Pisa, ottobre 2022
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Zygmunt Guido Barański
Ho letto per la prima volta la Commedia — o meglio, poiché all’epoca non avevo motivo di dubitare della validità della denominazione, la Divina Commedia — più di mezzo secolo fa, a metà degli anni Sessanta, intorno ai quindici anni. L’edizione era: Dante Alighieri, La Divina Commedia, Testo critico della Società Dantesca Italiana riveduto, col commento scartazziniano rifatto da Giuseppe Vandelli, aggiuntovi il Rimario perfezionato da L. Polacco e Indice de’ nomi proprii e di cose notabili. Era la «quindicesima edizione (completa)» — l’edizione originale risale al 1893, anche se questa includeva solo l’edizione minore, drasticamente ridotta, dell’eccellente commento in tre volumi di Scartazzini. Nel 1896 si aggiunse il Rimario, nel 1899 l’Indice, mentre nel 1903 Vandelli offrì i risultati del suo primo tentativo di revisione sia del testo che del commento. Ulrico Hoepli di Milano era l’editore, come lo era stato di ogni ristampa dal 1893. L’edizione che tenevo tra le mani, la quindicesima, come ho detto, era apparsa — con il senno di poi, ora apprezzo “fatidicamente” — nel 1951, anno della mia nascita. Era stampata su carta scadente, ruvida, biancastra, con una fragile copertina giallastra, sebbene qualcuno avesse avuto il buon senso di rilegarla in modo robusto. La copia è qui con me nella nostra casa di Reading e, mentre la maneggio, sono colpito dal fatto che la scarsa qualità del suo aspetto esteriore sia quasi certamente il risultato dell’austerità del dopoguerra, quella stessa guerra che è stata la causa ultima di quel mio primo incontro con Dante in una modesta casetta in un’anonima strada di un quartiere popolare di Manchester. Mio padre era polacco ed era un emigrato politico che aveva conosciuto mia madre in un piccolo paese italiano delle Marche dopo essere stato alloggiato in una delle fattorie lì vicine alla fine della guerra. Il Regno Unito divenne la destinazione preferita di molti uomini delle truppe del generale Anders che avevano deciso di non tornare in Polonia in balia della tirannia comunista. Mio padre era arrivato nel 1947, mia mamma nel 1949 e io due anni dopo. Qualche anno dopo si unì a noi la Divina Commedia Scartazzini-Vandelli, dono della zia di mia mamma, Francesca, che, con il fratello Amerigo, l’aveva cresciuta nell’ultima casa della strada per Cerreto d’Esi ai margini di Matelica. Si erano presi la responsabilità di mia madre da quando sua madre, mia nonna Matilde, faticava ad allevare cinque figli visto che suo marito, nonno Guido, era regolarmente sotto arresto per attività antifasciste.
La nostra vita familiare era per molti versi eccentrica, ma anche energizzante. Mio padre, quando non era al lavoro, era sempre preso da attività politiche oscure, nostalgiche e inevitabilmente irrilevanti. Mia madre era spesso distratta, passando lunghi periodi persa tra i ricordi della “sua” Matelica. Riconosco le origini della mia indipendenza intellettuale, del mio forte senso di responsabilità personale e della fiducia in me stesso — tratti che altri hanno notato con gentilezza nel mio modo di comportarmi e nei miei contributi accademici — così come di molto altro, in quella strana educazione e quella eredità non convenzionale: un misto di nazionalismo polacco, radicalismo di sinistra italiano, cattolicesimo (irlandese), rifiuto di qualsiasi forma di pregiudizio e di autoritarismo, un’incrollabile anche se ingenua venerazione per la “cultura alta” e, innanzitutto, un senso inviolabile della necessità di non compromettere i propri valori e convinzioni. Anche se è stato un processo che ha richiesto tempo per raggiungere i suoi frutti, forse più di ogni altra cosa, la mia educazione e la mia eredità mi hanno aiutato ad apprezzare e trarre beneficio dalla mia “alterità”. In termini strettamente accademici, la mia educazione e la mia eredità mi hanno portato a riconoscere i vantaggi, soprattutto nel fare ricerca, non solo della riflessione su problemi al di fuori delle tendenze dominanti, ma anche dello sforzo di sviluppare, e quindi di difendere, una voce fermamente autonoma.
