tutto in un colpo solo e che ogni generazione può fare soltanto dei salti di qualità ma senza sistemare tutto. La scoperta della penicillina non ha impedito nuove malattie. Facendo cosi ci siamo preoccupati di scavare, scavare ancora, ma non di tutelare gli scavi, lasciando alle soprintendenze un compito impossibile. La crisi attuale ci obbliga ad essere più strategici e meno impulsivi, più collettivi e meno egocentrici. Per questo non dobbiamo cedere alla pressione mediatica, alla ricerca dello scoop, ma costruire progetti completi e coerenti che non lasciano le ceneri sotto il tappeto. Il difetto del protagonismo che ha sempre toccato di più le scienze umane rispetto alle scienze esatti, è una debolezza che ci costa caro. E primo di tutto in credibilità. I debiti si pagano sempre un giorno o l’altro come lo dimostra l’attualità. Se non cambiamo strade rischiamo di essere sempre di più considerati come degli eruditi che si divertono con i loro “giochetti” e che non meritano dunque di essere presi sul serio. La posta in gioco è alta e non si tratta di moralismo.
Per finire vorrei far osservare che il Tirreno è stato il mio punto di riferimento geografico. Questo Tirreno, che sta a due passi da qui. Un triangolo marittimo, oggi l’anticamera dell’Europa ma un’anticamera pienamente europea. Oggi il Tirreno non sta bene, sbilanciato fra un continente dove siamo e delle isole che stentano a trovare la loro strada in questo nostro mondo incerto. Mi piace ricordare che questo Tirreno è stato centrale e che lo può ridiventare. Integrare di più il Tirreno alla storia e all’economia europea sarebbe uscire dal binario Nord-Sud e guardare al Mezzogiorno con una altra angolatura. Delle grandi città, di più di un milione di abitanti, come Napoli, Marsiglia, Palermo non comunicano per niente attraverso il Tirreno che sil potrebbe anche allargare fino a Barcellona e Catania. Le strade marittime care a Braudel non servono più e sentiamo dire sempre di più che i trasporti per via di terra sono insopportabili per l’ambiente. C’è dunque da ripensare. Il Tirreno, come il Mediterraneo tutto, può rinascere se si cambiano certe regole. Speriamo che tutto quello succede sulla riva Sud ci porta nella direzione giusta per un nuovo “Mare nostrum” adatto ai nostri tempi. Tale strada passa per forza attraverso un attenzione particolare per i nostri litorali che siano toscani o laziali, italiani, spagnoli o francesi. Sono stati le prime vittime della crescita incontrollata del “boom” economico degli anni 60. Mezzo secolo dopo è tempo di tornare da loro, fragili ma fondamentali per un mare del dialogo ritrovato.
Non posso chiudere senza dire la mia gratitudine verso l’Ecole française. Ci ho lavorato vent’anni. L’Ecole è stata per me prima un obiettivo poi uno strumento per portare avanti i miei progetti. Ma la mia gratitudine verso l’Ecole è come luogo d’incontro e di scambio fra lettori e studiosi di tutte le nazionalità. Vari direttori, prima e dopo Vallet, hanno voluto un’istituzione aperta e di questa apertura ho approfittato tanto. E per questo che negli ultimi otto anni, quegli del mio incarico di direttore, ho tentato di rinforzare un istituzione che potrà ancora dare un contributo utile al dialogo con l’Italia e con la comunità scientifica europea e internazionale. Sono convinto che il mio successore, Catherine Virlouvet, darà tutto il suo impegno.
Ringrazio ancora la giuria che mi ha voluto qui questa sera, ringrazio gli organizzatori, le autorità tutte e tutti voi per la vostra pazienza. Grazie di cuore.