Pisa, ottobre 2014
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Illustri signore e signori delle autorità, stimatissimi colleghi, carissime amiche e carissimi amici. Desidero innanzitutto rivolgere parole di riconoscenza e gratitudine al Professore Pieretti, ai soci della giuria, alla Fondazione Premio Galileo Galilei e ai Rotary Club Italiani per l’alto onore conferitomi oggi. Nello stesso tempo, sono un po’ imbarazzato, perché ci sono altri studiosi meritevoli di ricevere questa alta onoreficenza. Nel tentativo di capire la decisione della giuria vorrei esporre in breve le ragioni del mio interesse—ma dovrei dire meglio fascino—per la storia italiana del Rinascimento e della Controriforma e il mio percorso, prima come studente e poi storico. Di umili origini, sono nato in un piccolissimo villaggio agricolo nello stato dell’Iowa, il “midwest” degli Stati Uniti. I miei genitori non ebbero l’opportunità di frequentare l’università, ma riconoscevano l’importanza dell’istruzione scolastica. Grazie ad una borsa frequentai un piccolo “college” con l’intenzione di diventare un ragioniere – un’idea dei miei genitori, perché ero bravo in matematica. Ma trovai questi studi noiosi—chiedo scusi di tutti i ragionieri nella sala ma questi studi non furono per me—così decisi di frequentare il conservatorio per diventare pianista. Là incontrai un’altra difficoltà: una insufficienza di talento. E fu a quel punto che cominciai a studiare la storia…. Ma perché? In realtà, mi aveva sempre interessato la storia europea: per esempio, a tredici-quattordici anni lessi i sei volumi sulla storia della Seconda Guerra Mondiale di Winston Churchill e trovai sempre molto affascinante la storia d’un continente così distante dalle mie origini. Fu così che decisi di studiare storia europea. Dopo la laurea a Oberlin College in Ohio nel 1959, iniziai gli studi di dottorato all’University di Wisconsin a Madison, un centro universitario dominante in quegli anni per la ricerca in campo storico. Era un dipartimento di storia pieno di bravi professori, di storia Americana e di storia Europea, e c’erano anche centinaia di studenti, energici, ambiziosi, e pieni di idee. Soprattutto, c’era il mio professore, George Mosse. Nato a Berlino da una ricca famiglia ebrea erano proprietari di una casa editrice importante —-a quindici anni, nel 1933, lasciò la Germania con la famiglia per gli Stati Uniti dove diventò professore. Sono sicuro che Mosse è ben conosciuto in Italia come autore di molte monografie sul nazismo, sul fascismo, e sulla storia delle ideologie moderne. Ma scrisse anche libri sulla Riforma Protestante, il puritanesimo, ed altre monografie sul sedicesimo e diciassettesimo secolo, con il risulto che durante i suoi seminari furono messi in discussione molti temi, dal calvinismo al marxismo, dalla storia culturale, alla crescita del nazismo, e di altro ancora. A quel tempo, avevo intenzione di diventare uno studioso della Francia e scrissi una tesina di master sul tardo rinascimento francese. Ma nell’estate del 1960, comprai un biglietto aereo ed una tessera per l’Ostello della Giovantù per visitare l’Europa per la prima volta. Passai tutta l’estate facendo l’autostop da Parigi a Lubliano. Arrivando in Italia, feci un grande giro, da Torino a Roma e Napoli, poi a nord a Venezia, sempre facendo l’autostop. Fu il mio primo incontro con l’Italia, una terra da tesaurizzare per il suo passato e il suo presente, per la sua civiltà rinascimentale, che ha creato in grossa parte il nostro mondo moderno. Tornato all’Università di Wisconsin, a settembre, cambiai il mio campo di studi a favore della storia italiana e cominciai ad imparare l’italiano. Poi ebbi una botta di fortuna, un avvenimento molto importante per il mio sviluppo come storico: nell’autunno del 1961, il Mosse andò all’estero come “visiting professor” ed un’altro professore arrivò, come sostituto per l’anno accademico. Si trattava di Giorgio Spini dell’Università di Firenze. Che bravo e che gentile sostituto! Tutti qui in aula conoscono bene i suoi libri su Antonio Brucioli, Cosimo Primo, sulla Ricerca dei libertini, sui protestanti nel Risorgimento ed oltre. Sentii le sue conferenze, frequentai il suo seminario, e fui il suo assistente. Lo Spini suggerì Anton Francesco Doni, un avventuriero della penna nel Cinquecento, come tema per la mia tesi di dottorato. Sono aterrato in Italia nell’ottobre del 1962, come