So che, anche se mia madre e mio padre non erano genitori convenzionali, devo a loro qualcosa del mio temperamento, sicuramente della mia energia intellettuale e della mia forma mentis, e, in definitiva, del fatto che sono diventato un accademico. Hanno condiviso con me le loro lingue madri e le loro culture. Se non fosse stato per mia mamma, non avrei studiato la letteratura italiana, tanto meno diventato un dantista. Grazie all’insistenza dei miei genitori che io e i miei fratelli parlassimo con loro soltanto nella loro lingua — l’italiano, significativamente, era la loro lingua franca —, ho potuto leggere la Divina Commedia e le annotazioni Scartazzini-Vandelli e, occasionalmente, anche seguire testo e note. Nel complesso, tuttavia, il mio primo tentativo di leggere il capolavoro dantesco mi lasciò perplesso, incantato e profondamente insoddisfatto. Ricordo ancora la sensazione di essere in contatto con qualcosa di insolito e straordinario, ma che ero del tutto incapace di comprendere al di là di una vaga e frustrante intuizione della sua grandezza. Non sono sicuro se fu allora che ebbi la prima idea che valesse la pena impegnarsi seriamente nello studio della Commedia, o se, mentre continuavo a tornare sul poema, sia stata un’idea che si è sviluppata durante gli anni del liceo, o in seguito presso l’Università di Hull. A dire la verità, non importa quando di preciso si è formata l’idea. Da quel primo, fatale incontro parte della mia vita è stata un continuo tentativo di superare quell’ingenua insoddisfazione e frustrazione giustificando, prima a me stesso e poi agli altri, l’eccezionalità della Commedia e di Dante.
Mi sono iscritto all’Università di Hull per approfondire la mia conoscenza della cultura italiana ma soprattutto di Dante. Se, in Gran Bretagna, nel 1969, ci si interessava all’Italia, sarebbe stato difficile trovare un ambiente più favorevole e intellettualmente più rinvigorente del Dipartimento di Italiano dell’Università di Hull. Ho acquisito lì una conoscenza approfondita e illuminante della letteratura italiana, della storia della lingua e della cultura italiana più in generale, nonché un’idea delle loro complesse e intrecciate connessioni. Seguendo la tradizione dell’erudizione italiana a partire dagli umanisti, per poi passare per Vico, De Sanctis, e in seguito Croce, Gramsci e oltre, e come in gran parte continua ancora oggi, l’approccio predominante era liberamente e flessibilmente storicistico. Più significativamente, in Hull, mi sono convinto che ciò che fondamentalmente mi interessava era analizzare i testi e le tradizioni testuali da una prospettiva storica e filologica.
Vorrei chiarire una cosa. Non credo che il modo in cui io studio i testi letterari sia in qualche modo “superiore” ad altre forme di interpretazione. In parole povere, è il modo di leggere che mi si addice di più; e spero che quanto ho indicato sulla mia eredità e formazione spieghi perché sia così. Ho anche avuto la fortuna di trovare generazioni di studenti che hanno riconosciuto una certa validità nei modi in cui ho cercato di discutere con loro di letteratura italiana, sia medievale che moderna, e di cinema. Gli studenti, ho capito da tempo, prima di essere incoraggiati a considerare i significati di qualcosa, vogliono imparare dei dati solidi. Nel bene e nel male, sembrerebbe che la mia miscela di storicismo e filologia intrisa di una volontà di interpretare energicamente, a volte radicalmente, abbia attirato studenti provenienti da diverse tradizioni intellettuali, educative e culturali. Se provo qualcosa che si potrebbe definire orgoglio per la mia carriera accademica è che le mie lezioni sono state regolarmente frequentate da un numero di studenti più alto della norma e che ho diretto con successo un numero elevato di tesi di dottorato. Per dirla diversamente, sono stati i miei studenti che, innanzitutto, hanno concesso una qualche validità alle mie attività di docente universitario.
