Pisa, ottobre 1983
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Il conferimento, in questa solenne seduta, del Premio Internazionale “Galileo Galilei” ’83 dei Rotary Club Italiani per la “Storia della Lingua Italiana”, che avviene sotto gli auspici dell’Università degli Studi di Pisa con l’alto patronato del Presidente della Repubblica, non è soltanto un grande onore per me e per mia moglie ma anche per tutti i colleghi delle due Università in cui ho finora insegnato e del mio paese. Esso è nel contempo un’occasione quanto mai propizia per me di ripercorrere nella mente le tappe non sempre facili e spesso apparentemente contraddittorie della mia vita. Questa occasione mi offre inoltre la possibilità di ringraziare molti cari maestri, colleghi e amici che mi hanno aiutato nel mio cammino, di cui soltanto alcuni sono qui presenti, e l’illustre Giuria, presieduta dal prof. T. Bolelli, che mi ha ritenuto degno di ricevere un premio così ambito, premio tanto più gradito in quanto non era da me aspettato. Quando nell’immediato dopoguerra mi preparavo agli ultimi esami di filologia italiana e francese alla Facoltà di Lettere di Zagabria dove avevo studiato sotto la guida del compianto Petar Skok e del tuttora agile benché novantatreenne Mirko Deanovic’ , sognavamo tutti di andare un giorno a completare le nostre conoscenze in Italia. Sfortunatamente ciò non fu allora possibile. Gli anni 1945-1947 erano duri non solo per il mio paese ma anche per l’Italia. Soggiornai per la prima volta in Italia soltanto sette anni dopo, nel mese di luglio 1954, come borsista dell’Università Italiana per stranieri di Perugia. Avevo allora quasi 32 anni e mi trovavo da appena dieci mesi nella carriera universitaria. In tempi normali 32 anni sarebbero troppi per l’inizio di una carriera universitaria. Erano invece normali in quel tempo e in quella parte d’Europa in cui nacqui vissi e in cui le conseguenze dei cataclisma che aveva distrutto tante vite e tanti beni e stroncato tanti sogni erano tuttora ben presenti. Nell’accingermi oggi a fare una critica di me stesso devo confessare innanzi tutto che quasi tutti i temi di cui mi sono intensamente occupato nella prima parte della mia carriera e di cui mi occupo alle volte ancora oggi mi erano in un certo senso congeniali. Non avevo bisogno di cercare i temi, i temi cercavano i pochi entusiasti desiderosi di occuparsene. Capirete subito a che cosa alludo. Non si può, essendo romanista e abitando sull’una o sull’altra sponda dell’Adriatico, specie se si ha una formazione storicistica come fu all’inizio la mia, non tener conto delle conseguenze della convergenza linguistica e culturale di tante etnie, popoli e nazioni attraverso i secoli. L’Adriatico fu tra l’altro anche un luogo di incontri non sempre pacifici slavo-romanzi. Avendo avuto come maestri il maggiore cultore prebellico della simbiosi medievale slavo-romanza in Dalmazia e nelle zone finitime (P. Skok) e uno studioso dei contatti non solo letterari e culturali ma anche linguistici fra la Croazia e l’Italia e la Croazia e la Francia (M. Deanovic’ ) la mia strada iniziale era già segnata. Come è risaputo, la ricerca delle “fonti” (etimi, modelli letterari e culturali imitati e sim.) dominava nella linguistica e nella letteratura comparata di stampo tradizionale. Con il cambio del paradigma scientifico la prospettiva si capovolse. Gli imprestiti, nel nostro caso i dalmatismi, gli italianismi e altri romanismi della mia lingua, vengono d’ora in poi studiati come un tipo speciale di neologismi, insieme ad altri neologismi di forma e sostanza slava. La lingua ricevitrice diventa insomma più interessante della lingua o delle lingue datrici. Lo stesso si dica, mutatis mutandis, per il rinnovamento della letteratura comparata. Degli altri temi, per es. della linguistica e fonologia generali, della fonologia italiana, veneziana, slava e latina, mi sono interessato in un secondo tempo. Essi si