borsista di Fulbright e cominciai subito le mie ricerche per la tesi. A questo punto, incontrai due altri giovani studiosi, che diventarono due grandi amici per la vita. Il primo fu Antony Molho, vincitore del premio Galilei nel 2010, l’altro fu Charles Schmitt, studioso di Aristotelismo e di scienza rinascimentale. Nel corso del tempo finii la mia dissertazione di dottorato che fu pubblicata con il titolo Critics of the Italian World: Anton Francesco Doni, Nicolò Franco & Ortensio Lando. Le recensioni in America ed Inghilterra furono negative: perché studiare questi scrittori, intellettuali di second’ordine, senza originalità e senza importanza? Ma in Italia i recensori capirono l’intenzione del libro: cioè, indagare lo scontento e l’incertezza di molti italiani nel periodo di transizione fra l’epoca del Rinascimento e l’inizio della Controriforma, fra la fine dell’indipendenza politica di molte repubbliche e principati italiani e l’inaugurazione dell’epoca della preponderanza straniera in Italia, fra l’ottimismo dell’umanesimo e il dubbio e lo scetticismo del periodo successivo. Fu un primo libro con molte imperfezioni, certo, ma un tentativo d’interpretare un’epoca difficile. Nel 1964, giunsi al dipartimento di storia dell’Università di Toronto dove insegnai per tutta la mia carriera. Negli anni sessanta, l’Università di Toronto godé di uno sviluppo enorme, trasformando una piccola università regionale in una università dominante in Canada e fra le più importanti nel mondo anglo-sassone. Vorrei esprimere la mia gratitudine per l’amicizia dei colleghi di Toronto, studiosi esperti nella storia di Francia, Spagna, Portogallo, della Riforma Protestante, Erasmus, gli studi italiani ed il medioevo, cioè gli studiosi del Istituto Pontificio per gli Studi Mediaevali. Ora vorrei parlare brevemente dei motivi che mi hanno guidato nelle mie ricerche sulle storia intellettuale e istituzionale del Rinascimento e della Controriforma Italiana, ma questo compito autobiografico non è affatto facile. Nella mia vita di studioso mi sono mosso da un problema o da una domanda all’altra, guidato dalla curiosità o dall’istinto, piuttosto che da un piano consapevole e stabilito, e stimolato probabilmente soprattutto dalle letture e dagli interessi precedenti. Non ho mai creduto nelle mode critiche transitorie come, per esempio, il torno linguistico , e diffido di fronte alle grandi teorie che offrono risposte complete a tutte le domande. Al contrario, quasi sempre ho cominciato un progetto con domande specifiche e modeste con la speranza di scoprire nuovi fatti e nuove risposte. E qualche volta è stata semplicemente la mia curiosità o un suggerimento che ha stimolato l’inizio delle ricerche. Finito il primo libro, arrivai capire che le idee non esistono isolatamente, ma sono una parte integrale delle istituzioni, e che non è sufficiente leggere i libri o studiare le biografie degli scrittori, ma si deve anche studiare il contesto storico, cioè le condizioni politiche, istituzionali, culturali, morali in cui le idee si svilupparono. Iniziai una prima indagine sul mondo degli stampatori e dei librai veneziani, perchè La Serenissima fu il centro del commercio librario in Italia e in Europa per il Cinquecento, ed ancora importante nel Seicento. Questo fu l’ambiente in cui scrittori in latino e in volgare vivevano e scrivevano. Cominciai a leggere documenti nell’archivio, soprattutto i processi del Santo Uffizio contro stampatori, librai, scrittori, e libri eretici, ed anche i documenti delle magistrature dello stato e la corrispondenza diplomatica fra la Serenissima e il papato. Nel corso di queste ricerche, spero di essere diventato uno storico e un archivista di modesta competenza. Nel periodo di più di quaranta anni ho visitato archivi di molti centri, da Torino a Roma. Ogni volta, avvicinando mi a un nuovo archivio statale, o universitario, oppure episcopale o religioso, sento sempre emozioni di anticipazione, ma anche di esitazione. C’è sempre la speranza di trovare documenti interessanti ed utili per far avanzare l’indagine, documenti che possano rispondere alle mie domande, ma c’è sempre anche un periodo di confusione, titubanza e sbagli. Si deve indovinare la struttura della repubblica o del comune o del principato per sapere come funzionava il governo e come gli uomini del passato predevano le decisioni. Naturalmente, la struttura del ducato di Mantova, governato