Pisa, ottobre 1985
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
E’ con profonda gratitudine che accetto l’altissimo onore che l’illustre giuria presieduta dal professor Bolelli ed i promotori rotariani del Premio Internazionale Galileo Galilei hanno voluto conferirmi. La notizia della decisione della giuria mi giunse in modo del tutto inatteso, e l’ho accolta con commozione come testimonianza della stima attribuita al mio contributo agli studi di storia italiana nel medio evo e nel Rinascimento. Ed è motivo di ulteriore soddisfazione che questo onore mi giunga dalla mia amata terra di Toscana e che mi venga conferito in una città che in questi ultimi anni mi è divenuta cara. Cercherò di rispondere alla richiesta del professor Bolelli di spiegare le ragioni che mi hanno condotto allo studio della storia italiana. Nel preparare questo breve discorso, mi sono imbattuto fin dall’inizio nella problematica che l’autobiografia presenta allo storico abituato ad addentrarsi nel macrocosmo di un lontano passato e che si vede costretto a rivolgere lo sguardo al microcosmo della propria vita, valendosi della sua memoria anziché di documenti. Posso solo sperare che la disciplina critica ed il distacco da giudizi soggettivi che ho imparato nella scoperta e nella interpretazione del passato mi giovi anche nell’analisi della mia evoluzione intellettuale. Nato a Berlino nel 1911, la mia formazione intellettuale s’iniziò effettivamente nell’ambiente della Germania di Weimar, ma subì anche altri influssi; in particolare, grazie alla frequenza del Liceo francese di questa città e ad una lunga permanenza in Svizzera, quello della cultura francese. Nel 1930 cominciai i miei studi universitari a Berlino. Furono questi gli ultimi anni della grande tradizione umanistica dell’università fondata da Wilhelm von Humboldt. Per uno studente di formazione in parte tedesca in parte cosmopolita come la mia, fu un periodo pieno di nuove e stimolanti esperienze intellettuali, e non solo nel campo della storia. L’introduzione alla ricerca storica la debbo soprattutto all’insegnamento ed all’esempio dell’insigne storico del Papato medievale, Erich Caspar; ed il suo seminario di storia medievale mi è sempre servito da modello durante la mia lunga attività di insegnante universitario. Furono d’altra parte le lezioni sulla Firenze del Quattrocento di un giovane Libero docente, Hans Baron, – il quale ricevette venti anni fa l’onore che mi viene conferito oggi -, che mi fecero scoprire il mondo storico del Rinascimento. Decisi allora di laurearmi con una tesi sul pensiero pedagogico di Pier Paolo Vergerio; e fu in seguito a queste mie prime letture sul Rinascimento che, avendo lasciato la Germania nel 1933, scelsi l’università di Firenze per continuarvi i miei studi universitari. Qui ebbi la fortuna di potermi valere dei consigli e dell’insegnamento di due maestri della storia fiorentina, Roberto Davidsohn e Nicola Ottokar. Dal primo imparai l’importanza della documentazione archivistica per la storiografia narrativa, dal secondo la precisione critica ed il metodo prosopografico, che ha poi così profondamente influito sulla nostra interpretazione della storia politica e sociale di Firenze, – e non solo di quella della fine del Dugento. La mia tesi di laurea sulla lotta contro i Magnati (argomento assai diverso da quello propostomi dal Baron ma ricollegato con esso dalle mie ricerche sulla nobiltà medievale), che nella versione pubblicata ebbe, anni dopo, un’accoglienza favorevole imprevista da parte di insigni studiosi come il prof. Cristiani, risentì fortemente dell’influsso del libro di Ottokar. Ma mi giovai anche dei miei studi sulla nobiltà europea ed italiana, e la mia interpretazione della classe magnatizia quale ceto creato, nella sua forma costituzionale e politica, da misure legislative, dipendeva anche, fino a un certo punto, dalle mie esperienze personali nella Germania del 1933. Il mio successivo lavoro di storia fiorentina lo pubblicai in Inghilterra nel 1942, ma avevo già cominciato a prepararlo quando, dopo la laurea conseguita nel 1935, ero assistente di Nicola Ottokar nella vecchia sede della Facoltà di Lettere in Piazza San Marco. L’argomento di questo lungo saggio, l’evoluzione delle tradizioni leggendarie delle origini di Firenze, concepita come manifestazione del pensiero politico fiorentino durante i secoli XIII e XIV, segnò d’altronde un nuovo punto di partenza per le mie ricerche storiche. Mi riferisco soprattutto alla utilizzazione, nel campo della storia del pensiero politico, di testimonianze provenienti dal di fuori dell’ambito delle dottrine politiche quali le fonti storiografiche, letterarie