Nel 1974, un anno dopo la laurea, ritornai all’Università di Hull per iniziare un dottorato, sotto la “supervisione” di John Barnes, sullo stile della Commedia. La ricerca partiva dal commento alle Rime dantesche di Kenelm Foster e Patrick Boyde (Oxford, At the Clarendon Press, 1967), e in particolare dal libro di Boyde, Dante’s Style in his Lyric Poetry (Cambridge, Cambridge University Press, 1971), nel quale Pat aveva analizzato in maniera indubbiamente orginale lo stile di Dante lirico integrando la retorica medievale e la stilistica moderna. In pochissimo tempo, la mia ricerca, però, si trovò in un’impasse. Per mia fortuna, grazie alle mie pubblicazioni, nel 1976 vinsi il concorso di lecturer (professore assistente) all’Università di Aberdeen. In Scozia, il lavoro sulla tesi di PhD non progrediva. Mi misi a scrivere saggi su altri temi, grazie ai quali, nell’autunno del 1979, potei trasferirmi al mitico Department of Italian dell’Università di Reading. Anche qui, malgrado un ambiente intellettuale veramente second-to-none, la tesi dottorale non trovava vie di sbocco. Persistevo nel tentativo di rendere le mie liste di metafore, di similitudini, di ripetizioni, ecc. criticamente illuminanti. Tuttavia, in qualsiasi modo le organizzassi, restavano pur sempre di scarso, perché banale, interesse. I loro legami con la complessa e innovativa ricchezza formale della Commedia parevano pressappoco inesistenti. Per dirla semplicemente, non riuscivano a offrire un qualsiasi tipo di approfondimento che potesse gettare un po’ di luce sull’energia e sul valore della novitas dantesca. Ero capace di “smontare” le terzine della Commedia nei loro elementi costitutivi, di organizzare questi secondo le norme e i precetti della retorica medievale, e di capire che il carattere formale del poema era evidentemente diverso da quello dell’Eneide, della Vulgata, del Roman de la rose e delle altre opere dell’Alighieri; anche se poi, nella Commedia, vi era qualcosa di ognuno di questi testi e molto altro ancora. Il problema era come integrare le mie intuizioni crudamente embrionali sullo sperimentalismo dantesco con i dati stilistici che seguitavo ad accumulare, cosicché non solo il “tutto” fosse analizzabile, ma potesse anche condurre a un’ipotesi che spiegasse perché Dante avesse composto la Commedia nel modo eccezionale in cui l’aveva scritta. Nello sfogliare le mie pubblicazioni della prima metà degli anni ottanta, mi è ora chiaro che ero profondamente scoraggiato: quasi nessuna tratta di cose dantesche. È indubbio che mi stavo distaccando da Dante, dalla Commedia e dal fare il dantista.
Ho sempre letto molto, e anche con una certa rapidità. Per aiutarmi a comprendere il ruolo della retorica nel mondo tardo-medievale, lessi manuali di retorica, commenti scolastici a opere letterarie, filosofiche e bibliche, le ricerche di studiosi, da Curtius ad Auerbach, da de Lubac a Smalley, da Contini a Dionisotti, da Stock a Wetherbee, da Allen a Zumthor, che avevano considerato le strutture della letteratura medievale da prospettive ampie e culturalmente raffinate. E finalmente qualcosa scattò; e fu qualcosa di molto semplice. Poiché non avevo la minima idea di cosa costituisse lo “stile” per Dante e per il Mediovo, non mi era possibile valutare lo stile della Commedia con sensibilità storica e filologica, e quindi non mi era possibile giudicare come un autore medievale pensasse “professionalmente” al proprio fare di scrittore e a quanto stava vergando. Capito questo, le cose incominciarono a chiarirsi. Per troppi anni avevo considerato lo stile della Commedia in un vuoto: in termini puramente e astrattamente formali. Inoltre, come quasi tutti gli altri studiosi di letteratura medievale, avevo lasciato incontestata l’ovvietà critico-storica secondo la quale, agli inizi del Duecento, se non molto prima, la riflessione metaletteraria era sparita. Per gli specialisti, il Medioevo andava considerato come un’epoca senza critica e teoria letteraria.