sono resi necessari per le mie ricerche sui contatti fra il dalmatico, il veneto coloniale, altri dialetti italiani e lo slavo balcanico occidentale. Quando nel 1956 divenni docente e nel 1961 professore di linguistica italiana, le necessità dei mio insegnamento universitario provocarono un nuovo ampliamento dei miei interessi. Un terzo ampliamento si deve infine alla nomina, nel 1972, a professore di linguistica romanza a Berlino dove insegno anche linguistica francese e romanza e alle volte anche civiltà italiana (in tedesco Italienische Landeskunde). La città di Dubrovnik (Ragusa di Dalmazia) e il suo passato linguistico ha assunto per me, soprattutto grazie al mio triennio raguseo (1950-1953) un ruolo di primaria importanza. Questa bella città, chiamata una volta Ragusium e ancora prima, se l’etimo da me proposto del toponimo slavo (Dubrovnik) è giusto (Castellum) de Epidauro novo (i risultati dei recenti scavi archeologici, resisi indispensabili dopo il terremoto del 1979, militano a mio favore), fu sede, dopo la cacciata dei Veneziani nel 1358, di una Repubblica libera, tributaria dei re ungaro-croati fino al 1526 e dei sultani ottomani dopo il 1526. Una saggia politica estera e interna della sua classe politica vi creò delle premesse necessarie allo sviluppo delle lettere e delle arti. Infatti, molti scrittori rinascimentali e dell’era barocca, umanisti e scienziati croati ebbero i loro natali in questa città o nei suoi dintorni. I romanisti sanno molto bene che il patriziato di Ragusa usava nel Senato, fino agli ultimi decenni del Quattrocento un idioma romanzo autoctono, chiamato lingua vetus ragusea (o sim.), ossia un dialetto dell’antico dalmatico che si andava estinguendo in varie località della Dalmazia dal dodicesimo secolo in poi, preso nella morsa tra due idiomi più forti, lo slavo e il veneto coloniale. Ad esso si riferiscono i quattro lessemi menzionati da Filippo de Diversis, un toscano che dal 1434 al 1440 insegnava il latino a Ragusa: “…panem vocant pen, patrem dicunt teta, domus dicitur chesa, facere fachir et sic de ceteris, quae nobis ignotum idioma parturiunt”. Potete facilmente immaginarvi con quali speranze ero arrivato nel febbraio dell’ormai lontano 1950 in questa città. L’Archivio di stato cittadino, che doveva diventare il mio posto di lavoro fino all’autunno del 1953, si addiceva nel modo migliore ai miei interessi scientifici di allora. Speravo di scoprire, nei più di 13 mila codici pergamenacei e cartacei e nei più di 200 mila fogli volanti che vi si custodiscono, dei testi antichi ragusei, sfuggiti – come credevo – a tanti illustri studiosi che diressero l’Archivio o che vi lavorarono a lungo (per es. K. Jirecek, M. Resetar e altri). Il mio direttore, lo storico Vinko Foretic’ , mi introdusse con grande pazienza nei segreti del lavoro archivistico e mi trasmise quel rispetto per l’acribia e per il lavoro minuto induttivo che non ho mai dimenticato e che si accorda del resto poco bene con i modelli di stampo strutturalistico e sociolinguistico che ho costruito e che tuttora sto costruendo nello seconda e nella terza fase della mia carriera. Secondo le usanze tradizionali dovevo poco dopo sostenere il cosiddetto esame di stato. Siccome non insegnavo più nei licei, esso doveva essere di natura archivistica. Scelsi come compito scritto una visione ragionata d’insieme del catalogo di un archivio privato, da me precedentemente compilato. A causa di tale obbligo imminente e vista la mancanza quasi assoluta di manuali romanistici a Ragusa (con il Boerio e il Du Cange si potevano tutt’al più tradurre certi documenti e non tutti) dovetti rimandare le mie ambizioni dalmatistiche a tempi migliori. Ma già allora trascrissi molti testamenti registrati a Ragusa, per lo più ad opera di notai e sacerdoti del paese, durante la grande peste del 1348, quella terribile Black Dead che aveva devastato mezza Europa e che fu poi immortalata dal Boccaccio. Essendo