ed artistiche, e quindi al rifiuto di studiare questa storia esclusivamente come storia dottrinale. Può anche darsi che la metodologia della “Geistesgeschichte”, di cui avevo subito l’attrazione al tempo dei miei studi universitari a Berlino, avesse alquanto contribuito al mio modo di concepire la storia del pensiero politico. Dalla storiografia inglese ho poi imparato, fra l’altro, un atteggiamento scettico, o almeno una buona misura di cautela, rispetto alle generalizzazioni e teorie non corroborate dai fatti particolari. E fu proprio questo insistere sulla importanza del fatto particolare – nelle parole di Aby Warburg, “Der liebe Gott steckt im Detail” – nella storia della cultura che trovai realizzato nei lavori ed insegnamenti dell’Istituto fondato da lui e trasferito da Amburgo a Londra. I miei legami con questo Istituto si sono rinforzati ed approfonditi nel corso degli anni ed hanno influito sui miei lavori storici, anzitutto quando essi si valevano di fonti iconografiche. Tali lavori, ed in particolare il mio saggio sugli affreschi di Ambrogio Lorenzetti e di Taddeo di Bartolo nel Palazzo Pubblico di Siena, si collegano ai miei studi del pensiero politico italiano nel Tre- e Quattrocento, in quanto ho cercato di individuare nel contenuto iconografico della decorazione di palazzi pubblici le idee e scelte politiche del governo o del ceto dominante, inserendo in tal modo le raffigurazioni allegoriche e celebrative di questi palazzi nella evoluzione del pensiero politico. A questi miei lavori sull’iconografia politica hanno poi fatto seguito delle ricerche sulla storia dei palazzi pubblici, ed anche di quelli privati, e spero fra poco di poter completare un libro, sul quale sto lavorando da anni, sulla storia politica ed amministrativa di Palazzo Vecchio nel periodo repubblicano. Quanto ai miei lavori sulla storia costituzionale di Firenze nel secolo XV, la storiografia inglese nel campo delle istituzioni politiche ha indubbiamente lasciato una profonda impronta su delle ricerche di cui il risultato più impegnativo fu il mio libro sul governo di Firenze sotto i Medici durante quel secolo. In quest’opera, come anche nel mio precedente saggio sulle vicende del Consiglio Maggiore dopo il 1494, ho considerato gli sviluppi delle tecniche costituzionali in funzione della evoluzione delle strutture politico-sociali di Firenze, ed a questo scopo mi sono valso soprattutto della ricca documentazione conservata nell’Archivio di Stato di Firenze sulla legislazione e sui procedimenti elettorali, argomento fino allora quasi completamente trascurato dagli storici. Nel mio libro sui Medici, ho cercato di spiegare il processo graduale ed all’inizio sperimentale attraverso il quale si svolse e si stabilizzò il loro sistema di governo sulla base della costituzione repubblicana, rispettandone in gran parte le forme e, in misura maggiore o minore, perfino lo spirito, processo che fu portato a termine attraverso l’uso di misure costituzionali quali la legislazione degli antichi consigli. Questo sistema coinvolse la maggior parte della vecchia classe dirigente, ma si valeva anche, specialmente sotto Lorenzo, di “uomini nuovi”, e tutto sommato dimostrò una notevole mobilità sociale. L’esame dei metodi con i quali furono scelti, tramite i controlli elettorali introdotti dai Medici e dai loro seguaci, sia i membri delle più alte magistrature che quelli dei principali consigli, oltre a precisare la struttura istituzionale del ceto dirigente sotto i Medici, potrà anche servire ad indagare la struttura sociale e la composizione individuale e famigliare di questo ceto nonché i suoi rapporti coi regimi che governavano la città prima dell’ascesa dei Medici e dopo la loro espulsione nel 1494. I miei studi sulla storia costituzionale di Firenze richiesero lunghe e spesso complicate ricerche archivistiche e mi rivelarono la straordinaria ricchezza, solo in parte esplorata, dei fondi dell’Archivio di Stato di Firenze riguardanti la storia della repubblica fiorentina. Quando mi trovai quindi a dover affrontare, insieme agli amici dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento e degli altri istituti coinvolti in questa iniziativa, la questione del tipo di edizione da dedicare alle lettere di Lorenzo de’ Medici il Magnifico, io davo per scontato che l’edizione dovesse essere accompagnata da un commento storico basato soprattutto su fonti archivistiche inedite. E di nuovo rimasi colpito, e lo sono tuttora, dalla mole e dalla importanza della documentazione inedita conservata a Firenze ed in altre città italiane, documentazione che ora mi serviva per le ricerche sulla politica estera