Le mie riflessioni cominciarono pian piano a sistemarsi. Ricordai che stilus, e termini che parevano sinonimici, quali modus, maneria, figura, ritornavano con frequenza particolarmente nei testi tecnici che avevo letto. In seguito a questa prima intuizione, divenne sempre più ovvio che, lungi dall’essere sparite, la teoria e la critica letteraria godevano di ottima salute nell’età di mezzo. In verità, non poteva essere altrimenti in una cultura le cui istituzioni educative e religiose si fondavano sull’interpretazione di libri sacri e autorevoli. La riflessione medievale sui testi era quindi diffusa, penetrante, raffinata e determinante. Molto più significativamente, capii che le opere dantesche erano intrise di elementi che si potevano unicamente definire come appartenenti alla teoria e critica letteraria, e che questi elementi avevano le loro origini nei discorsi esegetici contemporanei. Benché, già durante gli anni trenta, Contini avesse attirato l’attenzione alle sensibilità metaletterarie dell’Alighieri, la verità è che, in generale, i dantisti non avevano reagito alle fondamentali intuizioni del maestro. Mi trovavo dunque in una zona largamente inesplorata, i cui contorni avevo il privilegio di poter iniziare a tracciare. Mi lasciai alle spalle, e definitivamente, i tentativi futili di descrivere formalisticamente lo stile della Commedia, e mi diedi allo studio dei rapporti di Dante con la critica e la teoria letteraria dei suoi tempi e dei modi originalissimi in cui il Nostro rielaborò entrambe queste tradizioni interconnesse. Oggi questo costituisce uno dei campi principali degli studi danteschi. Verso la metà degli anni ottanta, però, era elettrizzante trovarmi a essere quasi solo nell’indagare, per esempio, la sfida radicale del poeta alle poetiche medievali; la novitas delle sue forme esegetiche e delle sue proposte metaletterarie; i modi inediti in cui riplasmava nozioni e terminologie critiche standard (basta pensare alla designazione “inappropriata” del suo capolavoro come «comedía»); la ridefinizione dantesca del canone degli auctores classici; e la costante, ossessiva premura di auto-legittimarsi e di auto-autorizzarsi non solo come l’auctor volgare e “moderno” preminente, ma anche come scriba Dei divinamente ispirato. Finalmente, cominciavo a percepire le ragioni — almeno in termini per me convincenti — delle scelte stilistiche di Dante: poeta, più di qualsiasi altro, del tutto immerso nel suo mondo, ma anche radicale innovatore di quello stesso mondo particolarmente nelle sue strutture linguistiche e letterarie; e, nel 1996, ho pubblicato una serie di articoli riveduti e interconnessi su Dante critico con il titolo «Sole nuovo, luce nuova». Saggi sul rinnovamento culturale in Dante (Torino, Scriptorium, 1996; seconda edizione Roma, Castelvecchi, 2021).
Non ho mai pensato alle mie ricerche in termini di “libri” ma sempre di “problemi”. Mi sono poi, normalmente, occupato di questi “problemi” individualmente, elaborando singoli saggi, a volte di una certa lunghezza. Fu per ragioni di necessità accademica che, per la prima volta, circa il 1994, capii che, rivisti, alcuni dei miei articoli avrebbero potuto trasformarsi in una quasi-monografia. Necessità accademica? Negli anni ottanta erano iniziate in Gran Bretagna le valutazioni nazionali della ricerca universitaria — valutazioni che ora sono diventate la norma — e il 1996 era l’anno del Research Assessment Exercise. Poter sottomettere alla considerazione non soltanto articoli ma anche un libro era considerato un vantaggio (gli assessment exercises sono cose serie poiché da essi dipendono i finanziamenti per la ricerca). Ed è così, in maniera un po’ opportunistica, ma anche grazie all’incoraggiamento acuto e amichevole di Giulio Lepschy, che si costituì il mio primo libro. Più tardi, mi sono reso conto che, messi insieme, altri dei miei contributi discreti potrebbero difatti avere una coerenza simile a una monografia (la mia collezione più recente è la monumentale Dante, Perarch, Boccaccio. Literature, Doctrine, Reality [Cambridge, Legenda, 2020]).