i morenti assai numerosi e i notai, chiamati per registrare le loro ultime disposizioni, pochissimi, questi testi non furono redatti in un latino passabile ma in un veneto coloniale di pessima qualità, pieno zeppo di dalmatismi e di croatismi. Mi gettai dunque sul compito immediato. Fortunatamente quello che a prima vista mi sembrò un mucchio polveroso senza importanza per i miei interessi romanistici si è dimostrato una vera miniera d’oro. Vi ho scoperto gli scritti, tutti in francese, dell’unico vero illuminista di Ragusa, Tomo Basiljevic’ (Tommaso dei Bassegli, 1756-1806), uno dei pochi enciclopedisti – si licet parva componere magnis – nostrani. Ne ho fatto il tema della mia dissertazione in filologia romanza, discussa a Zagabria nel 1935 e pubblicata nel 1958, come si vedrà più avanti. Per il tema di oggi contano di più numerose lettere di Alberto Fortis il quale, come constatai dopo ricerche più che trentennali (in una ventina di archivi e biblioteche dalla Scozia a Catania e da Parigi a Ragusa) aveva visitato, fra il 1765 e il 1789, almeno dodici volte la Jugoslavia odierna, con un soggiorno complessivo di più di trenta mesi. Questo grande amico degli slavi e dei croati in particolare era stato tre volte a Ragusa e nei dintorni e aveva collegato il mio “eroe” T. Basiljevic’ e altri illuministi croati (e sloveni) con i loro colleghi italiani, svizzeri, tedeschi, austriaci, inglesi e francesi. L’epistolario del Fortis (che alle volte scriveva anche in francese e in inglese) è stato da me utilizzato non solo per lo studio dei rapporti fra scrittori croati e occidentali ma anche per lo studio dell’italiano di questo illuminista padovano “anticruscante”. Quando il Deanovic’ mi prese come suo assistente a Zagabria nel 1953, dovetti ancora una volta rimandare a tempi migliori gli studi sulla convergenza dalmato-veneto-croata. Avevo già 31 anni e non potevo permettermi il lusso di avventurarmi in una dissertazione che, dato lo stato delle biblioteche di Zagabria di allora e la difficoltà di viaggi all’estero, si sarebbe assai verosimilmente protratta per almeno sette anni. Scelsi allora come tema della mia dissertazione il tema “T. Basiljevic’ come rappresentante dell’illuminismo a Ragusa” e lessi a tale scopo, oltre a più di 10 mila pagine di documenti di archivio, anche tutti gli scrittori citati dal mio “eroe” in sostegno delle sue proposte riformistiche (oltre a C. Beccaria, G. Filangieri, A. Fortis, M. Cesarotti, F. Algarotti e altri italiani vi figuravano gli inevitabili grandi francesi Montesquieu, Voltaire e Rousseau, molti francesi di minore importanza per es. L. S. Mercier, e inoltre alcuni scrittori tedeschi e inglesi). Ne venne fuori un lavoro che oserei definire neopositivistico di letteratura comparata con particolare riguardo alle letterature italiana e francese, però con un’attenta analisi del novum teorico e pratico, dovuto al nostro clima spirituale e alla situazione specifica della Repubblica di Ragusa, a pochi chilometri dalle divisioni turche che potevano occuparla in breve tempo, e minacciata dagli alleati cristiani infidi. Dopo il triennio zagabrese (1953-l956) venne per me un periodo che chiamerei “la grande svolta”. Sei colleghi ed io fummo destinati a fondare, nel 1956, la seconda facoltà di lettere dell’Università di Zagabria a Zara. Siccome i fondi delle biblioteche di questa città duramente provata dalla guerra contenevano per lo più libri storici, archeologici e di storia letteraria, per la linguistica si dovette cominciare quasi dallo zero. Vuol dire che eravamo “costretti” a leggere quasi soltanto dei libri più recenti. E con i nuovi libri vennero anche delle nuove idee che nel retroterra erano o ignote o avversate dai tradizionalisti. Immersi nel mare magnum di molti problemi, i miei colleghi, che a poco a poco crebbero di numero, ed io nuotammo per la prima volta con le nostre pinne e respirammo per la prima volta con le nostre branchie: il cordone ombelicale che fino a quel tempo ci teneva legati ai nostri maestri non funzionava più. Di quelli di filologia romanza uno era nel frattempo morto (P. Skok), l’altro (M. Deanovic’ ) era troppo lontano: a Zara si poteva arrivare allora soltanto in corriera o in nave; i collegamenti ferroviari o aerei vennero soltanto molti anni dopo. Nel triennio 1956-1959 scrissi il mio lavoro di abilitazione in cui avevo studiato gli elementi dalmatici nei testamenti registrati a Ragusa fra il 1348 e il 1363 e avevo tentato di ricostruire, nelle grandi linee, diverse fasi del sistema fonologico raguseo lungo l’asse della storia. Lo discussi a Zagabria nel 1960 e ottenni la venia legendi per la filologia romanza con particolare riguardo alla filologia italiana. Si noterà che il termine filologia in questa accezione risale ai tempi asburgici quando non si sapeva ancora che anche la linguistica era una disciplina scientifica da prendere sul serio. Tale lavoro uscì nel 1962 nelle edizioni dell’Accademia jugoslava di scienze e belle arti di Zagabria la quale, quindici anni dopo, mi elesse membro corrispondente (nel 1977). Ora potevo occuparmi anche di temi che esorbitavano dalla cerchia ereditata dai miei maestri. Per i nuovi tempi e i nuovi temi, e anche per il mio insegnamento della linguistica italiana alla Facoltà di lettere di Zara, avevo bisogno di altri maestri e di altri modelli. Fu allora che conobbi prima per iscritto e poi anche personalmente due grandi: André Martinet e Roman Jakobson. Quest’ultimo soprattutto ha impregnato della forza dei suo genio versatile quasi tutta la mia produzione scientifica posteriore al 1962, in particolare nel decennio 1962-1972. In occasione del Terzo centenario dell’Università di Zagabria (1969) a R. Jakobson fu conferito il titolo onorifico di dottore honoris causa su proposta mia e di un collega zaratino. Sono molto lieto di essere stato io il promotore. Il decennio menzionato rappresenta il periodo quantitativamente più ricco della mia produzione scientifica. Se lo sia stato anche qualitativamente, lo rimetto al giudizio altrui. Nel 1964 esce in croato, nella tecnica modesta delle dispense Universitarie, la prima versione della mia Fonologia generale e fonologia della lingua italiana, pubblicata in seguito, nel 1969, dalla Casa Editrice il Mulino in forma riveduta e ampliata. Questa edizione bolognese non sarebbe stata possibile senza l’interessamento del mio caro amico Luigi Heilmann a cui esprimo anche in questa sede il mio ringraziamento. Non sapendo che il mio manuale si stava stampando a Bologna la Casa Einaudi volle inserirlo nelle proprie edizioni. Siccome ciò non era più possibile, Einaudi mi incoraggiò a preparare un altro manuale, l’Introduzione allo studio della lingua italiana, Torino 1971 (dal 1982 si ha una seconda edizione senza cambiamenti degni di nota). Questi manuali e molti saggi e articoli ancora non sarebbero stati possibili o non sarebbero usciti così presto senza un soggiorno di ricerca di nove mesi nella Germania Federale, accordatomi dalla benemerita Fondazione Alexander von Humboldt di Bonn-Bad Godesberg. Ebbi la fortuna di avere, durante il mio soggiorno a Monaco di Baviera come “Betreuer” il compianto slavista prof. Alois Schamus, provetto balcanologo e amico di tutti i popoli slavi anche nelle ore più difficili della loro storia. L’incontro con lui ebbe un benefico influsso sulle mie ricerche balcanologiche e italianistiche. Cominciai ad interessarmi allora anche degli slavismi dei dialetti dell’Italia meridionale e centrale, penetrativi per lo più grazie ai fuggiaschi croati e montenegrini che vi si erano rifugiati al seguito delle invasioni turche. Siamo ormai nel 1971, l’anno in cui G. Saragat, Presidente della Repubblica, mi insignì dell’onorificenza di “Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”. Nello stesso anno ricevetti il premio annuale della Repubblica Socialista di Croazia. La mia