Pisa, ottobre 1969
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Mi è difficile esprimere i miei pensieri in questa solenne e magnifica occasione. Non è che trovi difficoltà a dar parole al sentimento di gratitudine per il bel premio che mi è stato conferito, perché questa gratitudine è vera, viva e sincera; certamente uno può dire “grazie, grazie infinite” senza dire molte parole, senza vergognarsi e senza aver bisogno di spiegarne le ragioni. Nondimeno, ripeto che mi è difficile esprimere i miei pensieri, ma per altri motivi. Il significato del Premio è stato sottolineato da tutti quelli che oggi hanno parlato da questa tribuna; non sarebbe di buon gusto, da parte di chi lo ha ricevuto, esaltarne l’importanza. Piuttosto, la difficoltà sta nel trovare le parole giuste per quello che mi è venuto in mente, per il mio pensiero intimo e personale quando mi giunse la prima comunicazione dal prof. Bolelli che mi notificava la deliberazione con la quale la vostra Commissione accademica aveva preso in considerazione il mio nome. Non era forse uno sbaglio? – così mi domandai nel primo momento, leggendo la lettera. Quali sono i miei meriti riguardo la civiltà italiana? Che cosa devo rispondere? Ma poi, ripensando le cose – “on second thought” come diciamo in inglese con una frase molto incisiva – mi dissi che una commissione di colleghi eruditi e competenti non può mancare di senso critico; non avranno preso in considerazione i meriti, ma piuttosto la mia grande affezione per l’Italia e la sua civiltà, la sua cultura giuridica attraverso i secoli. La Commissione (mi dissi) per questa volta ha voluto premiare uno il cui merito sta proprio in questo, che si sente legato alla cultura italiana; e se questo sentimento, che risale fino agli anni nei quali ero studente, viene qui ufficialmente riconosciuto, perché non accettare il loro giudizio ed esserne lieto? Anni di studente; penso al primo viaggio che il diciannovenne fece con la madre e la sorella in Italia e che lo condusse fino ai templi greci della Sicilia, un viaggio preparato con molta cura, eseguito a passo lento, con comodo, nutrito – come ogni ragazzo tedesco di quella generazione – dalla lettura della Italienische Reise di Goethe, e molto differente dall’odierno turismo. Anni di studente: lavorando per la tesi di laurea a Berlino in diritto penale, sul tema della falsa testimonianza, cominciai a riconoscere il significato concreto del diritto canonico e del diritto comune del medioevo per la formazione dei concetti e gli sviluppi dottrinari del diritto moderno. Dopo il dottorato, con l’idea di proseguire su questa pista, chiesi una borsa di studio per andare a Roma: certamente alla Biblioteca Vaticana uno doveva trovare con facilità tutto il materiale manoscritto necessario per ricerche del genere conservato intatto dal medioevo fino ad oggi. Così pensava il giovane laureato con tutta l’ingenuità di uno che non aveva mai ricevuto una formazione nelle discipline ausiliarie dello storico. Tuttavia gli fu data la borsa; e questi sei mesi a Roma nel 1930 gli aprirono gli occhi, lo condussero alla prima scoperta di un testo importante del duecento, e lo confermavano per sempre nella passione per i manoscritti. Era a Roma, alla Vaticana, che cominciai ad abbozzare la monografia sull’imputazione dei delitti nel diritto canonico Classico. Anni di emigrazione: tra i milioni la cui rotta di vita fu crudelmente cambiata coll’arrivo al potere di Hitler nel 1933, ci fui anch’io: fortunato di poter emigrare in un paese per il quale sentivo una sicura affezione; fortunato di trovare per la benevolenza di un papa erudito, al quale piaceva il mio progetto di un Corpus Glossariorum iuris canonici, un posto nella Biblioteca Vaticana. L’incarico portava con sé viaggi in altri paesi allo scopo di raccogliere le informazioni necessarie sui manoscritti da includere nel programma. Nuove scoperte inaspettate nelle ricchezze sconosciute dell’Europa (perfino nelle grandi biblioteche già visitate da scienziati dell’ottocento) rendevano consigliabile la pubblicazione di un primo Repertorium. Uno dei risultati di queste ricerche fu la luce nuova nella quale apparivano anche le scuole non-italiane del secolo decimo secondo – centri di studi canonici in Francia, nel regno anglo-normanno, nella Renania. Posso dire in retrospettiva che questi anni di ricerca (e anche del primo posto d’insegnamento) nel servizio della Biblioteca Vaticana, tra il 1933 e la seconda guerra, furono quelli che hanno dato la direzione definitiva all’attività scientifica che ho svolto fino ad oggi. Con la guerra veniva la seconda emigrazione, anche questa un nuovo allargamento dell’orizzonte scientifico e accademico. L’insegnamento della storia del diritto canonico e delle istituzioni ecclesiastiche doveva comportare negli Stati Uniti un orientamento diverso da quello del Vecchio Mondo: far vedere allo studente americano i legami interculturali era una cosa; imparare dal giurista americano un’altra concezione del diritto, e altri metodi di ragionamento giuridico che quelli dell’Europa continentale post-napoleonica o post-pandettistica, era un’altra cosa. Tutto questo non poteva non influenzare il mio pensiero e la mia produzione scientifica. Il professore americano che a mezza strada della vita partecipò al Convegno bolognese del 1952, quel memorabile convegno celebrato per l’ottavo centenario di Graziano, non aveva più il sogno giovanile di un Corpus Glossariorum che lui stesso da solo potrebbe produrre. E così si facevano i primi passi verso un Istituto di Diritto Canonico del Medio Evo, da crearsi con la cooperazione tra diverse discipline giuridiche e storiche le quali di solito furono coltivate nel passato separatamente in diverse facoltà, o in diverse sezioni di una facoltà, con tutti gli svantaggi delle specializzazioni ristrette e limitate. E c’era un’altra limitazione da superare: quella delle divisioni nazionali, poiché solo con la cooperazione senza riserve di studiosi di ogni nazione si può oggi arrivare alla creazione di quell’ideato Corpus di testi canonistici – scritti dei dottori e lettere decretali dei papi – che è indispensabile per la vera conoscenza dello sviluppo giuridico del mondo occidentale. Non mi pare superfluo sottolineare quest’aspetto internazionale del nostro lavoro in un’epoca che ha visto nascere nuovi nazionalismi e subnazionalismi razziali e linguistici in certi paesi. In questo senso, quello di avere fatto uno sforzo per il lavoro comune nella repubblica delle scienze umane, di avere stimolato il lavoro comune tra canonisti e civilisti, storici del diritto e delle istituzioni e tutti gli altri studiosi di quel continuum che è la storia e la vita culturale dei popoli – in questo senso, dico, ho forse fatto qualcosa che si può anche considerare corre un modesto contributo alla civiltà italiana.