In un certo senso, anche più importante del mio fortuito inciampare in Dante critico, è stata la lezione di scetticismo accademico che ho imparato. Fin dalla metà degli anni ’80, mi sono posto lo scopo di controllare la validità delle ortodossie critiche, delle ovvietà piccole e grandi che delimitano e sostengono le aree di ricerca in cui lavoro. E un tale atteggiamento si è rivelato necessario e produttivo. In generale, gli studi danteschi sono un campo inaspettatamente “conservatore”, e quindi un campo strapieno di principi critici e storici accettati e (da lungo) non verificati. Credo fermamente che il mio miglior lavoro di dantista sia stato alimentato da un pragmatico imperativo al dubbio, che è stato accompagnato da un’attitudine pratica a porre domande che il dantismo tendeva a ignorare. Ad esempio, semplicemente chiedere “Perché Dante ha chiamato un canto «canto»” può portare a risposte altamente suggestive. Nel settembre del 1993 tenni la conferenza commemorativa a Ravenna in occasione dell’anniversario della morte di Dante. La conferenza tentava di rispondere alle domande gemelle: “Dove andò a scuola Dante e quali erano le istituzioni educative della Firenze di fine Duecento?”. Da queste domande nacque quello che oggi viene sempre più definito lo studio della formazione intellettuale di Dante: come, dove, quando e con quali mezzi il poeta giunse a conoscere le cose che sapeva e, per estensione, quali potrebbero essere gli influssi di quello che era un processo di apprendimento non sistematico, eclettico e casuale sulla sua opera. In effetti, e spero che questo non suoni troppo auto-esaltante, non è del tutto scorretto sostenere che ho influenzato notevolmente questo settore di studio negli anni ’90, e soprattutto dopo la pubblicazione del mio libro del 2000, Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri (Napoli, Liguori). Dopo un inizio difficile, il libro è stato accolto molto positivamente. I colleghi si sono generalmente trovati concordi sul fatto che esso presenta un’interpretazione più sfumata dello sviluppo intellettuale del poeta rispetto a quella che, per circa un secolo, aveva dominato gli studi danteschi. L’opinione prevalente, prima della pubblicazione del mio libro, era che il poeta fosse principalmente, se non esclusivamente, influenzato dalle tradizioni razionaliste, in particolare aristoteliche. Dante e i segni, al contrario, sostiene che, nel corso della sua carriera, Dante è stato anche significativamente influenzato da correnti simboliche ed esegetiche con debiti pesanti verso la Sacra Scrittura, correnti che ponevano enfasi sulla fede, la rivelazione e l’ispirazione divina. Piuttosto che permettere che una singola tradizione intellettuale o epistemologia controllasse il suo pensiero, Dante amalgamò tradizioni diverse in sintesi originali, valutando in questo modo la loro relativa efficacia come forme di conoscenza e illuminazione. Dalla comparsa di Dante e i segni, i dantisti in Italia e soprattutto nel mondo anglosassone hanno utilizzato le mie intuizioni per aiutarli a sviluppare importanti studi e progetti di ricerca sulla natura dell’educazione e delle letture del poeta (soprattutto a Firenze tra gli anni 1280 e 1300); sul carattere del suo sincretismo; sui suoi fondamentali debiti verso la Bibbia e la sua tradizione esegetica; sulla profonda impronta teologica che segna l’opera dantesca; sui legami del poeta con le tradizioni contemplative, liturgiche, confessionali e affettive; e, quindi, sulla sua condizione di scrittore religioso. Mi vedo lavorare su questi e simili problemi per il futuro prossimo.