elezione a professore di linguistica romanza alla Università libera di Berlino Ovest avvenne alla fine del 1972. Essa ha onorato non solo me ma anche tutta la cultura croata e jugoslava. A Berlino ho potuto allargare i miei orizzonti anche per l’obbligo di insegnarvi nuove discipline: la linguistica francese e la “civiltà italiana”, come ho già detto. Ai temi scientifici da me in precedenza coltivati si è aggiunto qui, occorre sottolinearlo, un novum assai importante e che mi sembra anche assai promettente. Non penso tanto alla linguistica testuale che finora mi ha soltanto sfiorato di striscio e alla quale ho consegnato un modesto contributo italianistico, quanto alla sociolinguistica comparata delle “lingue per elaborazione” (detta in tedesco Ausbaukomparatistik). Non mi erano sfuggiti neanche prima i suggerimenti che potevano venire da quel nuovo ed insieme così vecchio metodo di studio che si suol chiamare “sociolinguistica”. L’interesse per le strutture extralinguistiche in cui vivono i soggetti parlanti e i rapporti intricati e non automatici fra queste e le strutture linguistiche era vivo in me anche prima: i casi di bilinguismo e di diglossia da me studiati non potevano essere bene compresi senza una buona dose di sociolinguistica avant la lettre. Ricco di esperienze anche personali in questo campo ho intrapreso, in questa terza fase della mia carriera universitaria, una revisione del modello regnante nella Ausbaukomparatistik tedesca di Heinz Kloss. Dall’applicazione del mio modello sulle “lingue per elaborazione” (ted. Ausbausprachen) romanze mi riprometto non solo nuove visioni di casi particolarmente caratteristici (la incipiente “lingua per elaborazione” corsa, che rimane, dal punto di vista linguistico-sistematico, ancorata, come dialetto, alla “lingua per distanziazione” (ted. Abstandsprache) italiana, il galiziano, il papiamentu ecc.) ma anche degli importanti progressi anche teorici (vedi i concetti e i termini da me coniati: “scheinlinguistisierte Ausbausprache”, “echtlinguistisierte Ausbausprache”). Il fondatore della teoria parla di “Ausbau der Ausbaukomparatistik” e non è questo un semplice gioco di parole. Vi sono, lo so bene, non solo dei “non addetti ai lavori” ma anche dei linguisti che deplorano la scarsa utilità pratica immediata di tante opere della linguistica moderna. Ad essi risponderei con il Leibniz: “Et utile est humano generi esse quosdam, qui veritates etiam ab usu communi remotas indagant, imo tales republica stipendiis datis ali utile est. Plerumque habent aliquem usum, etsi non omnibus nec statim appareat” Cfr. G. W. Leibniz, Textes inédits, vol. 2, Paris 1948, p. 657. E’ ora di concludere. Ho parlato delle mie fatiche e ho indicato alcuni risultati che mi sembrano degni di menzione, ho accennato ad alcune mete, vicine e lontane che forse potremo un giorno raggiungere insieme. Non ho parlato di dubbi, di perplessità, di ansie. Quelli, li tengo per me. Il conseguimento della verità scientifica mi è stato sempre – come modestamente oso credere – il fine supremo. Quel poco che ho contribuito allo sviluppo della linguistica e alla storia della lingua italiana non sarebbe stato possibile senza l’aiuto di molti colleghi. Un grazie sincero va, oltre ai già menzionati, a Manlio Cortelazzo, Tullio de Mauro, Gianfranco Folena, Corrado Grassi, Giulio C. Lepschy, Giovan Battista Pellegrini e Alberto Vàrvaro. Grazie infine a mia moglie la cui mirabile pazienza e comprensione mi sono stati sempre un appoggio nelle ore difficili. E, infine, ancora una volta, grazie a Voi, Rotariani italiani, grazie a Voi colleghi della giuria, dell’Università di Pisa e di altre università che siete venuti a presenziare questa cerimonia in mio onore, grazie per questa targa d’oro e per questa bellissima statuetta, grazie, direi per finire, al grande scultore Emilio Greco che per tramite di questa statuetta entra per sempre nella mia casa e nella mia grata memoria.