anziché per quelle sulla politica interna; ma rimasi anche colpito dalla relativa scarsezza di studi recenti sui rapporti fra gli stati italiani nel secolo XV che si fossero valsi di questi materiali, nonché dalla quasi completa mancanza di strumenti di lavoro quali i regesti dei carteggi diplomatici. In effetti, l’edizione delle lettere di Lorenzo il Magnifico, di cui i due primi volumi furono curati da Riccardo Fubini ed i due seguenti da me, e di cui il quinto volume è di prossima pubblicazione a cura di Michael Mallett, si è rivelata una fonte assai preziosa per la nostra conoscenza della politica estera e della diplomazia degli stati italiani nella seconda metà del Quattrocento, sia in chiave di documentazione inedita sia in quella di ricerche particolari. Ma ne risalta anche, in una luce più chiara ed in forma più complessa, la personalità di Lorenzo de’ Medici e la sua posizione all’apice del ceto dirigente di Firenze. Fu nei lontani anni ’50 che, insieme al compianto amico Pier Giorgio Ricci, decisi di impegnarmi in questo progetto; se avessi previsto allora la quantità di lavoro che esso comportava, avrei forse preso una decisione diversa, o può darsi che avrei cercato di ridimensionare l’edizione entro limiti più ristretti. Ma, tutto sommato, sono ora contento di aver dato retta alla visione ed all’ottimismo di un periodo giovanile della mia vita. L’edizione delle lettere di Lorenzo mi ha costretto ad addentrarmi in un campo del quale mi ero fin allora poco occupato, quello della storia diplomatica; e la lettura del foltissimo carteggio di Lorenzo e dei suoi amici e collaboratori ha anche approfondito e talvolta modificato la mia conoscenza ed interpretazione dell’uomo e della sua politica. Le ricerche biografiche non hanno goduto sino a poco tempo fa di molto favore nella storiografia sulla politica e società del Rinascimento negli ultimi decenni. Apprezzo pienamente il contributo apportato da quegli studi che, sia attraverso ricerche statistiche e demografiche, sia tramite modelli rappresentativi, stanno ampliando e precisando la nostra conoscenza della vita delle classi anonime del popolo. Ma rimane pure uno spazio storico nel quale l’individuo conta più del rappresentante tipico di un ceto sociale, l’azione determinante e talvolta innovatrice più della lunga durata; e non mi pare veramente necessario risalire a Jacob Burckhardt per trovarne la conferma quanto mai definitiva nella storia del Rinascimento italiano. La lunga dimestichezza con il carteggio e tramite questo carreggio con gli atteggiamenti ed azioni politiche di Lorenzo non ha potuto non confluire con i miei studi sul pensiero politico, ed avrà in questo modo anche contribuito ai miei recenti lavori sul Machiavelli e sul Guicciardini. D’altronde, essa ha se mai rinforzato ciò che è sempre stato uno dei fili conduttori di questi miei studi, cioè il tentativo di inquadrare la storia del pensiero politico in quella delle strutture e tradizioni politiche. Concludo con qualche parola su quell’aspetto della vita accademica che riguarda l’insegnamento. Nella problematica del rapporto fra la vita attiva e la vita contemplativa, gli intellettuali spesso identificano la seconda con gli studi e con la ricerca, la prima con la politica e la pubblicistica; ma, come osservò già Aristotele, anche la vita contemplativa, o diciamo pure gli “studia humanitatis”, possono, in un significato più complesso e delicato, rappresentare l’azione. L’insegnamento mi è sempre apparso conformarsi idealmente a questa definizione; e sarebbe quindi uno sbaglio tralasciarlo da questo breve autoritratto. Feci la mia prima esperienza d’insegnamento universitario quando Nicola Ottokar m’incaricò di esercitazioni di storia medievale; e fra le mie ultime esperienze occupa un posto di rilievo il corso che tenni di nuovo all’Università di Firenze circa due anni fa: così si chiude un cerchio. Allo stesso tempo continua il mio seminario all’Istituto Storico dell’Università di Londra, che è ormai da molti anni un centro per gli studi interdisciplinari di storia italiana del tardo medio evo e del Rinascimento, e punto d’incontro e di scambio di idee e di risultati di ricerca fra gli studiosi giovani e non tanto giovani, e che si è guadagnato un posto non trascurabile nello sviluppo di questi studi nei paesi anglosassoni. Ultimamente ho poi avuto il privilegio di tenere seminari alla Scuola Normale, ed è motivo di particolare soddisfazione per me che l’alto onore che mi è stato assegnato dalla giuria e dai promotori del Premio Internazionale Galileo Galilei mi sia conferito a Pisa, e nell’Aula Magna dell’Università rifondata da Lorenzo il Magnifico.