dal duca e i suoi consiglieri era molto diversa dalla Repubblica di Venezia dove i Savi Grandi proponevano le loro leggi e i senatori discutevano e votavano. Per tali ragioni, mi sono sempre molto cari tutti gli archivisti che hanno una risposta alle mie domande e hanno compilato buoni inventari. Il libro successivo fu La scuola nel Rinascimento italiano. Ma perché studiare la storia della scuola nel Rinascimento? Ho iniziato a interessarmi della storia della scuola quando nostro figlio Peter frequentava la prima elementare alla Scuola Diaz a Ponte a Mensola, un piccolo sobborgo di Firenze, nel 1971. Forse intuii che il programma della Scuola Diaz aveva le sue radici nelle scuole di molti secoli prima. Nella ricerca cercai di scoprire queste radici nelle scuole umanistiche e le scuole d’abbaco nei secoli Trecento, Quattrocento e Cinquecento. Se mi permettete, ho alcune riflessioni sull’importanza della scuola nel Rinascimento e nel mondo moderno. I genitori e i consigli comunali organizzarono le scuole del Rinascimento italiano. Dopo il collasso delle scuole ecclesiastiche nel medioevo, i genitori nel Trecento provvidero ai bisogni della società pagando numerosi laici e chierici per istruire i loro figli con maestri privati, o in piccole scuole di quartiere di venti-trenta allievi, o con precettori domestici. Inoltre, i consigli comunali, specialmente nei centri urbani minori, assumevano a contratto un maestro per istruire un numero limitato di ragazzi. Poi gli umanisti quattrocenteschi fecero una grande rivoluzione scolastica. Scartarono il programma latino tardo-medievale, composto di grammatiche in versi, glossari, poesie moraleggianti, certi testi poetici antichi, ars dictaminis et cetera, e li sostituirono con grammatica, retorica, poesia, storia e morale basate su autori e testi classici latini, scoperti di recente o apprezzati in modo nuovo. Soprattutto, insegnavano le lettere di Cicerone come modello di prosa latina. I pedagoghi del primo umanesimo, come Gasparino Barzizza, Guarino Veronese e Vittorino da Feltre, attuarono il nuovo programma per i figli dei potenti nell’Italia settentrionale. Consigli comunali e genitori risposero, assumendo maestri educati nel nuovo programma umanistico latino. Intorno al 1450 le scuole delle città dell’Italia settentrionale e centro-settentrionale insegnavano gli studia humanitatis. Le scuole di lingua volgare insegnavano a leggere e a scrivere, abbaco e contabilità, cose indispensabili per una carriera commerciale. I due indirizzi scholastici, latino e volgare, preparavano i giovani a ruoli diversi nella società. Tutti e due i programmi, umanistico e abbaco e contabilità, hanno avuto un effetto profondo fino al presente. Per esempio, nel 1952 a scuola negli Stati Uniti, all età di sedici anni, studai un po’ di contabilità a partita doppia, abbastanza per tenere i conti di una piccola azienda di costruzione stradale nel 1954. Quello che imparai e utilizzai è lo stesso sistema descritto nei manuali di Luca Pacioli e Domenico Manzoni del Rinascimento italiano. I programmi degli studia humanitatis e delle scuole volgari unificarono il Rinascimento, facendone un’epoca culturale e storica coerente, feconda di grandi risultati. Quando varcarono le Alpi, l’educazione umanistica e quella commerciale crearono un analogo consenso culturale che sopravvisse alla rottura dell’unità religiosa della Riforma Protestante per influenzare profondamente il nostro mondo moderno. La nascita del volume Universities of the Italian Renaissance è stata una cosa insolita. Paul Oskar Kristeller aveva intenzione di scrivere un libro sulle università italiane nell’epoca del Rinascimento, ma era già occupato con tanti altri diversi incarichi, così persuase Charles Schmitt a scrivere il libro. Verso il primo aprile 1986, Charles mi scrisse che era pronto ad iniziare il libro — ma prima doveva visitare l’Università di Padova per fare un ciclo di conferenze. Arrivando a Padova, ebbe un infarto e morì improvvisamente all’età di solamente cinquanta due anni, il 15 aprile 1986. La scomparsa di Charles Schmitt fu una perdita grave per l’erudizione e per me personalmente, perché la sua morte chiuse la nostra profonda amicizia, iniziata nel 1962. Ma la storia ha un altro capitolo. Infatti, una sera nel mezzo dell’estate del 1986 m’ha telefonato Kristeller, che con una voce forte e nel suo stile molto diretto m’ha detto che io devo scrivere il libro sulle università italiane che Charles non aveva potuto fare. Sorpreso, ho detto di sì, e iniziai le ricerche. Il libro m’ha dato molta soddisfazione, sia come libro utile, sia come un tributo a due grandi studiosi, Charles Schmitt e Paul Oskar Kristeller. . . . Ma permettetemi a un’altra riflessione. Dal momento in cui Pietro Pomponazzi cominciò a insegnare filosofia naturale come ordinario all’Università di Padova nel 1488 al momento in cui Galileo Galilei lasciò la stessa Padova nel 1610, le università italiane goderono di un secolo d’oro, superiori agli altri centri universitari del mondo occidentale. In quel secolo, esimi professori e studiosi fecero delle rivoluzioni: Pomponazzi separò la filosofia dalla teologia; Nicolò Leoniceno sviluppò il metodo dell’umanesimo medico; Andrea Vesalio trasformò lo studio dell’anatomia umana; e Giovanni Battista da Monte iniziò la medicina clinica. Poi, c’erano una squadra di giurisperiti pionieristici come Andrea Alciato e Tiberio Deciani, e soprattutto un gruppo di matematici che culminò con il grande Galilei. Le università italiane furono i leader in Europa durante il Cinquecento e nei primi anni del Seicento. Ora mi permetterete la compiacenza di una parentesi: sono stato il curatore di due enciclopedie, Encyclopedia of the Renaissance in sei volumi e Renaissance: An Encyclopedia for Students, in quattro volumi, cioè una versione ridotta per gli studenti della scuola media oppure del primo anno di liceo. . . . . E mi sono posto una domanda: Perché trascorrere anni su questi progetti con tutte le difficoltà e i fastidi che comportano, come per esempio infinite discussioni con contributori in grande ritardo o collaboratori che insistono a volere scrivere dieci mila parole quando ne abbiamo chieste soltanto tre mila? E, naturalmente, ci sono sempre i termini minacciosi imposti dalla casa editrice. La risposta è che queste enciclopedie presentano un’opportunità di educare il mondo anglosassone sul Rinascimento, non solamente gli studiosi, ma di introdurre l’epoca del Rinascimento europeo ad un pubblico generale più largo. Ritengo che abbiamo avuto un discreto successo, viso che la casa editrice ha venduto più di dieci mila copie complete di questi due lavori a biblioteche universitarie, collegi, scuole, e biblioteche pubbliche, sia di centri metropolitani sia di piccolissimi borghi come la mia piccola cittadina natale. Il risultato è che lo studente o un lettore qualsiasi con qualche curiosità o lo studioso non-esperto della storia del Rinascimento possono trovare tutte le informazioni introduttivi ed esatte su questo grande epoca della storia. E vorrei dire che nel periodo degli anni dedicati alle due enciclopedie ho avuto l’opportunità di collaborare con una squadra di editori straordinari della casa editrice ed un gruppo di studiosi eccelsi dall’America, dal Canada, e dall’Europa, tutti dedicati alla faticosa impresa. Vorrei concludere con una convinzione personale, forse un po’ grande e corraggiosa: ritengo che c’era una forma di unità nell’epoca del Rinascimento, una coesione culturale e della civiltà condivisa fra gli italiani nei secoli del Quattrocento, Cinquecento e i primi Seicento. Naturalmente non si può parlare di unità politica. Ma credo che si possa parlare e si possano indagare le fondamenta e le ragioni storiche per una cultura condivisa fra italiani: per esempio, fra un umanista pedagogico come Guarino Veronese, e un modesto maestro comunale del Cinquecento, e un gesuita insegnante di retorica del primo Seicento. Si può vedere una qualche solidarietà fra un modesto aristotelico di una piccola università del Quattrocento e il famoso Cesare Cremonini dell’Università di Padova. Inoltre, c’era una civiltà condivisa fra un mercante, che usava l’abbaco imparato nella scuola popolare e il Galilei che ha scritto il Dialogo dei due massimi sistemi del mondo. A dispetto di tutte i disastri—come la peste descritta con chiaroveggenza e simpatia umana da Manzoni e le stupidaggini innumerevoli fatti da duchi, papi, e signori—c’era una civiltà condivisa e una cultura italiana che ha contributo tanto al nostro mondo moderno. Grazie per l’attenzione e grazie di cuore al Presidente Pieretti, ai Rotary Club Italiani, alla Fondazione per il Premio Galileo Galilei, ai soci della giuria, all’Università di Pisa, al sindaco e Comune di Pisa, e a tutto il pubblico per questa indimenticabile giornata.